Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 17059 del 05/04/2016


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 17059 Anno 2016
Presidente: GENTILE MARIO
Relatore: SGADARI GIUSEPPE

SENTENZA
Sul ricorso proposto da:
NDIAYE AISSATOU, nata a Dakar (Marocco) il 10/07/1946;
avverso la sentenza del 13/02/2014 della Corte di Appello di Lecce;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione della causa fatta dal consigliere Giuseppe Sgadari;
udito il Pubblico Ministero, nella persona del Sostituto Procuratore generale
Marilia Di Nardo, che ha concluso chiedendo dichiararsi l’inammissibilità del
ricorso;
udito il difensore, avv. Maria Francesca Fera, in sostituzione dell’avv. Monica
Colella, che ha concluso riportandosi ai motivi di ricorso e chiedendone
l’accoglimento;

RITENUTO IN FATTO

1.Con la sentenza in epigrafe, la Corte di Appello di Lecce, in parziale riforma
della sentenza del Tribunale del medesimo capoluogo, concessa la circostanza
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Data Udienza: 05/04/2016

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attenuante di cui all’art. 648, comma 2, cod. pen., condannava la ricorrente alla
pena di quattro mesi di reclusione ed euro 200,00 di multa, ritenendo provato
che ella, al fine di trarne profitto, avesse detenuto presso la sua abitazione capi
di abbigliamento con marchi contraffatti.
2.Ricorre per cassazione l’imputata, a mezzo del suo difensore, deducendo, con
un primo motivo, violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla ritenuta
sussistenza del reato di ricettazione senza adeguata prova della riconducibilità

tra l’affermazione di responsabilità per detto reato e l’assoluzione dell’imputata
dal reato di cui all’art. 474 cod. pen. intervenuta fin dal giudizio di primo grado.
Inoltre, la ricorrente assume che la condotta andrebbe semmai ricondotta
all’illecito amministrativo di cui all’art. 1, comma 7 d.l. n. 35 del 2005.
Con un secondo motivo di ricorso, si censura la sentenza impugnata in ordine
alla mancata concessione dell’attenuante di cui all’art. 62 n. 4 cod. pen..

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso è manifestamente infondato.
1.Quanto al primo motivo, deve sottolinearsi che la riconducibilità all’imputata
del possesso dei capi di abbigliamento si riconnetteva, come bene sottolineava la
Corte d’Appello, alla circostanza che la merce fosse stata trovata presso la sua
abitazione e, parte di essa, addirittura nascosta sotto il letto dove la ricorrente
dormiva; circostanza, non a caso obliterata dalla difesa, che esclude l’eventualità
che detta merce fosse riferibile ad altri occupanti della casa, come
genericamente sostenuto in ricorso.
Con riguardo alla seconda argomentazione, la Corte di Appello individuava la
concreta sussistenza del reato presupposto in quello di cui all’art. 473 cod. pen.,
stante la non contestata contraffazione dei marchi dei capi di abbigliamento nel
possesso ingiustificato dell’imputata.
Con il che, nessuna refluenza giuridica può avere la circostanza che la ricorrente
fosse stata assolta nel primo grado di giudizio dal diverso reato di cui all’art. 474
cod. pen..
In ordine, infine, alla configurabilità dell’illecito amministrativo di cui all’art. 1,
comma 7, d.l. 14 marzo 2005, conv. In I. 14 maggio 2005 n. 80, citato in
ricorso, la Corte di Appello, mostrando di ben conoscere la giurisprudenza di
legittimità enucleatasi sul punto e che ha trovato la sua massima espressione
nella pronuncia delle Sezioni Unite n. 22225 del 2012, menzionata anche in
ricorso, riteneva che l’imputata non potesse essere qualificata come acquirente
finale della merce in suo possesso, avuto riguardo al numero dei capi di
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del possesso della merce contraffatta in capo alla Ndiaye, nonché per il contrasto

abbigliamento (90 pezzi) ed ai diversi tagli e misure di essi, con il che
evidenziando anche il fine di profitto connesso al possesso.
Tali circostanze, in parte omesse dalla ricorrente, che non ha richiamato
l’eclatante dato numerico relativo alla merce, risultano del tutto ragionevoli a
giustificare l’assunto della sentenza impugnata, la quale, pertanto, si rivela
immune da censure logico-giuridiche.
Non rinvenibili neanche nella ridetta assoluzione dell’imputata dal reato di cui
all’art. 474 cod. pen., come vorrebbe la difesa, dal momento che, con la

non era rimasto provato, soltanto il fatto che ella ponesse in vendita presso il
suo domicilio la merce contraffatta.
2. Il secondo motivo di ricorso è stato proposto fuori dai casi consentiti dalla
legge, non avendo formato oggetto dei motivi di appello e presupponendo esso
una indagine di merito non effettuabile in questa sede senza un accertamento
sul punto prospettato nella sua sede naturale (Sez.6 n.9478 del 10/11/2009,
Amante).
Alla declaratoria di inammissibilità consegue la condanna della ricorrente al
pagamento delle spese processuali e della somma di euro millecinquecento/00
alla Cassa delle Ammende, commisurata all’effettivo grado di colpa della stessa
ricorrente nella determinazione della causa di inammissibilità.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di euro 1.500,00 alla Cassa delle Ammende.
Così deliberato in Roma, udienza pubblica del 05.04.2016.
Il Consigliere estensore

Il Presidente

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Giuseppe Sgadari
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contestazione di quella fattispecie incriminatrice, si ascriveva alla ricorrente, e

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