Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 17126 del 28/02/2018


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 17126 Anno 2018
Presidente: ROSI ELISABETTA
Relatore: CORBETTA STEFANO

SENTENZA

sui ricorsi proposti da
1. Bosco Gaetano, nato a Napoli il 15/09/1956
2. Bosco Giuseppina, nata a Napoli il 11/04/1981
3. Bosco Rita, nata a Napoli il 14/12/1988
4. Carpi Nicola, nato a Napoli il 10/01/1957
5. Rocco Alessandro, nato a Pozzuoli il 20/11/1976
6. Zurro Gianluca, nato a Napoli il 17/02/1977

avverso la sentenza del 13/01/2017 della Corte d’appello di Napoli

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Stefano Corbetta;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale
Gianluigi Pratola, che ha concluso chiedendo l’inammissibilità dei ricorsi;
uditi i difensori, avv. Raffaele Leone, del foro di Napoli, per Gaetano Bosco, Rita
Bosco, Nicola Carpi, Alessandro Rocco, Giuseppina Bosco, avv. Stefano Montone,
del foro di Napoli, per Giuseppina Bosco e Gianluca Zurro, e avv. Andrea
Palmiero, del foro di Roma, che hanno concluso chiedendo l’accoglimento dei
ricorsi.

Data Udienza: 28/02/2018

RITENUTO IN FATTO

1. In parziale riforma della sentenza resa, all’esito del giudizio
abbreviato, dal g.i.p. del tribunale di Napoli in data 29 gennaio 2013,
appellata dagli imputati e dal p.m., con sentenza emessa in data 13 gennaio
2017 la Corte d’appello di Napoli, ai fini che qui rilevano, applicava a Rita
Bosco il beneficio della sospensione condizionale della pena, nel resto
confermando la sentenza di primo grado. In particolare, in entrambi i gradi

penale responsabilità di: Gaetano Bosco, Giuseppina Bosco, Carpi Nicola e
Alessandro Rocco in relazione al delitto di cui all’art. 416 cod. pen. per aver
fatto parte di un’associazione per delinquere – i primi due nella veste di
promotori ed organizzatori, gli altri quale meri partecipi con il ruolo di
procacciatori di clienti – composta da più di dieci persone, finalizzata alla
commissione di più delitti di evasione fiscale previsti dal d.lgs. n. 74 del
2000 (capo A); Rita Bosco e Gianluca Zurro in relazione al delitto di cui agli
artt. 110, 416 cod. pen., loro rispettivamente contestato ai capi C) e E),
perché, in concorso con i soggetti indicati al capo A) e in stretta sinergia con
i promotori ed organizzatori ed effettuando la redazione delle fatture
sanitarie false per supportare le false dichiarazioni dei redditi, apportavano
un contributo concreto ai fini della conservazione, del rafforzamento e della
operatività dell’associazione di cui al capo A) in un momento di sua
fibrillazione; Gaetano Bosco, Giuseppina Bosco e Gianluca Zurro in relazione
al reato di cui agli artt. 110, cod. pen. e 2 d.lgs. n. 74 del 2000, per avere,
in concorso con altri correi di volta in volta indicati, al fine di evadere le
imposte sui redditi o sul valore aggiunto, avvalendosi di falsa
documentazione attestante spese sanitarie mai sostenute e dunque relative
ad operazioni inesistenti, indicato, nelle dichiarazioni dei redditi mod.
730/2009, relative ai redditi prodotti nell’anno 2008, elementi passivi fittizi,
per un ammontare come indicato nei capi F), G), H), I), 3), K), L), M), N),
O), P), Q), R), S), T), U), V), W), X), Y), Z), AA), BB), CC), DD), EE), FF),
GG); Alessandro Rocco in relazione al solo reato di cui al capo FF). In
estrema sintesi, agli imputati, nei ruoli sopra indicati, era ascritto di avere
organizzato e partecipato a un sodalizio criminale, esistente ed operante nel
territorio napoletano, che attraverso la predisposizione di documentazione
sanitaria materialmente falsa (apparentemente emessa da cliniche private),
aveva consentito a numerosi contribuenti di presentare dichiarazioni dei
redditi fraudolente per l’esposizione di spese sanitarie mai sostenute (per le
quali spetta la detrazione Irpef del 19%), così pervenendosi all’illecito

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di merito, ritenuta la continuazione tra i fatti contestati, è stata affermata la

risultato di fare ottenere agli stessi un rimborso Irpef non dovuto, pari
complessivamente ad 2.709.783,00 euro, il cui ammontare veniva versato
dai singoli contribuenti, nella metà, al sodalizio criminoso.
Bosco Giuseppina veniva, altresì, ritenuta responsabile di un’ulteriore
violazione dell’art. 416 cod. pen., per aver fatto parte di un’associazione per
delinquere — nella veste di promotore e di capo — finalizzata alla
commissione di più delitti di evasione fiscale previsti dal d.lgs. n. 74 del
2000 (capo HH) – ovviamente diversa da quella di cui al capo A, benché

110 cod. pen., 2 d.lgs. n. 74 del 2000, per avere, in concorso con altri correi
di volta in volta indicati, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore
aggiunto, avvalendosi di falsa documentazione attestante spese sanitarie
mai sostenute, e dunque relative ad operazioni inesistenti, indicato, nelle
dichiarazioni dei redditi mod. 730/2009, relative ai redditi prodotti nell’anno
2008, elementi passivi fittizi, per un ammontare indicato nel capo II).

2.

Avverso l’indicata ordinanza propongono ricorso per cassazione gli

imputati Gaetano Bosco, Giuseppina Bosco, Rita Bosco, Carpi Nicola, Alessandro
Rocco e Gianluca Zurro.

3. Il ricorso di Gaetano Bosco è affidato a un unico, articolato motivo, con
cui si deduce nullità della sentenza per violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b)
e lett. c) cod. proc. pen. Il ricorrente, in particolare, contesta: la sussistenza del
delitto associativo di cui al capo A), in quanto le condotte poste in essere dagli
imputati sarebbero sussumibili nell’ipotesi di concorso di persone in un reato
continuato, e, in ogni caso, non sarebbe ravvisabile, in capo al Bosco, il ruolo di
promotore; la mancata derubricazione del delitto di cui all’art. 2 d.lgs. n. 74 del
2000 in quello previsto dall’art. 4, ovvero dell’art. 3 del medesimo d.lgs.; il
trattamento sanzionatorio, che non avrebbe considerato il corretto contegno
processuale del Bosco, il quale, peraltro, è privo di pendenze giudiziarie.

4. Il ricorso di Giuseppina Bosco è affidato a quattro motivi.
4.1. Con il primo motivo si lamenta, con riferimento al delitto associativo
contestato ai capi A) e HH), violazione ed erronea applicazione della legge penale
in relazione all’art. 416 cod. pen., nonché vizio motivazionale in ordine alla
sussistenza del delitto in esame. Assume la ricorrente che i giudici di merito
avrebbero erroneamente ravvisato gli elementi costitutivi dei delitti di cui all’art.
416 cod. pen., in luogo del concorso di persone nel reato continuato, facendo
leva su elementi non risolutivi – ossia: l’intenso legame tra gli imputati, la

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avente lo stesso modus operandi – e relativi delitti scopo, di cui agli artt.

distribuzione operativa dei ruoli, il numero rilevante di delitti fine – che pure
caratterizzano il concorso di persone nel reato continuato, e considerando che
l’iniziale accordo aveva ad oggetto una serie, unitaria anche nel tempo, di
dichiarazioni mendaci.
4.2. Con il secondo motivo si eccepisce, pure in riferimento al delitto
associativo contestato ai capi A) e HH), violazione ed erronea applicazione della
legge penale in relazione al comma 1 dell’art. 416 cod. pen., difetto di
motivazione e travisamento della prova. Deduce la ricorrente che, dalla lettura

sovraordinato di Gaetano Bosco rispetto a quello della ricorrente quanto
all’associazione di cui al capo A), dal momento che è il Gaetano Bosco che si
manifesta quale unico e reale capo del sodalizio nei momenti più significativi,
ossia nella fase ideativa iniziale, contattando l’avv. Testa e il “professore”
Orlando per organizzare e pianificare gli illeciti, e in quello di risoluzione della
crisi, provocata dalla richiesta del Pariotti, responsabile CAF, di esibire la
documentazione giustificativa dei dati di spesa. Quanto al delitto di cui al capo
HH), la Corte territoriale avrebbe parimenti ravvisato il ruolo apicale della Bosco
con una motivazione scarna e frutto di una lettura parziale delle fonti di prova.
4.3. Con il terzo motivo si eccepisce, con riferimento alle imputazione
relative ai reati fine di cui ai capi F), G), H), I), 3), K), L), M), N), O), P), Q), R),
S), T), U), V), W), X), Y), Z), AA), BB), CC), DD), EE), FF), GG), II), violazione
ed erronea applicazione della legge penale in relazione all’art. 2 d.lgs. n. 74 del
2000. Secondo la prospettazione difensiva, le dichiarazioni truffaldine furono
elaborate ed immesse informaticamente nel sistema senza alcun documento
giustificativo, falsamente creato ex post alla richiesta del responsabile del CAF di
esibire la documentazione rappresentativa della poste portate in detrazione; di
conseguenza, il fatto non rientrerebbe nella fattispecie di cui all’art. 2 d.lgs. n.
74 del 2000, essendo invece sussumibile nella diversa ipotesi contemplata
dall’art. 4 del medesimo d.lgs., che punisce la “dichiarazione infedele”, ovvero, in
subordine, di quella di cui all’art. 3, comma 1 o comma 2, d.lgs. n. 74 del 2000.
4.4. Con il quarto motivo si lamenta violazione di legge in relazione all’art.
133 cod. pen. e difetto di motivazione in relazione al complessivo trattamento
sanzionatorio. Deduce la ricorrente che, anche in relazione all’applicazione delle
circostanze di cui all’art. 62 bis cod. pen., la Corte territoriale non avrebbe
tenuto conto del contegno ampiamente collaborativo della Bosco, che ha reso
dichiarazioni auto ed etero accusatorie, fornendo importanti elementi di riscontro
in relazione alla posizione di altri coimputati.

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delle intercettazioni riportate nella sentenza impugnata, emergerebbe il ruolo

5. Il ricorso di Rita Bosco si articola in un unico, composito, motivo, con cui
si deduce la nullità della sentenza per violazione ed erroneo riconoscimento della
responsabilità ai sensi degli artt. 110, 416 cod. pen. Secondo la ricorrente, la
motivazione della sentenza impugnata sarebbe apodittica e priva di qualsivoglia
riscontro; in ogni caso, la condotta ascritta alla Bosco potrebbe al più integrare il
delitto di cui all’art. 379 cod. pen., come sollecitato nei motivi di appello, a cui la
Corte territoriale avrebbe fornito una risposta lacunosa e insoddisfacente.

tramite del medesimo difensore di fiducia, sebbene presentati con atti distinti e
separati, tuttavia hanno contenuto sostanzialmente identico e sono affidati a un
unico, articolato, motivo comune ad entrambi gli imputati.
In primo luogo si contesta l’affermazione di penale responsabilità in
relazione al disposto di cui agli artt. 110, 416 cod. pen., essendo piuttosto
configurabile, nel caso in esame, un’ipotesi di concorso in reato continuato, ai
sensi degli artt. 110 e 81 cpv. cod. pen. Sotto altro profilo, non sarebbe
comunque ravvisabile, sotto il profilo oggettivo, la qualità di partecipe nel ruolo
di procacciatore di clienti, e, sotto il profilo soggettivo, il dolo richiesto dall’art.
416 cod. pen., tanto più che la prova si fonderebbe sul contenuto di numero
esiguo di telefonate, intercettate nell’arco di tre mesi quanto al Carpi, e di due
mesi quanto al Rocco. Infine, si censura il trattamento sanzionatorio, nella parte
relativa sia all’individuazione della pena base, stimata eccessiva, sia alla
mancata applicazione delle circostanze attenuanti generiche.

7. Il ricorso di Gianluca Zurro si articola in quattro motivi.
7.1. Con il primo motivo si lamenta, con riferimento al concorso esterno
contestato al capo E), violazione ed erronea applicazione della legge penale in
relazione all’art. 416 cod. pen., nonché vizio motivazionale in ordine alla
sussistenza del delitto in esame. Deduce il ricorrente che i giudici di merito
avrebbero erroneamente ravvisato gli elementi costitutivi del delitto di cui all’art.
416 cod. pen., facendo leva su elementi non risolutivi – ossia: l’intenso legame
tra gli imputati, la distribuzione operativa dei ruoli, il numero rilevante di delitti
fine – che pure caratterizzano il concorso di persone nel reato continuato, e
considerando che l’iniziale accordo aveva ad oggetto una serie, unitaria anche
nel tempo, di dichiarazioni mendaci.
7.2. Con il secondo motivo si eccepisce, in riferimento al capo E), violazione
ed erronea applicazione della legge penale in relazione agli artt. 110 e 416 cod.
pen., difetto di motivazione in relazione alla sussistenza del dolo. Al proposito, la
sentenza impugnata non avrebbe valutato aspetti che, ad avviso del ricorrente,

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6. I ricorsi proposti nell’interesse di Carpi Nicola e di Alessandro Rocco, per il

sarebbero decisivi, quali: il fatto che Zurro è il marito di Giuseppina Bosco, ossia
di colei materialmente responsabile dell’elaborazione e della trasmissione
informatica delle dichiarazioni; lo Zurro fu coinvolto quando le dichiarazioni
mendaci erano già state predisposte e trasmesse. Sulla base di queste
circostanze, sarebbe chiara, ad avviso del ricorrente, la volontà di Zurro di
aiutare non l’associazione, quanto la moglie, ciò che quindi esclude la
sussistenza del dolo del delitto associativo.
7.3. Con il terzo motivo si eccepisce, con riferimento alle imputazione

S), T), U), V), W), X), Y), Z), AA), BB), CC), DD), EE), FF), GG), violazione ed
erronea applicazione della legge penale in relazione al disposto dell’art. 110 cod.
pen., nonché agli artt. 378 e 379 cod. pen. Assume il ricorrente che lo Zurlo fornì
il proprio contributo quando le false dichiarazioni erano già state formate e
trasmesse, e, quindi, quando i reati si erano già perfezionati; la condotta,
pertanto, non rileverebbe ai sensi dell’art. 110 cod. pen., quanto a norma
dell’art. 378 ovvero dell’art. 379 cod. pen.
7.4. Con il quarto motivo si lamenta con riferimento alle imputazione
relative ai reati fine di cui ai capi F), G), H), I), 3), K), L), M), N), O), P), Q), R),
S), T), U), V), W), X), Y), Z), AA), BB), CC), DD), EE), FF), GG), violazione ed
erronea applicazione della legge penale in relazione all’art. 2 d.lgs. n. 74 del
2000. Secondo la prospettazione difensiva, i falsi documenti furono creati in un
momento successivo all’elaborazione informatica e alla trasmissione della
dichiarazione e non furono registrati nelle scritture obbligatorie dei soggetti
emittenti, sicché il fatto non rientrerebbe nella fattispecie di cui all’art. 2 d.lgs. n.
74 del 2000, essendo invece sussumibile nella diversa ipotesi contemplata

dall’art. 4 del medesimo d.lgs., ovvero, in subordine, di quella di cui all’art. 3,
comma 1 o comma 2, d.lgs. n. 74 del 2000.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. I ricorsi sono inammissibili, essendo i motivi manifestamente infondati, in
quanto meramente riproduttivi delle medesime doglianze avanzate nei giudizi di
merito, alle quali il tribunale prima, la Corte d’appello poi, hanno fornito
un’adeguata risposta, giuridicamente corretta e immune da vizi logici.

2.

In premessa, vale osservare che si è in presenza di una “doppia

conforme” statuizione (di responsabilità), il che limita, all’evidenza, i poteri di
rinnovata valutazione della Corte di legittimità, nel senso che, ai limiti

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relative ai reati fine di cui ai capi F), G), H), I), K), L), M), N), O), P), Q), R),

conseguenti all’impossibilità per la Cassazione di procedere ad una diversa
lettura dei dati processuali o una diversa interpretazione delle prove, perché è
estraneo al giudizio di cassazione il controllo sulla correttezza della motivazione
in rapporto ai dati probatori, si aggiunge l’ulteriore limite in forza del quale
neppure potrebbe evocarsi il tema del “travisamento della prova”, a meno che
(ma non è questo il caso, alla luce dei motivi di ricorso) il giudice di merito abbia
fondato il proprio convincimento su una prova che non esiste o su un risultato di
prova incontestabilmente diverso da quello reale, considerato che, in tal caso,

ai fini della decisione, ma di verificare se detti elementi sussistano.
Invero, ai fini del controllo di legittimità sul vizio di motivazione, la struttura
giustificativa della sentenza di appello si salda con quella di primo grado, per
formare un unico complessivo corpo argomentativo, allorquando i giudici del
gravame, esaminando le censure proposte dall’appellante con criteri omogenei a
quelli del primo giudice ed operando frequenti riferimenti ai passaggi logico
giuridici della prima sentenza, concordino nell’analisi e nella valutazione degli
elementi di prova posti a fondamento della decisione (Sez. 3, n. 44418 del
16/07/2013 – dep. 04/11/2013, Argentieri, Rv. 257595; Sez. 3, n. 13926 del
01/12/2011 – dep. 12/04/2012, Valerio, Rv. 252615), ciò che è ravvisabile nel
caso di specie.

3.

Quanto al motivo, comune a Gaetano Bosco, Giuseppina Bosco,

Alessandro Rocco e a Gianluca Zurro, Rocco, incentrato sulla mancata
riqualificazione del reato associativo nell’ipotesi di mero concorso di persone nel
reato continuato, ai sensi degli artt. 110, 81, comma 2, cod. pen., si osserva
quanto segue.

4. Secondo il constante orientamento della giurisprudenza di legittimità, ai
fini della configurabilità del delitto di associazione per delinquere, è necessaria la
predisposizione di un’organizzazione strutturale, sia pure minima, di uomini e
mezzi, funzionale alla realizzazione di una serie indeterminata di delitti, nella
consapevolezza, da parte di singoli associati, di far parte di un sodalizio durevole
e di essere disponibili ad operare nel tempo per l’attuazione del programma
criminoso comune (Sez. 2, n. 20451 del 03/04/2013 – dep. 13/05/2013,
Ciaramitaro e altri, Rv. 256054; Sez. 6, n. 3886 del 07/11/2011 – dep.
31/01/2012, Papa e altri, Rv. 251562).
In altri termini, l’associazione per delinquere si caratterizza per tre
fondamentali elementi, costituiti: a) da un vincolo associativo tendenzialmente
permanente, o comunque stabile, destinato a durare anche oltre la realizzazione

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non si tratta di reinterpretare gli elementi di prova valutati dal giudice di merito

dei delitti concretamente programmati; b) dalla tendenziale indeterminatezza del
programma criminoso; c) dall’esistenza di una struttura organizzativa, sia pur
minima, ma idonea e soprattutto adeguata a realizzare gli obiettivi criminosi
presi di mira (Sez. 1, n. 10107 del 14/07/1998 – dep. 25/09/1998, Rossi e altri,
Rv. 211403). Va, altresì, precisato che la realizzazione di una sola tipologia di
delitti, quale scopo dell’associazione, non si pone in contrasto con il carattere
indeterminato del programma criminoso, giacché esso attiene al numero, alle
modalità, ai tempi e agli obiettivi dei delitti progettati, che possono perciò anche

configurabilità del delitto associativo.
Quanto all’elemento soggettivo, il dolo richiesto dalla fattispecie in esame
esige la consapevolezza, in capo all’agente, di far parte del sodalizio criminoso e
la volontà di rendersi disponibile a cooperare per l’attuazione del comune
programma delinquenziale.
Con riferimento ai profili probatori, si è esattamente affermato che, ai fini
della configurabilità di un’associazione per delinquere, legittimamente il giudice
può dedurre i requisiti della stabilità del vincolo associativo, trascendente la
commissione dei singoli reati-fine, e dell’indeterminatezza del programma
criminoso, che, come si vedrà, segna la distinzione con il concorso di persone,
dal susseguirsi ininterrotto, per un apprezzabile lasso di tempo, delle condotte
integranti detti reati ad opera di soggetti stabilmente collegati (Sez. 2, n. 53000
del 04/10/2016 – dep. 14/12/2016, Basso e altri, Rv. 268540, fattispecie in cui
la Corte ha confermato la sussistenza di un’associazione per delinquere
finalizzata alla commissione di frodi in assicurazione osservando che, a fronte
della gestione di un numero cospicuo di sinistri simulati, i compartecipi non
potevano non rappresentarsi che lo studio professionale di uno di loro fungesse
da struttura organizzata per la commissione delle frodi).

5. Ciò chiarito in ordine agli elementi costitutivi della fattispecie prevista
dall’art. 416 cod. pen., la differenza tra il delitto il reato associativo e il concorso
di persone nel reato continuato risiede nell’oggetto dell’accordo: nel primo caso è
finalizzato all’attuazione di un più vasto programma, volto alla perpetrazione di
una serie indeterminata di delitti, con la permanenza di un vincolo associativo tra
i partecipanti, ciascuno dei quali ha la costante consapevolezza di essere un
associato, anche indipendentemente dall’effettiva commissione dei singoli reati
programmati; nel secondo, invece, viene stretto in via occasionale e limitata,
essendo diretto soltanto alla commissione di più reati determinati, ispirati da un
unico disegno criminoso che li comprende tutti.

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integrare violazioni di un’unica disposizione di legge, senza che ciò incida sulla

Deve perciò darsi continuità all’indirizzo secondo cui il discrimen tra reato
associativo e concorso di persone nel reato continuato risiede non nel profilo
organizzativo, che ben può essere comune in entrambi i casi, ma nel fatto che,
con riguardo all’ipotesi di cui agli artt. 110, 81, comma 2, cod. pen. l’accordo
criminoso è occasionale e limitato, in quanto diretto soltanto alla commissione di
più reati determinati, ispirati da un unico disegno che li prevede tutti (Sez. 6, n.
36131 del 13/05/2014 – dep. 25/08/2014, Torchia, Rv. 260292).
Una differenza del genere si riverbera sull’elemento soggettivo. E difatti

l’attuazione di un programma criminoso – sì che, da un lato, esso precede
l’accordo particolare relativo ad ognuno dei delitti genericamente compresi nel
programma ed ai mezzi ed alle modalità della loro esecuzione e, dall’altro, esso
permane anche e indipendentemente dai delitti predetti per l’ulteriore attuazione
del programma di delinquenza prestabilito – esso integra uno degli elementi
costitutivi del delitto di associazione per delinquere, il quale, quindi, può
sussistere sia se i singoli delitti genericamente programmati non siano stati
commessi, sia se gli stessi siano stati commessi in tutto o in parte, sia, infine, se
i delitti commessi siano stati, in tutto o in parte, per tutti o anche per uno solo
degli associati, ritenuti unificati dal vincolo della continuazione.

6. Venendo al caso in esame, quanto al delitto contestato a capo A), sulla
base dell’attività captazione, dei sequestri e delle dichiarazioni auto ed etero
accusatorie rese da alcuni degli originari coindagati (come Testa e Orlando) e
della stessa Giuseppina Bosco, la Corte territoriale, con accertamento in fatto (p.
31-33) non sindacabile in questa sede, ha ravvisato la sussistenza di uno stabile
vincolo associativo, tra diversi soggetti, tra cui Gaetano Bosco, Giuseppina
Bosco, Alessandro Rocco, Nicola Carpi, finalizzato alla commissione di una serie
indeterminata di reati di evasione fiscale, come attestato dalla notevole quantità
di episodi contestati, nell’ordine delle centinaia, per il tramite di una struttura
organizzativa, non particolarmente sofisticata, ma adeguata al raggiungimento
dello scopo, che si occupava di predisporre i mezzi occorrenti per la sua
realizzazione – mediante i contatti con i centri di raccolta delle dichiarazioni e i
loro responsabili, l’individuazione dei clienti compiacenti, la formazione della
falsa documentazione – e di eseguirlo, attraverso la presentazione delle
dichiarazioni dei redditi e della documentazione allegata. Il modus operandi era
ampiamente collaudato: venivano contattati i contribuenti disposti a presentare
dichiarazioni dei redditi infedeli, quindi venivano formate le fatture false, da
allegare alle dichiarazioni dei redditi 730, che, una volta predisposte
materialmente, per il tramite dei centro di raccolta gestito da Antonio Testa,

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quando l’accordo, di carattere generale e continuativo, ha per oggetto

venivano trasmesse al CAF “Acai dipendenti e pensionati”, ove poi il responsabile
dell’assistenza fiscale, Luciano Pariotti, le inviava telematicamente all’Agenzia
delle Entrate. A seguito dell’analisi della documentazione sequestrata presso la
sede CAF del Parioti, è emerso che 587 contribuenti, gestiti dal sodalizio
criminoso, avevano indicato nelle dichiarazioni dei redditi modello 730/2009 circa
14 milioni di spese mediche giustificate da false fatture, ciò che ha determinato
un credito IRPEF per oltre 2,6 milioni di euro già rimborsato dall’Erario.
A ulteriore riprova dell’esistenza di un vincolo stabile e permanente tra gli

CAF, insospettito dall’enorme numero di richieste di rimborso ricevute, chiese la
produzione di documentazione integrativa a sostegno delle pratiche, Giuseppina
Bosco e Gaetano Bosco iniziarono a discutere dei provvedimenti da adottare,
decidendo di preparare, nel fine settimana, la documentazione falsa, da
depositare il lunedì successivo al CAF, scegliendo a campione tra i loro clienti
abituali di antica data (“che lo fanno con noi da sette, otto anni, non fare i nuovi
arrivati, capito”), a dimostrazione della durata, nell’ordine, appunto, di sette-otto
anni, del pactum sceleris.

7. Quanto al ruolo di capo, ascritto, al capo A), a Gaetano Bosco e a
Giuseppina Bosco, e da costoro contestato, va ribadito il principio secondo cui,
nel reato di associazione per delinquere, “capo” è non solo il vertice
dell’organizzazione, quando questo esista, ma anche colui che abbia incarichi
direttivi e risolutivi nella vita del gruppo criminale e nel suo esplicarsi quotidiano
in relazione ai propositi delinquenziali realizzati (Sez. 4, n. 29628 del
21/06/2016 – dep. 13/07/2016, Pugliese e altri, Rv. 267464; Sez. 2, n. 19917
del 15/01/2013 – dep. 09/05/2013, Bevilacqua e altri, Rv. 255915).
Nel caso in esame, la Corte territoriale ha adeguatamente motivato sul
punto, desumendo il ruolo di vertice dei due imputati dalle funzioni di
coordinamento dell’attività degli associati e della funzionalità delle strutture,
come emerso dal contenuto delle telefonate intercettate, in cui Gaetano Bosco e
Giuseppina Bosco discutono in merito all’organizzazione dell’attività, alle direttive
da impartire agli associati, alla documentazione necessaria per la consumazione
delle frodi, alla necessità di formare elenchi dei contribuenti e di individuare il
loro riferente a cui rivolgersi nel caso di eventuali problematiche (come la
carenza di documentazione), nonché per la riscossione delle somme dovute
all’organizzazione a seguito dell’erogazione dei rimborsi. In secondo luogo, la
Corte territoriale ha valorizzato i colloqui tra Giuseppina Bosco e Gaetano Bosco,
a seguito della richiesta del Pariotti di integrazione della documentazione, ciò che

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associati, la Corte ha valorizzato il fatto che quando il Parioti, responsabile del

ha rappresentato un momento di “crisi” dell’associazione, a cui i due, proprio
nella veste di “capi”, cercarono di trovare una soluzione.
Si tratta di una motivazione non manifestamente illogica, ancorata a
elementi di fatto puntualmente indicati, che, quindi, supera il vaglio di
legittimità.

8. La sentenza non merita censure nemmeno in relazione alla posizione di
Carpi Nicola e di Alessandro Rocco, nei cui confronti la Corte territoriale ha

8.1. Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, elaborata
soprattutto in relazione all’associazione di cui all’art. 416 bis cod. pen. ma che è
perfettamente applicabile alla “generale” figura associativa di cui all’art. 416 cod.
pen., la nozione di “partecipazione” ha una valenza dinamico-funzionalistica, che
non solo implica un organico e stabile inserimento nella struttura organizzativa
dell’associazione, ma comporta anche, all’interno di essa, l’assunzione di un
ruolo effettivo e, in attuazione dei vincoli assunti, l’adempimento dei compiti
funzionali al raggiungimento dei scopi perseguiti dal sodalizio e la disponibilità
per le attività organizzate dal medesimo. Ne consegue che, sul piano della
dimensione probatoria della partecipazione, rilevano tutti gli indicatori fattuali dai
quali possa logicamente inferirsi il nucleo essenziale della condotta partecipativa,
e cioè la stabile compenetrazione del soggetto nel tessuto organizzativo del
sodalizio (Sez. U., n. 33748 del 12 luglio 2005; Sez. U., n. 22327 del 30 ottobre
2002; Sez. U., n. 30 del 27 settembre 1995; Sez. U., n. 16 del 5 ottobre 1994).
8.2. Nel caso in esame, la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione dei
principi ora indicati, affermando che i due imputati erano stabilmente inseriti nel
sodalizio criminoso con il compito di procacciare i clienti, procurando un numero
consistente di modelli 730 e mantenendo i contatti con gli intestatari delle
dichiarazioni dei redditi; costoro erano anche i responsabili della gestione delle
liste dei contribuenti, che assolvevano a una duplice, fondamentale, funzione: sia
per acquisire ulteriore documentazione, laddove fosse stata carente, sia – e
soprattutto – per riscuotere i soldi per conto dell’organizzazione a seguito
dell’effettiva erogazione dei rimborsi.
Si tratta di una motivazione non manifestamente illogica e giuridicamente
corretta, che, pertanto, va confermata.

9.

Le medesime considerazioni sopra espresse a proposito del delitto

associativo di cui al capo A) valgono anche in relazione all’omologa fattispecie di
cui al capo HH), contestata a Giuseppina Bosco. Anche in tal caso, sulla base
delle conversazioni intercettate, analiticamente riportate nella sentenza di primo

11

ravvisato la partecipazione al sodalizio di cui al capo A).

grado, e delle dichiarazioni etero accusatorie rese da Geremia Perrone e
Salvatore Perrone, ossia coloro che procacciavano i clienti, la Corte territoriale ha
ritenuto provata l’esistenza di un sodalizio, pure dedito alla realizzazione di
un’ingente mole di frodi fiscali, con un modus operandi del tutto identico a quello
dell’associazione di cui al capo A), alla cui trattazione si rinvia.
Quanto al ruolo svolto dalla Bosco in seno all’associazione in esame, va
premesso che promotore è colui che, da solo o con altri, si faccia iniziatore della
societas sceleris (Sez. 6, n. 403 del 16/01/1991 – dep. 16/01/1991, Ric. Marin

Bosco ha svolto il ruolo sia di promotore, sia di organizzatore; sulla base delle
prove acquisite (le dichiarazioni rese da Geremia Perrone, da Salvatore Perrone e
da alcuni contribuenti) è, infatti, emerso che fu proprio la Bosco, nel 2008, a
proporre a Geremia Perrone di procurare dichiarazioni dei redditi su cui
effettuare le frodi e di avere accettato, insieme al genitore, Salvatore Perrone,
concordando una quota pari al 10% dell’incasso, e di avere, poi, personalmente
consegnato i documenti alla Bosco, che, a sua volta, li portava presso un centro
di assistenza fiscale.
Si tratta, anche in tal caso, di una motivazione immune da vizi logici, che,
quindi, non è censurabile.

10. In relazione al motivo, comune a Rita Bosco e a Gianluca Zurro, diretto
a contestare la sussistenza del “concorso esterno”, si osserva che è ormai
incontroversa in giurisprudenza (le citate Sez. U., n. 33748 del 12 luglio 2005;
Sez. U., n. 22327 del 30 ottobre 2002; Sez. U., n. 30 del 27 settembre 1995;
Sez. U., n. 16 del 5 ottobre 1994) – e nemmeno oggetto di contestazione da
parte dei ricorrenti – l’astratta configurabilità della fattispecie di concorso
“eventuale” di persone, rispetto a soggetti diversi dai concorrenti necessari in
senso stretto, in un reato necessariamente plurisoggettivo proprio, quale è
quello di natura associativa.
10.1. Assume, perciò, la veste di concorrente esterno il soggetto che, non
inserito stabilmente nella struttura organizzativa dell’associazione e privo
dell’affectio societatis, fornisce un concreto, specifico, consapevole e volontario
contributo, che esplichi un’effettiva rilevanza causale e, quindi, si configuri come
condizione necessaria per la conservazione o il rafforzamento delle capacità
operative dell’associazione, e sia diretto alla realizzazione, anche parziale, del
programma criminosa della medesima.
La rilevanza e la tipicità della condotte del soggetto “esterno”, dotate delle
caratteristiche ora indicate, è delimitata dalla funzione incriminatrice dell’art. 110

12

ed altri, Rv. 186226). Nel caso in esame la Corte territoriale, ha accertato che la

c.p. che combina la clausola generale in essa contenuta con le disposizioni di
parte speciale che prevedono le ipotesi-base di reato.
Ciò postula che sussistano tutti i requisiti strutturali che caratterizzano il
nucleo centrale significativo del concorso di persone nel reato. E’ necessario,
quindi, per un verso, che siano realizzati, nella forma consumata o tentata, tutti
gli elementi del fatto tipico di reato descritto dalla norma incriminatrice di parte
speciale e che la condotta di concorso sia oggettivamente e soggettivamente
collegata con quegli elementi. Per altro verso, occorre che il contributo atipico

operante in sinergia con quello dei partecipi interni, abbia avuto una reale
efficienza causale per la concreta realizzazione del fatto criminoso collettivo e per
la produzione dell’evento lesivo del bene giuridico protetto, costituito, nella
specie, dall’integrità dell’ordine pubblico, violata dall’esistenza e dall’operatività
del sodalizio e dal diffuso pericolo di attuazione dei delitti-scopo del programma
criminoso.
Peraltro, mutuando un orientamento espresso in relazione al delitto di cui
all’art. 416 bis cod. pen., ma pienamente adattabile anche alla fattispecie di
associazione per delinquere, il delitto di concorso esterno nel delitto associativo è
integrato pur quando il soggetto abbia posto in essere un unico intervento, a
carattere occasionale, che però abbia una rilevanza causale ai fini della
conservazione e del rafforzamento dell’associazione (Sez. 2, n. 35051 del
11/06/2008 – dep. 10/09/2008, Lo Sicco, Rv. 241813).
La particolare struttura della fattispecie concorsuale comporta, infine, quale
essenziale requisito, che il dolo del concorrente esterno investa, nei momenti
della rappresentazione e della volizione, sia tutti gli elementi essenziali della
figura criminosa tipica, sia il contributo causale recato dal proprio
comportamento alla realizzazione del fatto concreto, con la consapevolezza e la
volontà di interagire, sinergicamente, con le condotte altrui nella produzione
dell’evento lesivo del “medesimo reato”. Pertanto il concorrente esterno, pur
sprovvisto

dell’affectio societatis –

e, cioè, della volontà di far parte

dell’associazione – deve essere consapevole dei fini dell’associazione e si renda
compiutamente conto dell’efficacia causale della sua attività di sostegno,
vantaggiosa per la conservazione o il rafforzamento dell’associazione.
10.2. La Corte d’appello di Napoli ha correttamente applicato i principi sinora
illustrati, evidenziando come Rita Bosco e Gianluca Zurro (p. 37-38) abbiano
fornito un concreto, consapevole e volontario contributo, che ha esplicato
un’effettiva rilevanza causale per la stessa conservazione dell’associazione, in un
momento delicatissimo e di crisi del sodalizio, ossia quando, come si è detto, il
Parioti, responsabile del CAF, insospettitosi per l’elevato numero di richieste di

13

del concorrente esterno (sia esso di natura materiale o “morale”), diverso ma

rimborso, chiese la produzione di documentazione integrativa a sostegno delle
pratiche, e Giuseppina Bosco e Gaetano Bosco decisero di preparare, nel fine
settimana, le false fatture, rivolgendosi proprio a Rita Bosco e Gianluca Zurro,
che, infatti, si misero al servizio dell’associazione, preoccupandosi, la prima della
disponibilità dei computer per organizzare il lavoro, il secondo dei falsi documenti
da formare. Grazie al loro intervento, quindi, l’associazione riuscì ad affrontare
una situazione di emergenza, realizzando la falsa documentazione da consegnare
al Pariotti, ciò che, peraltro, i due imputati avevano già fatto in precedenti

Quanto al dolo, la Corte territoriale ha osservato che la Bosco e lo Zurro
erano pienamente consapevoli che il loro contributo fosse a favore
dell’associazione, sia perché legati da rapporto di coniugio e di parentela con gli
organizzatori del sodalizio, sia perché, come detto, già in passato entrambi
avevano prestato la propria attività a favore dell’associazione, collaborando alla
materiale falsificazione dei documenti giustificativi di spesa.
Si tratta di una motivazione adeguata, non manifestamente illogica, sicché
supera il vaglio di legittimità.

11. In relazione ai motivi, dedotti da Gaetano Bosco, Giuseppina Bosco e
Gianluca Zurro, diretti a contestare la qualificazione giuridica dei delitti fine, si
osserva che la questione è già stata decisa, in modo sempre uniforme, da questa
Corte proprio nell’ambito del presente processo in sede cautelare con tre
differenti pronunce, che il Collegio condivide e a cui intende dare continuità.
11.1. Devono, perciò, essere riaffermati i principi affermati in quelle
decisioni, secondo cui integra il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso
di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 2 d.lgs. 10 marzo
2000, n. 74) la falsa indicazione, nella dichiarazione IRPEF, di spese deducibili
dall’imposta, quando le stesse non siano state effettuate o siano state effettuate
in misura inferiore (Sez. 3, n. 48486 del 24/11/2011 – dep. 28/12/2011, P.M. in
proc. Sorvillo e altri, Rv. 251625). Ancora, in tema di reato di dichiarazione
fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti,
rientrano nella nozione di documenti quelli aventi, ai fini fiscali, valore probatorio
analogo alle fatture, tra cui le ricevute fiscali e simili nonché quei documenti da
cui risultino spese deducibili dall’imposta, come, per esempio, le ricevute per
spese mediche o per interessi sui mutui e le schede carburanti (Sez. 3, n. 5642
del 02/12/2011 – dep. 14/02/2012, P.M. in proc. Manta, Rv. 252121). Infine, nel
reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per
operazioni inesistenti (art. 2 del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74) la falsità può
essere riferita anche all’indicazione dei soggetti con cui è intercorsa l’operazione,

14

occasioni.

intendendosi per “soggetti diversi da quelli effettivi”, ai sensi dell’art.

1 lett. a),

del citato d.lgs., coloro che, pur avendo apparentemente emesso il documento,
non hanno effettuato la prestazione, sono irreali, come nel caso di nomi di
fantasia, o non hanno avuto alcun rapporto con il contribuente finale (Sez. 3, n.
27392 del 27/04/2012 – dep. 11/07/2012, P.M. in proc. Bosco e altro, Rv.
253055).
11.2. Deve, quindi, ribadirsi – nel solco tracciato dalle tre pronunce appena
citata – che l’art. 2 d.lgs. n. 74 del 2000 è applicabile ad entrambe le tipologie di

norma si distingue da quella di cui all’art. 3 non per la natura del falso, ma per il
rapporto di specialità reciproca esistente tra le due disposizioni legislative: ad un
nucleo comune, costituito dalla dichiarazione infedele, si aggiungono, in chiave
specializzante, nell’art. 2, l’utilizzazione di fatture e documenti equiparabili
relativi ad operazioni inesistenti e, nell’art. 3, la falsa rappresentazione nelle
scritture contabili obbligatorie congiunta con l’utilizzo di mezzi fraudolenti idonei
ad ostacolare l’accertamento e la previsione di una soglia minima di punibilità. La
condotta di dichiarazione fraudolenta mediante fatture o documenti per
operazioni inesistenti presenta una “struttura bifasica”, in cui la dichiarazione,
quale momento conclusivo, dà vita a un falso contenutistico, mentre la condotta
preparatoria, cioè la registrazione o detenzione a finì di prova dei documenti che
costituiranno il supporto della dichiarazione, può avere ad oggetto documenti sia
contenutisticamente falsi, perché emessi da altri in favore dell’utilizzatore, sia
materialmente falsi, in quanto contraffatti o alterati. In relazione al mezzo
fraudolento di cui l’agente si avvale per l’indicazione di elementi passivi fittizi, la
lettera dell’art. 2 d.lgs. n. 74 del 2000 si riferisce a “fatture o altri documenti per
operazioni inesistenti” e l’art. 1, lett. a), dello stesso decreto legislativo specifica
che tale locuzione inerisce a quelle fatture o documenti che sono emessi a fronte
di operazioni in tutto o in parte inesistenti, o che indicano i corrispettivi o
l’imposta sul valore aggiunto in misura superiore a quella reale, ovvero che
riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi. Gli altri documenti
che vengono in rilievo sono, dunque, quelli aventi, ai fini fiscali, valore probatorio
analogo alle fatture (documenti tipici fiscali previsti espressamente dall’art. 21
d.P.R. n. 633 del 1972); tali sono, ad esempio, oltre alle ricevute fiscali e simili,
quei documenti da cui risultino spese deducibili dall’imposta, come le ricevute
per spese mediche o per interessi su mutui, le schede carburanti etc. (documenti
che attualmente non devono essere allegati alla dichiarazione dei redditi ma
conservati per eventuali controlli da parte degli uffici). Qualora le spese
documentate siano deducibili dall’imposta, l’indicazione in dichiarazione di tali

15

falso (ideologico e materiale), tenuto conto che la frode sanzionata da tale

spese non effettuate o effettuate in misura inferiore integra la condotta del
reato, per il fatto che si fanno apparire elementi passivi fittizi.
La dichiarazione fraudolenta prevista e sanzionata dall’art. 3 d.lgs. n. 74 del
2000 è costruita invece, essenzialmente, come frode contabile, alla quale deve
associarsi un quid pluris artificioso non tipizzato (diverso dall’uso di fatture o altri
documenti falsi, integrante l’ipotesi di cui al precedente art. 2), ma, comunque,
caratterizzato dall’idoneità ad indurre in errore e ad impedire il corretto
accertamento della realtà contabile del soggetto che presenta la dichiarazione

la vendita “a nero” organizzata in locali contigui a quelli aziendali; la voluta
“confusione” di ricavi provenienti da fonti diverse in modo da impedire di
individuare il titolare degli stessi; lo spostamento artificioso di redditi tra soggetti
rivolto a fare figurare come percepiti da terzi redditi propri del contribuente. La
condotta fraudolenta, alla quale si riconnette la oggettiva infedeltà delle poste
indicate in dichiarazione, postula la volontà del contribuente di ostacolare
l’accertamento di elementi che abbiano determinato l’occultamento di un reddito
imponibile.
Va, inoltre, chiarito che “soggetti diversi da quelli effettivi” sono quei
soggetti che, in realtà, non hanno preso parte all’operazione e sono invece
indicati nel documento. Non vi è alcun fondamento razionale, tuttavia,
nell’affermare che l’ipotesi non ricorre quando i soggetti che appaiono emittenti
del documento siano addirittura inesistenti (trattandosi, ad esempio, di nomi di
fantasia) o siano soggetti che nessun rapporto abbiano mai avuto con il
contribuente che utilizza il documento medesimo; anche in tal modo, infatti, il
contribuente fa apparire di avere speso somme in realtà non sborsate e pone
così in essere una lesione del bene giuridico protetto, costituito dal patrimonio
erariale. Né elementi in senso contrario possono trarsi dalla prospettata
correlazione con la fattispecie incriminatrice di cui all’art. 8 d.lgs. n. 74 del 2000,
perché il delitto di cui all’art. 2 di detto d.lgs. (nella cui struttura la condotta si
incentra sul momento dichiarativo) è posto a tutela dell’interesse patrimoniale
dello Stato a riscuotere ciò che è fiscalmente dovuto e nei limiti in cui è dovuto;
mentre nel reato di cui all’art. 8 oggetto della tutela appare piuttosto la funzione
di accertamento del tributo. Non trova, dunque, alcun appiglio normativo
l’affermazione secondo la quale la fattispecie descritta e sanzionata dall’art. 2
sarebbe connessa ad una specifica violazione consistente nella trasgressione dei
propri obblighi da parte del soggetto autorizzato ad emettere documentazione
avente rilievo probatorio ai fini tributari. Sul piano patrimoniale dell’interesse alla
percezione del tributo effettivamente dovuto, infine, non può razionalmente

16

annuale d’imposta, come: la tenuta di un sistema parallelo di contabilità “nera”;

considerarsi sussistente una maggiore pericolosità in sé del falso contenutistico
rispetto al falso materiale.

11.3. Infine, nessun pregio ha l’argomentazione dedotta dallo Zurlo,
secondo cui costui la condotta da costui posta in essere non rileverebbe ai sensi
dell’art. 110 cod. pen., bensì ai sensi dell’art. 378 cod. pen. ovvero dell’art. 379
cod. pen., in quanto le false dichiarazioni erano già state formate e trasmesse, e,
quindi, quando i reati si erano già perfezionati.

previsto dall’art. 2 d.lgs. n. 74 del 2000 si consuma nel momento della
presentazione o della trasmissione in via telematica della dichiarazione nella
quale sono indicati gli elementi passivi fittizi (Sez. 3, n. 37848 del 29/03/2017 dep. 28/07/2017, Ferrario, Rv. 271044; Sez. 3, n. 52752 del 20/05/2014 – dep.
19/12/2014, Vidi e altro, Rv. 262358).
Nel caso in esame, proprio la circostanza che il Pariotti, insospettito
dall’elevato numero di richieste di rimborso per spese sanitarie, chiese
l’integrazione della documentazione, attesta che le dichiarazioni non erano state
ancora inviata dal CAF all’Agenzia delle Entrate.

12. Manifestamente infondati sono anche i motivi diretti a censurare
l’asserita severità del trattamento sanzionatorio, variamente contestato da
Gaetano Bosco, Giuseppina Bosco, Carpi Nicola e Alessandro Rocco.
12.1. La Corte d’appello, quanto all’individuazione della pena ai sensi
dell’art. 133 cod. pen., ha puntualmente motivato lo scostamento dal minimo
edittale, giustificato dall’obiettiva gravità del fatto, connotato dalla reiterazione di
numerosissime frodi fiscali, espressiva di una riprovevole convinzione di impunità
da parte gli imputati, e dall’ingente danno arrecato all’Erario.
12.2. Quanto al diniego delle circostanze attenuanti generiche, va ribadito il
costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui il giudice
del merito esprime un giudizio di fatto, la cui motivazione è insindacabile in sede
di legittimità, purché sia non contraddittoria e dia conto, anche richiamandoli,
degli elementi, tra quelli indicati nell’art. 133 cod. pen., considerati
preponderanti ai fini della concessione o dell’esclusione delle circostanze ex art.
62 bis cod. pen. (da ultimo, cfr. Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017 – dep.
22/09/2017, Pettinelli, Rv. 271269).
Nel caso in esame, la Corte territoriale ha confermato il diniego delle
circostanze in esame, considerando, quale elementi preponderanti, ostativi
all’applicazione delle circostanze, la gravità delle condotte, l’ingente danno
arrecato allo Stato, l’assenza di qualsiasi forma di resipiscenza (le somme

17

Invero, in tema di reati tributari, il delitto di dichiarazione fraudolenta

4

indebitamente riscosse non sono state restituite), le gravi modalità dei fatti,
come accertati in sede di merito, il rilevante contributo offerto dagli imputati alla
realizzazione dei reati. Si tratta di una motivazione non manifestamente illogica
e giuridicamente corretta che, quindi, supera il vaglio di legittimità.

13. Essendo i ricorsi inammissibili e, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen.,
non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di
inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13/06/2000), alla condanna dei

pagamento della sanzione pecuniaria nella misura, ritenuta equa, indicata in
dispositivo.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento
delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa
delle Ammende.
Così deciso il 24/01/2018.

ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al

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