Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 1697 del 25/09/2013


Clicca qui per richiedere la rimozione dei dati personali dalla sentenza

Penale Sent. Sez. 5 Num. 1697 Anno 2014
Presidente: PALLA STEFANO
Relatore: GUARDIANO ALFREDO

SENTENZA

sul ricorso proposto da
Cavallari Ivan, nato a Cles il 19.11.1979, avverso la sentenza
pronunciata dalla corte di appello di Brescia il 26.4.2012;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere dott. Alfredo Guardiano;
udito il pubblico ministero nella persona del sostituto procuratore
generale dott. Gioacchino Izzo, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito il difensore di fiducia della costituita parte civile, che ha concluso
per il rigetto del ricorso, depositando conclusioni scritte•
s .c Kt.vet-t(114
udito il difensore di fiducia del ricorrente> che ha concluso per
l’accoglimento del ricorso;

FATTO E DIRITTO

Data Udienza: 25/09/2013

1. Con sentenza pronunciata il 23.9.2011 la corte di appello di Trento
confermava la sentenza con cui il giudice per le indagini preliminari di
Rovereto, in data 27.1.2010, in sede di giudizio abbreviato, aveva
condannato Cavallari Ivan, imputato dei reati di cui agli artt. 423, 61, n.
2, c.p. (capo a dell’imputazione) e 56, 640, c.p. (capo b
dell’imputazione), alla pena ritenuta di giustizia ed al risarcimento dei
danni derivanti da reato in favore della parte civile costituita, “Snow Star

s.r.l.”.
Il Cavallari era stato riconosciuto colpevole del delitto di incendio,
finalizzato alla commissione di una truffa, di un immobile, che aveva
locato da tale Zampieri, allo scopo di esercitarvi un’impresa di
ristorazione (“Ristorante Calkera”), nonché del delitto di tentata truffa,
in quanto, dopo avere stipulato il contratto di locazione, essendosi
trovato insolvente nei confronti del proprietario dell’immobile, verso il
quale era debitore di canoni arretrati, garantiti da fideiussione per euro
750.000,00, allo scopo di procurarsi l’ingiusto profitto di eliminare i
propri debiti e risolvere la garanzia fideiussoria, compiva atti idonei,
diretti in modo non equivoco ad indurre in errore il citato Zampieri e la
compagnia assicuratrice, consistiti nel provocare l’incendio dei locali del
ristorante Calkera, facendo credere che l’incendio in questione, da lui
stesso appiccato, fosse stato opera dolosa di terzi, in modo da tacitare le
ragioni dello Zampieri, con la somma prevista a titolo di risarcimento
danni nella polizza assicurativa contratta dallo stesso Zampieri.
La sentenza della corte territoriale veniva annullata dalla Corte di
Cassazione, in data 14.12.2011, con rinvio per nuovo giudizio alla corte
di appello di Brescia.
Osservava il Supremo Collegio che la corte territoriale aveva omesso di
considerare alcuni profili, che, invece, andavano valutati dal giudice del
rinvio ed, in particolare. 1) l’esistenza della querela, condizione di
procedibilità per il reato di tentata truffa; 2) la configurabilità del delitto
di incendio; 3) la possibilità di utilizzare, come elemento a carico
dell’imputato, l’alibi falso, solo in quanto esso sia fornito nel contesto
delle dichiarazioni rese dall’indagato o dall’imputato, vale a dire di un

2

(\-

soggetto processuale al quale sia stato contestato un fatto criminoso, in
relazione al quale egli si difenda prospettando un alibi che, sottoposto a
verifica, risulti falso; 4) la valutazione della cospicua documentazione
bancaria e commerciale prodotta dall’imputato, che, in tal modo,
intendeva provare di non versare in difficoltà economiche ed anzi
dimostrare la propria solvibilità finanziaria e la propria affidabilità
commerciale.

dichiarava non doversi procedere nei confronti del Cavallari per difetto di
querela e, riqualificata la condotta di cui al capo a) nel reato di cui
all’art. 424, co. 1, c.p., rideterminava in senso più favorevole al reo il
trattamento sanzionatorio.
2. Avverso tale sentenza, di cui chiede l’annullamento, ha proposto
ricorso per Cassazione il Cavallari, a mezzo del suo difensore di fiducia,
articolando distinti motivi di impugnazione.
3. Con il primo motivo di impugnazione il ricorrente lamenta violazione
di legge, in relazione agli artt. 521, 522, c.p., 24, 111, 117,
Costituzione, 6, paragrafi 1 e 3, lett. A) e B) della Convenzione Europea
dei Diritti dell’Uomo, in quanto la corte territoriale, una volta ritenuta
che la condotta del Cavallari integri la fattispecie delittuosa di cui all’art.
424, co. 1, c.p., mutando, in tal modo, gli elementi costitutivi tipici
dell’accadimento storico contestato all’imputato, avrebbe dovuto
annullare la sentenza di primo grado, con contestuale trasmissione degli
atti al pubblico ministero competente, perché si procedesse ad un nuovo
giudizio.
Il Cavallari, invece, è stato indebitamente condannato per un reato
diverso da quello contestatogli nel capo a), in quanto gli elementi
costitutivi del delitto d’incendio sono profondamente diversi, sotto il
profilo sia oggettivo che soggettivo, da quelli del reato di
danneggiamento seguito da incendio, di cui all’art. 424, co. 1, c.p., in ciò
consistendo la denunciata violazione di legge.
4.

Con il secondo motivo di impugnazione il ricorrente lamenta

violazione di legge e vizio di motivazione in ordine al delitto di cui all’art.

3

Con sentenza pronunciata il 26.4.2012 la corte di appello di Brescia

424, cc. 1, c.p., per avere la corte territoriale omesso di motivare
adeguatamente in ordine alla sussistenza dell’elemento soggettivo del
reato in questione, che richiede il dolo specifico, cadendo, peraltro, in
una evidente contraddizione nella parte della motivazione in cui afferma
che l’intento dell’imputato era quello di incendiare l’immobile per
liberarsi delle sue obbligazioni.
5. Con il terzo motivo di ricorso, il difensore dell’imputato lamenta

l’affermazione di responsabilità del Cavallari si fonda su di un quadro
indiziario, incentrato sulla circostanza che, come scritto in motivazione,
“l’imputato è partito nel corso della notte in cui è stato commesso il
delitto di pericolo di incendio da Verona per recarsi nell’area servita dalla
cella telefonica che copre anche il locale bruciato e ivi permanere per
alcune ore per poi subito rientrare a Verona ancora nella medesima
notte”, assolutamente inidoneo a fondare l’assunto accusatorio, ove si
tenga presente che non è mai stata accertata con sicurezza l’ora in cui
venne appiccato il fuoco, evento che potrebbe essersi verificato in un
orario precedente ovvero successivo a quello di arrivo e permanenza del
Cavallari nella zona.
Né la corte territoriale, evidenzia il ricorrente, ha spiegato come mai il
Cavallari sia rimasto in loco per alcune ore, con il rischio di essere
notato, laddove per commettere il delitto sarebbero bastati non più di
quindici minuti.
6. Con il quarto motivo di impugnazione il ricorrente lamenta vizio di
motivazione in ordine all’art. 192, c.p.p., in quanto la corte territoriale
ha omesso di considerare, violando il dictum della Suprema Corte sul
punto, la documentazione prodotta dall’imputato, dalla quale si evince
che la società “I.K. Gesioni s.n.c.”, che aveva affittato l’azienda “Bar
Ristorante Calkera”, di cui il Cavallari era socio occulto, garantendo con
la fideiussione da lui prestata il pagamento del relativo canone di affitto,
aveva conseguito, alla data dell’1.7.2007, un utile di esercizio pari ad
oltre 30.000,00, per cui, al pari dello stesso Cavallari e delle altre
società a quest’ultimo riferibili, versava in una solida situazione

4

violazione di legge in relazione all’art. 192, c.p.p., in quanto

patrimoniale e finanziaria, per cui non sussisteva alcun interesse
dell’imputato ad abbandonarla e nessuna impossibilità di corrispondere i
canoni di affitto, che non erano stati pagati per meri disguidi
amministrativi, trattandosi, peraltro, di solo due canoni, ammontanti ad
alcune migliaia di euro.
7. Il ricorso va rigettato.
8. Infondato appare il primo motivo di ricorso.

Si osserva al riguardo come da tempo nella giurisprudenza di legittimità
è stato affermato il principio secondo cui, in tema di correlazione fra
imputazione contestata e sentenza, per aversi mutamento del fatto
occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della
fattispecie concreta nella quale si riassume la ipotesi astratta prevista
dalla legge, sì da pervenire ad un’incertezza sull’oggetto
dell’imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della
difesa; ne consegue che l’indagine volta ad accertare la violazione del
principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto
puramente letterale fra contestazione e oggetto della statuizione di
sentenza perché, vedendosi in materia di garanzie e di difesa, la
violazione è del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso l'”iter”
del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi
in ordine all’oggetto dell’imputazione (cfr. Cass., sez, un., 19/06/1996,
n. 16, Di Francesco).
L’obbligo di correlazione tra accusa e sentenza, pertanto, non può
ritenersi violato da qualsiasi modificazione rispetto all’accusa originaria,
ma soltanto nel caso in cui la modificazione dell’imputazione pregiudichi
la possibilità di difesa dell’imputato: la nozione strutturale di “fatto”
contenuta nelle disposizioni in questione, va coniugata, infatti, con
quella funzionale, fondata sull’esigenza di reprimere solo le effettive
lesioni del diritto di difesa, posto che il principio di necessaria
correlazione tra accusa contestata (oggetto di un potere del pubblico
ministero) e decisione giurisdizionale (oggetto del potere del giudice)
risponde all’esigenza di evitare che l’imputato sia condannato per un
fatto, inteso come episodio della vita umana, rispetto al quale non abbia

5

(\

potuto difendersi (cfr. Cass., sez. 2, 16/09/2008, n. 38889, D.; Cass.,
sez. 5, 13/12/2007, n. 3161, P., rv. 238345).
Non ignora, peraltro, questo Collegio, l’affermarsi di un recente
orientamento all’interno della giurisprudenza di legittimità, in base al
quale, in tema di correlazione tra sentenza ed accusa contestata, la
regola di sistema espressa dalla Corte europea dei diritti dell’uomo
(sentenza 11 dicembre 2007, Drassich c. Italia), secondo cui, ai sensi

dell’uomo sul “processo equo”, la garanzia del contraddittorio deve
essere assicurata all’imputato anche in ordine alla diversa definizione
giuridica del fatto operata dal giudice “ex officio”, è conforme al principio
statuito dall’art. 111 Cost., comma 2, che investe non soltanto la
formazione della prova, ma anche ogni questione che attiene la
valutazione giuridica del fatto commesso, con la conseguenza che si
impone al giudice nazionale una interpretazione dell’art. 521 c.p.p.,
comma 1 adeguata al “decisum” del giudice europeo e ai principi
costituzionali sopra richiamati (cfr. Cass. sez. 6, 12/11/2008, n. 45807,
D., rv 241754). Secondo il Supremo Collegio, in particolare, la
qualificazione giuridica del fatto da parte della Corte di Cassazione,
diversa da quella attribuita nel giudizio di merito, presuppone sempre
l’informazione all’imputato e al suo difensore di tale eventualità. Ciò in
quanto le norme della Convenzione Europea, così come interpretate
dalla Corte Europea, rivestono il rango di fonti interposte integratrici del
precetto di cui all’art. 117 Cost., comma 1, che il giudice italiano deve
applicare, a condizione che siano conformi alla Costituzione e siano
compatibili con la tutela degli interessi costituzionalmente protetti, per
cui non vi è la necessità di un intervento additivo della Corte
costituzionale per stabilire che l’imputato e il difensore devono e
possono essere messi in grado di interloquire sulla eventualità di una
diversa definizione giuridica del fatto là dove essa importi conseguenze
in qualunque modo deteriori per l’imputato così da configurare un suo
concreto interesse a contestarne la fondatezza.

6

/-

dell’art. 6, par. 3, lett. a) e b) della Convenzione Europea dei diritti

Tanto era accaduto nel caso esaminato dalla Suprema Corte nella
menzionata sentenza n. 45807 del 12.11.2008, in cui la diversa
definizione giuridica del fatto aveva comportato la mancata declaratoria
di estinzione per prescrizione del reato enunciato nell’imputazione, per
cui la Corte stessa, attraverso un’interpretazione dell’art. 521 c.p.p.,
comma 1, conforme a quanto stabilito dalla Corte Europea e coerente
con la previsione di cui all’art. 111 Cost., comma 2, facendo ricorso

dato una qualificazione diversa al fatto senza avere consentito alla difesa
il contraddicono sulla diversa imputazione, disponendo una nuova
trattazione del ricorso.
Nel solco tracciato dalla sentenza “Drassich” si sono inseriti alcuni
recenti arresti in cui si ribadisce che una lettura costituzionalmente
orientata dell’art. 521 c.p.p. impone di ritenere che il potere di attribuire
alla condotta addebitata all’imputato una nuova e diversa qualificazione
giuridica non possa essere esercitato “a sorpresa” ma solo a condizione
che vi sia stata una preventiva promozione, ad opera del giudice, del
contraddittorio fra le parti sulla “questio iuris” relativa; e ciò anche nel
caso in cui la nuova e diversa qualificazione risulti più favorevole per il
giudicabile, atteso che la difesa ben può diversamente atteggiarsi
(quanto alle opzioni strategiche) e modularsi (sul piano tattico) in
rapporto alla differente qualificazione giuridica della condotta, rispetto
alla quale, oltre tutto, le emergenze processuali assumono, a loro volta,
diversa e nuova rilevanza, dovendo la garanzia del contraddittorio in
ordine alle questioni inerenti alla diversa qualificazione giuridica del fatto
essere concretamente assicurata all’imputato sin dalla fase di merito in
cui si verifica la modifica dell’imputazione (cfr. Cass., sez. 1,
29/04/2011, n. 18590, C; Cass., sez. 6, 19/02/2010, n. 20500, F., rv.
247371)
Orbene non ritiene questo Collegio che i principi affermati dalla
giurisprudenza che si richiama alla sentenza “Drassich” si pongano in
contrasto con l’orientamento in precedenza consolidatosi in sede di
legittimità, che esclude la violazione del principio di correlazione tra

7

all’art. 625 bis c.p.p., revocava una sua precedente sentenza, che aveva

accusa e sentenza quando nel capo di imputazione siano contestati gli
elementi fondamentali idonei a porre l’imputato in condizioni di
difendersi dal fatto poi ritenuto in sentenza, da intendersi sempre come
accadimento storico oggetto di qualificazione giuridica da parte della
legge penale, che spetta al giudice individuare nei suoi esatti contorni.
Fermo restando, dunque, l’incontestabile potere del giudice di attribuire
in sentenza al fatto emergente dalle risultanze processuali una

stante la limpida formulazione dell’art. 521 c.p.p., non potendo nessuna
interpretazione costituzionalmente adeguata di tale disposizione
normativa tradursi in una interpretazione abrogatrice della disposizione
medesima, il rispetto della regola del contraddittorio, che deve essere
assicurato all’imputato anche in ordine alla diversa definizione giuridica
del fatto operata dal giudice nell’esercizio del potere-dovere che gli è
proprio, conformemente alla previsione dell’art. 111 Cost., comma 2,
secondo la lettura integrata alla luce dell’art. 6, par. 3, lett. a) e b) della
Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, come interpretato dalla
CEDU, fatta propria dalla più recente giurisprudenza, impone
esclusivamente che tale diversa qualificazione giuridica non avvenga “a
sorpresa”, determinando conseguenze negative per l’imputato (e, quindi,
fondando un suo concreto interesse ad ottenerne la rimozione), che, per
la prima volta, e senza mai avere avuto la possibilità di interloquire sul
punto, si trovi di fronte ad un fatto storico radicalmente trasformato in
sentenza nei suoi elementi essenziali, al punto tale, cioè, da imporre una
diversa e nuova definizione giuridica del fatto medesimo, rispetto a
quanto contestato, in punto di fatto e di diritto, nell’imputazione, di cui
rappresenta uno sviluppo inaspettato.
Condizione che non si verifica in due occasioni.
Da un lato, quando l’imputato o il suo difensore abbia avuto nella fase di
merito la possibilità comunque di interloquire in ordine al contenuto
dell’imputazione. Dall’altro quando la diversa qualificazione giuridica
appare come uno dei possibili (si potrebbe dire “non sorprendenti”)
epiloghi decisori del giudizio (di merito o di legittimità), stante la

8

qualificazione giuridica diversa da quella enunciata nell’imputazione,

riconducibilità del fatto storico, di cui è stata dimostrata la sussistenza
all’esito del processo e rispetto al quale è stato consentito all’imputato o
al suo difensore l’effettivo esercizio del diritto di difesa, ad una
limitatissima gamma di previsioni normative alternative, per cui
l’eventuale esclusione dell’una comporta, inevitabilmente, l’applicazione
dell’altra, non corrispondendo, in tale ipotesi, alla diversa qualificazione
giuridica, una sostanziale immutazione del fatto, che, integro nei suoi

sviluppo interpretativo assolutamente prevedibile. (cfr. Cass., sez. V,
24.9.2012, n. 7984, Jovanovic, rv. 254648).
Orbene tali circostanze ricorrono entrambe nel caso in esame. Ed invero
il ricorrente ha avuto la possibilità di interloquire nella fase di merito in
ordine alla diversa qualificazione giuridica del fatto originariamente
contestato operata in sentenza dalla corte territoriale, posto che, come
evidenzia lo stesso giudice del rinvio, il compito assegnatogli in sede di
annullamento dal Supremo Collegio era stato proprio quello di verificare
se nella condotta oggetto di contestazione fossero ravvisabili gli estremi
del reato di incendio, di cui all’art. 423, c.p., ovvero del delitto di
danneggiamento di cosa altrui, seguito da incendio, di cui ai primi due
comma dell’art. 424, c.p., compito che la corte di appello di Brescia
assolveva puntualmente, spiegando, con motivazione approfondita ed
immune da vizi, le ragioni per cui nel caso di specie non potesse parlarsi
di incendio, secondo la previsione del citato art. 423, c.p., ma solo di
danneggiamento seguito da pericolo di incendio (art. 424, co. 1„ c.p.),
ipotesi di reato meno grave (cfr. pp. 7-9 dell’impugnata sentenza).
Allo stesso modo appare evidente come la diversa qualificazione
giuridica del delitto di cui all’art. 423, c.p., originariamente contestato,
in quello di cui all’art. 424, co. 1, c.p., deve ritenersi, a fronte di un fatto
che rimane assolutamente identico nei suoi elementi essenziali, un
epilogo decisorio assolutamente prevedibile, proprio perché la condotta
dell’imputato, come accertata sulla base delle risultanze processuali e
come ritenuto dalla stessa Corte di Cassazione, non poteva che essere

»

ricondotta, anche alla luce delle regole dell’esperienza, ad uno dei due

9

elementi essenziali, può essere diversamente qualificato secondo uno

paradigmi normativi alternativamente descritti dall’art. 423, c.p. ovvero
dall’art. 424, c.p.
9. Del pari infondato appare anche il secondo motivo di ricorso.
Il discrimine tra il reato di danneggiamento seguito da incendio (art. 424
c.p.) e quello di incendio (art. 423 c.p.) è segnato dall’elemento
psicologico del reato. Nell’ipotesi prevista dall’art. 423 c.p. esso consiste
nel dolo generico, cioè nella volontà di cagionare un incendio, inteso

come combustione di non lievi proporzioni, che tende ad espandersi e
non può facilmente essere contenuta e spenta. Il reato di cui all’art. 424
c.p. è, invece, caratterizzato dal dolo specifico, consistente nel voluto
impiego del fuoco al solo scopo di danneggiare, senza la previsione che
ne deriverà un incendio con le caratteristiche prima indicate o il pericolo
di siffatto evento (cfr. Cass., sez. I, 07/05/2003, n. 25781
S. e altro).
Sussiste, pertanto, il delitto di incendio di cui all’art. 423 c.p. quando
l’azione di appiccare il fuoco è finalizzata a cagionare l’evento con
fiamme che per le loro caratteristiche e per la loro violenza tendano a
propagarsi in modo da creare effettivo pericolo per la pubblica
incolumità. Viceversa sussiste il delitto di danneggiamento seguito da
incendio allorché il fatto viene realizzato con il solo intento e cioè con il
dolo specifico di danneggiare la cosa altrui. Solo nell’ipotesi in cui
l’agente, pur proponendosi di danneggiare la cosa altrui, tuttavia per i
mezzi usati e per la vastità e le dimensioni del risultato raggiunto, ha
realizzato un incendio di proporzioni tali da mettere in pericolo la
pubblica incolumità, deve rispondere del delitto di incendio doloso e non
già del meno grave reato di danneggiamento seguito da incendio (cfr.
Cassazione penale, sez. I, 14/03/1995, n. 4506, Baldo).
Ne consegue, per converso, che quando ciò non si verifica, come nel
caso in esame, in cui è stata esclusa dalla corte territoriale l’esistenza di
un incendio tale da mettere in pericolo la pubblica incolumità, la
condotta del soggetto agente non può che essere sorretta dal dolo
specifico di danneggiare la cosa altrui, la cui sussistenza emerge per

10

7-

tabulas

dalla dimostrata riconducibilità in capo al Cavallari della

condotta volta ad appiccare il fuoco al ristorante Calkera.
10. Inammissibili, infine, devono ritenersi il terzo ed il quarto motivo di
ricorso.
Essi, infatti, si risolvono nella esposizione di censure che si risolvono in
una mera rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della
decisione impugnata, sulla base di nuovi e diversi parametri di

da evidenziare la sussistenza di ragionevoli dubbi, ricostruzione e
valutazione, quindi, in quanto tali precluse in sede di giudizio di
cassazione (cfr. Cass., sez. I, 16.11.2006, n. 42369, De Vita, rv.
235507; Cass., sez. VI, 3.10.2006, n. 36546, Bruzzese, rv. 235510;
Cass., sez. III, 27.9.2006, n. 37006, Piras, rv. 235508).
Ed invero non può non rilevarsi come il controllo del giudice di
legittimità, pur dopo la novella dell’art. 606, c.p.p., ad opera della I. n.
46 del 2006, si dispiega, pur a fronte di una pluralità di deduzioni
connesse a diversi atti del processo, e di una correlata pluralità di motivi
di ricorso, in una valutazione necessariamente unitaria e globale, che
attiene alla reale esistenza della motivazione ed alla resistenza logica
del ragionamento del giudice di merito, essendo preclusa al giudice di
legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della
decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di
ricostruzione e valutazione dei fatti (cfr. Cass., sez. VI, 26.4.2006, n.
22256, Bosco, rv. 234148).
9. Sulla base delle svolte considerazioni il ricorso proposto nell’interesse
del Cavallari va, dunque, rigettato, ai sensi dell’art. 615, co. 2, c.p.p.,
con condanna del ricorrente, giusto il disposto dell’art. 616, c.p.p., al
pagamento delle spese del procedimento, nonché alla rifusione, in favore
della parte civile costituita delle spese del presente giudizio di
legittimità, che, ai sensi del decreto del Ministro della Giustizia 20 luglio
2012 n. 140, “Regolamento recante la determinazione dei parametri per
la liquidazione da parte di un organo giurisdizionale dei compensi per le

11

ricostruzione e valutazione dei fatti, senza individuare vizi di logicità tali

professioni regolarmente vigilate dal Ministero della giustizia, si fissano
in complessivi euro 1500,00, oltre accessori come per legge.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali e alla rifusione di quelle sostenute dalla parte civile, liquidate
in complessivi euro 1500,00, oltre accessori come per legge.

Così deciso in Roma il 25.9.2013

Sostieni LaLeggepertutti.it

La pandemia ha colpito duramente anche il settore giornalistico. La pubblicità, di cui si nutre l’informazione online, è in forte calo, con perdite di oltre il 70%. Ma, a differenza degli altri comparti, i giornali online non ricevuto alcun sostegno da parte dello Stato. Per salvare l'informazione libera e gratuita, ti chiediamo un sostegno, una piccola donazione che ci consenta di mantenere in vita il nostro giornale. Questo ci permetterà di esistere anche dopo la pandemia, per offrirti un servizio sempre aggiornato e professionale. Diventa sostenitore clicca qui

LEGGI ANCHE



NEWSLETTER

Iscriviti per rimanere sempre informato e aggiornato.

CERCA CODICI ANNOTATI

CERCA SENTENZA