Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 16886 del 06/12/2017


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 16886 Anno 2018
Presidente: TARDIO ANGELA
Relatore: BONI MONICA

SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
ZENO GIACOMO nato il 29/10/1972 a TORRE DEL GRECO
CORDUA ENRICHETTA (RINUNCIANTE) nato il 05/04/1971 a ERCOLANO
VIOLA ENRICO nato il 25/04/1971 a ERCOLANO

avverso la sentenza del 27/09/2016 della CORTE ASSISE APPELLO di NAPOLI
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere MONICA BONI
Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore FRANCA ZACCO
che h

per

Il Procuratore Gene le conclude per l’inammissibilita’ dei ricorsi
Udito il difensore
Il difensore presente si riporta ai motivi del ricorso e alla ulteriore memoria.

Data Udienza: 06/12/2017

Ritenuto in fatto

1.Con sentenza in data 27 settembre 2016 la Corte di Assise di appello di
Napoli riformava parzialmente la sentenza del G.u.p. del Tribunale di Napoli del 22
aprile 2015 e, per l’effetto, accordava all’imputata Enrichetta Cordua la circostanza
attenuante di cui all’art. 8 legge n. 203/91 e rideterminava nei suoi confronti in
anni dieci di reclusione la pena inflittale; confermava la sentenza impugnata nelle

condannati alla pena dell’ergastolo in quanto ritenuti responsabili del concorso
nell’omicidio di Gennarino Brisciano e dei connessi reati in materia di armi.
1.1 La ricostruzione della vicenda criminosa era stata compiuta sulla scorta
delle propalazioni del collaboratore di giustizia Francesco Cefariello, il quale aveva
fatto luce sull’uccisione del Brisciano, già esponente del clan camorristico IacominoBirra di Ercolano e per un periodo collaboratore di giustizia, avvenuta il 13
settembre 2003, allorchè costui era stato attinto da almeno due colpi di pistola
trapassanti, uno dei quali mortali. Si era così appreso che Francesco Oliviero e
Giacomo Zeno, all’epoca reggenti della formazione camorristica Iacomino-Birra,
avevano deciso la soppressione del Brisciano nel timore che questi, in buoni
rapporti con esponenti del clan avversario Ascione-Papale, potesse prendere parte
ad azioni omicidiarie in danno di affiliati del loro clan, per cui essi, con la
collaborazione quale specchiettista di Elisabetta Cordua, detta Chettina, la quale
aveva segnalato la presenza della vittima all’Oliviero, avevano incaricato Salvatore
Cefariello ed Enrico Viola di compiere l’omicidio. Ricevuta la segnalazione dalla
Cordua, costoro si erano recati a bordo di un ciclomotore, il primo quale
conducente, il secondo quale passeggero, nella zona adiacente al bar delle Grazie
ed al passaggio del Brisciano il Viola gli aveva esploso contro più colpi di pistola,
che lo avevano raggiunto al tronco e, quello esiziale, alla testa quando era già a
terra. Secondo i giudici di appello, la ricostruzione del fatto, fornita dal Cefariello,
era stata parzialmente confermata da Ciro Langella, estraneo al delitto, dalla teste
Anna Mennella sui comportamenti post delictum tenuti da Lorenzo Fioto e dalle
dichiarazioni rese dalla coimputata Elisabetta Cordua, la quale, intrapresa la scelta
della collaborazione con la giustizia, aveva ammesso di avere svolto molteplici
compiti a vantaggio del clan Iacomino-Birra, di avere ricevuto l’ordine di perlustrare
la zona per segnalare la presenza della vittima dall’Oliviero e dallo Zeno, che erano
i loro capi ,e che il giorno dell’omicidio, appresa da Lorenzo Fioto della presenza del
Brisciano presso l’abitazione della sorella, aveva avvertito l’Oliviero, il quale le
aveva dato ordine di accompagnare, ad esecuzione avvenuta, gli esecutori in luogo
sicuro lontano da Ercolano; quindi il Viola, avvicinatosi per salutare il Brisciano, gli
aveva sparato con una pistola e subito dopo si era allontanato con lei in un vicolo
1

restanti statuizioni con le quali i coimputati Enrico Viola e Giacomo Zeno erano stati

ove erano stati raggiunti dal Cefariello che col ciclomotore aveva condotto il Viola
nel luogo ove ella aveva lasciato la propria vettura, con la quale poi lo aveva
trasportato a Boscoreale. Segnalavano i giudici di appello la convergenza del
narrato del Cefariello e della Cordua quanto all’indicazione dei mandanti,
dell’esecutore e delle modalità realizzative del delitto e della fase successiva della
fuga.
2. Avverso detta sentenza hanno proposto separati ricorsi la Cordua, lo Zeno

2.1 Enrichetta Cordua a mezzo del difensore ha lamentato inosservanza,
erronea applicazione della legge penale e vizio di motivazione quanto alla
valutazione delle risultanze istruttorie, frutto di uso arbitrario del potere
discrezionale del giudice.
2.2 Giacomo Zeno personalmente ha dedotto inosservanza, erronea
applicazione della legge penale e vizio di motivazione quanto alla considerazione
delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia ed alle loro chiamate in correità, le
cui contraddizioni il giudice di appello ha cercato di minimizzare nel tentativo non
riuscito di colmare lacune e di rinvenire la convergenza del molteplice; al contrario
il loro narrato è riconducibile ad un unico impianto narrativo, generalizzato, notorio
ed a conoscenza di tutti gli esponenti del sodalizio criminoso.
2.3 Enrico Viola a mezzo del difensore ha dedotto:
a) manifesta illogicità della motivazione in ordine alla valutazione delle chiamate in
correità. Le dichiarazioni della Cordua, rese dopo la condanna all’ergastolo
pronunciata a suo carico nel primo grado, sono perfettamente corrispondenti anche
nel linguaggio a quelle del Cefariello che ella aveva avuto modo di leggere e ben
conosceva prima della scelta collaborativa, il che pone degli interrogativi sulla
autonomia della fonte e sulla genesi della sua collaborazione. La Corte distrettuale
ha individuato elementi di novità nel racconto della coimputata,che però attengono
alla fase pregressa dell’omicidio e restano al di fuori del

thema probandum, dal

momento che il ruolo addebitato al ricorrente è quello dello sparatore. Vi è dunque
incertezza sull’indipendenza delle conoscenze della Cordua rispetto a quelle del
Cefariello. Anche la percezione della pacatezza e della ritrosia della dichiarante,
riportata in sentenza, non può assurgere a dato oggettivo e non ha dignità
probatoria e comunque nel corso del suo esame si è apprezzata la sua preparazione
e determinazione a riferire tutto lentamente per non consentire alle altre parti di
approntare repliche. Pertanto, al ragionamento svolto dalla Corte di secondo grado,
manifestamente illogico, possono opporsi elementi contrari di pari dignità razionale.
b) Violazione di legge in riferimento al disposto dell’art. 192 cod. proc. pen.. La
sentenza svaluta l’apporto offerto al processo dai collaboratori Marco e Giovanni
Durantini, Costantino Iacomino, ritenuto inattendibile,e dai collaboratori Scarrone e

2

ed il Viola.

Raimo perché superfluo; così facendo, la Corte si è affidata soltanto al dichiarato
del Cefariello, della Cordua, del Langella e della Mennella. I rilievi critici svolti
sull’attendibilità della Cordua comportano che l’intero bagaglio informativo della
stessa offerto vada estromesso dal processo. Quanto al narrato del Langella, la
valutazione della sua credibilità perché attinente al post factum non tiene conto
della difformità della sua versione dei fatti quanto al possesso da parte della Cordua
di un sacchetto di plastica contenente una pistola, che è talmente rilevante da

pari quanto affermato dalla teste Mennella si pone in insanabile contrasto con
quanto riferito dal Langella e dal Cefariello, perché la presenza in casa del Fioto
esclude che questi fosse in compagnia del Viola e della Cordua in vicolo Pace,
mentre il Cefariello non ha collocato il Fioto nella fase successiva al compimento
dell’omicidio, non ha parlato del fatto che l’esecutore avesse impiegato una
mitraglietta e che si fosse recato a casa del Fioto la mattina prima del delitto. La
Corte di appello in definitiva ha utilizzato quali riscontri elementi che tali non sono.
3.

Successivamente alla proposizione del ricorso, Enrichetta Cordua ha

personalmente dichiarato di voler rinunciare all’impugnazione.
4. Con memoria pervenuta in data 16 novembre 2017 la difesa dello Zeno ha
insistito per l’accoglimento del ricorso, richiamando il principio di diritto espresso da
Cass., sez. 5, n. 20074 del 5/5/2003, dal quale si è erroneamente discostata la
sentenza impugnata.
5. Con ulteriore memoria pervenuta in data 4 dicembre 2017 la difesa dello
Zeno ha dedotto le medesime argomentazioni in precedenza illustrate.

Considerato in diritto

1.II ricorso di Enrichetta Cordua è inammissibile ai sensi dell’art. 591 cod.
proc. pen. perché è stato oggetto di rituale rinuncia da parte della proponente;
quello dello Zeno è inammissibile perché basato su motivi affetti da generica
formulazione, mentre l’impugnazione proposta dal Viola va respinta perché priva di
fondamento.
2.L’impugnazione presentata nell’interesse di Giacomo Zeno esaurisce la
propria capacità censoria nei confronti della sentenza impugnata nella contestazione
della correttezza e congruenza motivazionale del giudizio di attendibilità delle fonti
dichiarative, il cui portato informativo è stato ritenuto sufficiente ad individuarlo
quale mandante ed organizzatore dell’uccisione di Gennarino Brisciano. Invero,
richiama genericamente il principio di diritto affermato dalla Suprema Corte, neppure citato con rinvio ad una qualche decisione specifica-, circa i requisiti pretesi
per la valida utilizzazione probatoria della chiamata in correità e la necessaria

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impedire di considerare le sue dichiarazioni quale riscontro alle fonti principali. Del

corrispondenza del narrato di fonti distinte quanto al nucleo essenziale dei fatti
descritti, che deve essere specifico in modo da far comprendere che la sua
rievocazione proviene da soggetti testimoni diretti o informati da chi abbia potuto
assistere all’accaduto; denuncia quindi che la Corte distrettuale ha attribuito
“valenza probatoria a circostanze tutt’altro che riscontrate. Se il giudice di merito
avesse correttamente applicato la legge, non sarebbe stato indotto nell’errore di
ritenere le diverse chiamate in correità reciprocamente riscontrate, essendo esse

generalizzato, notorio, patrimonio conoscitivo di tutti gli appartenenti allo stesso
sodalizio criminoso”.
2.1 Così formulata nel suo tenore letteralmente citato, la doglianza devolve
alla cognizione di questa Corte tematiche prospettate in termini assolutamente
vaghi e generici, dal momento che non indica nemmeno quali siano le chiamate in
correità contestate, quale sia il loro contenuto in relazione alla vicenda criminosa
oggetto del processo e come sia stato valorizzato dai giudici di Merito. Il ricorrente
non fa espresso e puntuale riferimento alla posizione di nessuno dei collaboratori di
giustizia di cui lamenta l’inattendibilità, intrinseca ed estrinseca, non esamina le
rispettive dichiarazioni o indica precise e soggettive ragioni di inattendibilità, ovvero
oggettive contraddizioni o carenze di riscontri; nè contraddice almeno uno specifico
punto della motivazione della sentenza impugnata, che si articola in diffusi ed
analitici rilievi.
Inoltre, anche a voler circoscrivere la doglianza al fatto che gli accusatori del
ricorrente non avrebbero appreso quanto riferito per averlo personalmente e
direttamente appreso, ma perché patrimonio comune e condiviso da tutti i
partecipanti al sodalizio camorristico al quale anche lo Zeno era affiliato, il ricorso
non prospetta la falsità di tali notizie, né l’estraneità del ricorrente a quel contesto
ed alla specifica azione criminosa che gli è ascritta. In tal modo non rispetta il
disposto dell’art. 606 poiché si limitata ad enunciare, in forma indeterminata e
vaga, critiche alle valutazioni compiute dalla Corte territoriale, senza illustrare gli
aspetti di criticità dei passaggi giustificativi della decisione ed omettendo di
confrontarsi realmente con la motivazione della sentenza gravata.
2.2 Nella giurisprudenza di legittimità si è chiarito che il requisito della
specificità dei motivi implica, non soltanto l’onere di dedurre le censure che la parte
intenda muovere in relazione ad uno o più punti determinati della decisione, ma
anche quello di indicare, in modo chiaro e preciso, gli elementi che sono alla base
delle censure medesime, al fine di consentire al giudice dell’impugnazione di
individuare i rilievi mossi ed esercitare il proprio sindacato (così, ex multis: sez. 2,
n. 19712 del 06/02/2015, Alota e altri, Rv. 26354201; sez. 3, n. 5020 del
17/12/2009, Valentini, rv. 245907, sez. 4, n. 24054 del 01/04/2004, Distante, rv.

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solo ‘fittiziamente coincidenti’ perché riconducibili ad un unico tessuto narrativo,

228586; sez. 2, n. 8803 del 08/07/1999, Albanese, rv. 214249). La disposizione di
cui all’art. 606 cod. proc. pen., considerata in riferimento all’art. 581 cod. proc.
pen. 1, lett. c), secondo la quale è onere del ricorrente “enunciare i motivi del
ricorso, con l’indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che
sorreggono ogni richiesta”, induce ad escludere sia consentita l’enunciazione
perplessa, confusa e meramente assertiva dei motivi di ricorso. Si è, infatti,
esattamente osservato (sez. 6, n. 8700 del 21/1/ 2013, Leonardo ed altri, rv.

argomentata avverso il provvedimento cui si riferisce. Tale critica argomentata si
realizza attraverso la presentazione di motivi che, a pena di inammissibilità (artt.
581 e 591 cod. proc. pen.), debbono indicare specificamente le ragioni di diritto e
gli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta. Contenuto essenziale dell’atto di
impugnazione è, pertanto, innanzitutto e indefettibilmente il confronto puntuale
(cioè con specifica indicazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che
fondano il dissenso) con le argomentazioni del provvedimento il cui dispositivo si
contestar. Tali criteri sono stati disattesi dal ricorrente, la cui iniziativa
impugnatoria va dunque dichiarata inammissibile.
3. Il ricorso proposto dal Viola investe il giudizio di affidabilità espresso dai
giudici di merito in ordine ai contributi conoscitivi offerti dai collaboratori di giustizia
ed il conseguente loro utilizzo probatorio a suo carico.
3.1 La sentenza impugnata ha richiamato per sintesi il contenuto delle
propalazioni dei collaboratori già utilizzate dal primo giudice a sostegno del giudizio
di colpevolezza, delle quali ha operato una più rigorosa selezione, negando
affidabilità alla narrazione di Marco e Giovanni Durantini perché postasi in difformità
dalle informazioni fornite da tutti gli altri dichiaranti e dai dati offerti dalla prova
generica, nonchè alla rievocazione dei fatti operata da Costantino Iacomino,
Agostino Scarrone e Francesco Raimo per avere costoro appreso quanto riferito da
altre fonti e non per diretta percezione o esperienza. Ha quindi privilegiato il
racconto prodotto dal Cefariello e da Elisabetta Cordua, quest’ultima aggiuntasi al
novero dei propalanti nel giudizio di appello, delle quali fonti ha apprezzato la
credibilità soggettiva, l’attendibilità intrinseca, la convergenza e l’acquisizione di
plurimi e significativi elementi di riscontro; in tale percorso illustrativo la Corte di
merito ha già replicato alle obiezioni difensive, che vengono riproposte perché nella
prospettiva difensiva le risposte offerte sarebbero viziate da manifesta illogicità
della motivazione e da violazione delle regole legali che presiedono alla valutazione
della chiamata in correità ed in reità.
3.2 Tali censure non hanno pregio perché la sentenza oppone a ciascuna
contestazione difensiva un corredo di osservazioni molto analitico, logico e del tutto
plausibile. Invero, in ordine al Cefariello, i giudici di appello hanno evidenziato che

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254584) che “La funzione tipica dell’impugnazione è quella della critica

egli, reo confesso di avere partecipato all’omicidio del Brisciano, ha ricostruito con
precisione tutte le fasi del delitto a ragione della sua intraneità al contesto
camorristico in cui l’azione omicidiaria era maturata, circostanza questa del resto
confermata anche dagli altri propalanti, e del limitato novero di aderenti, motivo
per il quale i rapporti tra costoro ed i capi erano stati improntati a necessaria
stretta vicinanza e collaborazione nella realizzazione delle iniziative criminose
deliberate. Il che, nella valutazione della Corte distrettuale, dà conto sul piano

e del suo coinvolgimento nell’esecuzione dell’omicidio; inoltre, nella sua narrazione
è stata positivamente riscontrata la linearità, la coerenza e la ricchezza di dettagli
descrittivi della vicenda e l’assenza di qualsiasi intento calunniatorio in danno di
coloro che egli aveva accusato, tanto che anche la Cordua, appena intrapresa la
scelta della collaborazione con la giustizia, ha confermato di avere svolto i compiti
ed il ruolo assegnatole come descritti dal Cefariello.
3.3 Altrettanto rigorosa disamina, ed estesa ad ogni possibile aspetto di
indagine, è stata condotta in riferimento al dichiarato del Langella e soprattutto della
Cordua, sul quale si sono concentrate prevalentemente le obiezioni difensive.
Quanto al primo, a detta del quale egli il giorno dell’omicidio del Brisciano,
allertato dal rumore di colpi di arma da fuoco, affacciatosi al balcone di casa aveva
scorto la Cordua, Lorenzo Fioto ed Enrico Viola rientrare velocemente alla Cuparella
e quest’ultimo consegnare una pistola alla Cordua che l’aveva riposta all’interno di
una busta di plastica bianca, la Corte di Assise di appello ha osservato che lo
stesso, pur intraneo al clan Iacomino-Birra, non aveva preso parte all’omicidio, ma
era venuto a conoscenza diretta soltanto di quanto verificatosi immediatamente
dopo l’esecuzione del delitto, sicchè la limitatezza delle sue conoscenze, la
spontaneità delle rivelazioni e l’assenza di qualsiasi proposito calunniatorio l’hanno
indotta ad assegnare piena credibilità al suo narrato ed a riconoscervi
corrispondenza con la descrizione della parte finale dell’azione offerta dal Cifariello.
L’apporto conoscitivo fornito al processo da Elisabetta Cordua è stato
ampiamente scandagliato dai giudici di appello, consapevoli che la decisione
dell’imputata di collaborare con la giustizia, soltanto dopo la condanna riportata in
primo grado, richiedeva una disamina di particolare scrupolosità; hanno osservato
al riguardo che le ammissioni di responsabilità rese dalla predetta hanno riguardato
le attività criminose compiute nell’interesse della cosca Iacomino-Birra, alla quale
ha affermato di avere preso parte con funzioni esecutive, disimpegnate secondo gli
ordini impartitele dai capi e quindi hanno trasceso l’ambito deliberativo ed esecutivo
dell’uccisione del Brisciano. In tale contesto ella ha descritto il proprio
coinvolgimento nello specifico episodio e riferito di avere funto da specchettista,
ossia da segnalatore della presenza della vittima designata nei luoghi di abituale
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materiale, come su quello logico, delle conoscenze apprese dalla fonte dichiarativa

frequentazione, notizia fornita la mattina dell’omicidio a Vincenzo Oliviero, che in
quel momento svolgeva funzioni dirigenziali del gruppo criminoso; questi aveva
attivato gli esecutori materiali Cefariello e Viola, per mani dei quali era avvenuta
l’eliminazione, mentre lei aveva poi accompagnato il Viola alla Cuparella e,
raggiuntili il Cefariello, questi con la motocicletta aveva condotto il Viola nel luogo
ove ella aveva parcheggiato la propria autovettura, a bordo della quale lo aveva
trasportato a Boscoreale, lontano da Ercolano, come indicatole dall’Oliviero.

hanno condotto la Corte di merito ad ascrivere alla sua affiliazione
all’organizzazione camorristica le conoscenze direttamente acquisite e riversate nel
processo, ad apprezzarne la pacatezza, l’assenza di qualsiasi accanimento, anzi una
certa ritrosia, nei riguardi degli affiliati ché non avevano scelto di collaborare a
riprova dell’assenza di “intenti calunniatori e persecutori”, la spontaneità intesa
quale assenza di coartazione a rendere dichiarazioni accusatorie. Sul piano della
attendibilità estrinseca si sono segnalate la coerenza, la logicità e la costanza della
rievocazione della vicenda in linea con le risultanze della prova generica.
Non è mancato nemmeno l’approfondimento del tema dell’autonomia delle
conoscenze della Cordua rispetto a quanto già dichiarato nel processo dal
Cefariello: la Corte distrettuale ha segnalato sul punto che entrambe le fonti erano
state direttamente coinvolte, per loro ammissione, nell’omicidio quali esecutori,
seppur con ruoli diversi, circostanza che offre plausibile giustificazione della
corrispondenza delle rispettive descrizioni, senza che ciò implichi necessariamente
un allineamento postumo e non veritiero da parte della Cordua a quanto già rivelato
dal Cefariello. Oltre a ciò, ha rimarcato che l’imputata aveva riferito particolari sulla
fase preparatoria del delitto, cui aveva preso parte personalmente senza l’apporto
del Cefariello, dimostrando in tal modo di avere acquisito una conoscenza diretta ed
autonoma dei relativi accadimenti ed avvalorando il giudizio di piena genuinità delle
sue propalazioni, che riceve ulteriore riscontro da parte di tutte le altre fonti
escusse, che ne hanno indicato la partecipazione al delitto e la presenza nei pressi
del luogo della sua esecuzione.
Ha quindi aggiunto che nessun interesse diverso dai benefici premiali
conseguibili con la scelta della collaborazione nell’ambito dell’accordo
legittimamente stipulato con lo Stato ha mosso la sua determinazione di rivelare
l’accaduto e che analogo giudizio di piena affidabilità era stato espresso nei riguardi
della Cordua da altra autorità giudiziaria, evenienza che comunque non ha esentato
la Corte di secondo grado dal condurre, come già detto, in via autonoma l’indagine
impostale dall’art. 192 cod. proc. pen., comma 3 e che l’ha condotta a rinvenire
piena corrispondenza nel narrato operato dalla stessa e dal Cefariello quanto a:
individuazione dei mandanti e del movente del delitto, descrizione delle modalità
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Le verifiche compiute in ordine alla credibilità intrinseca della dichiarante

realizzative e del ruolo svolto dai singoli partecipanti, compresi i due collaboratori,
delle condotte successive volte ad allontanare dal luogo della sparatoria il Viola, suo
esecutore materiale, dell’assenza da tale luogo di Lorenzo Fioto, che, pur a
conoscenza del progetto omicidiario e pur uscito di casa, secondo quanto riferito
dalla teste Mennella, si era defilato e dopo gli spari si era precipitosamente riportato
nell’abitazione, mettendosi a letto, ragione per la quale i due dichiaranti non lo
avevano visto e non ne avevano riferito la partecipazione all’azione.
3.4 La difesa del Viola, nel segnalare che la Corte di Assise di appello ha

esposto nella sentenza di primo grado, ha eccepito l’illogicità di tale ragionamento
perché: a) la lettura delle dichiarazioni della Cordua ed il frasario dalla stessa
utilizzato dimostrano la loro coincidenza con le espressioni del Cefariello, di cui ella
ha avuto piena conoscenza; b) gli elementi di novità individuati nella sua narrazione
dalla Corte di secondo grado riguardano particolari collocati al di fuori del thema
decidendum ; che per la posizione del Viola, in quanto preteso sparatore, è limitato
alle fasi immediatamente precedenti e contestuali all’uccisione del Brisciano; c) la
segnalata pacatezza e ritrosia della Cordua ad accusare gli ex sodali non
collaboratori è affidata soltanto alla percezione soggettiva della Corte, non già a
fatti precisi, mentre, con identica dignità razionale, può affermarsi in chiave
difensiva che ella, dopo una approfondita lettura degli atti, ha inteso non sbagliare
e quindi ha prospettato una narrazione lenta ed arricchita di particolari innovativi,
ma non riscontrati, per evitare di lasciare alle parti spazi per contestazioni. Ad
avviso del Collegio nessuna di tali obiezioni consente di ravvisare il vizio
motivazionale denunciato.
3.4.1 Vanno premesse alcune nozioni di ordine teorico circa l’ambito del
controllo esercitabile in sede di legittimità sul vizio di motivazione e sulla corretta
applicazione delle regole normative che impongono criteri generali di valutazione
del materiale probatorio.
Secondo il costante insegnamento di questa Corte, il sindacato sulla
motivazione del provvedimento impugnato va compiuto attraverso l’analisi dello
sviluppo giustificativo espresso nell’atto e della sua interna coerenza logicogiuridica, trattandosi di valutare, non già il fatto in quanto tale, ma l’opzione del
fatto come recepita nella sentenza contestata attraverso l’apprezzamento delle
prove disponibili; tale attività costituisce patrimonio esclusivo del giudice di merito,
rispetto al quale a quello di legittimità è interdetto un intervento cognitivo che si
traduca nell’attribuzione di nuovi significati o di differenti considerazioni dei
medesimi dati dimostrativi, seppure maggiormente esplicative e pur senza
escludere la necessità di verifica, nell’ambito della devoluzione operata dai motivi di
gravame, circa l’assolvimento del dovere di “completezza e persuasività” della

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tit/

seguito un percorso valutativo del materiale probatorio autonomo rispetto a quello

motivazione in rapporto alle regole di giudizio che presidiano l’affermazione della
penale responsabilità, art. 533 cod.proc.pen., comma 11, e codificano taluni
parametri essenziali per la ricostruzione del fatto,Aart. 192 cod.proc.pen., commi 2
e 3). Sotto il primo profilo l’ordinamento processuale esige che la penale
responsabilità sia accertata “al di là di ogni ragionevole dubbio”, ossia pretende che
il dato probatorio acquisito escluda solo eventualità remote, pur astrattamente
ipotizzabili come verificabili nella realtà concreta, ma la cui effettiva realizzazione

processuali, ponendosi al di fuori dell’ordine naturale delle cose e dell’ordinaria
razionalità umana. Secondo quanto affermato dalla costante linea interpretativa di
questa sezione ( sez. 1 n. 31456 del 21/5/2008, Franzoni, rv. 240763; sez. 1, n.
23813 del 08/05/2009, PG in proc. Manickam, rv. 243801; sez. 1, n. 17921 del
03/03/2010, Giampà, rv. 247449; sez. 1, n. 44324 del 18/04/2013, P.G., P.C. in
proc. Stasi, rv. 258321), tale principio formalizza in norma positiva regola di
giudizio già applicata dalla giurisprudenza (ex multis: Sez. U, n. 11 del 21/04/1995,
Costantino e altro, rv. 202001; sez. 6, n. 1518 del 08/04/1997, PM in proc.
Mochetto, rv. 208144; sez. 6, n. 863 del 10/03/1999, Capriati, rv. 212998; Sez. U,
n. 30328 del 10/07/2002, Franzese, rv. 222139; Sez. U, n. 45276 del 30/10/2003,
P.G., Andreotti e altro, rv. 226094), secondo la quale la condanna è possibile
soltanto quando vi sia la “certezza processuale” della responsabilità dell’imputato,
desunta all’esito di un procedimento logico governato dagli specifici criteri, dettati
dall’art. 192 cod. proc. pen., commi 2 e 3 al fine di assegnare valore probatorio agli
elementi indiziari ed agli apporti conoscitivi acquisti da fonti diverse dalla
testimonianza, in sé privi di “autosufficienza” dimostrativa. Pertanto, il giudizio di
responsabilità che superi il ragionevole dubbio costituisce il risultato di attività
ricostruttiva da condursi secondo il metodo operativo dell’art. 192 citato, la cui
inosservanza compromette la legalità e la logicità interna della decisione.
3.4.2 Ciò posto, si devono altresì richiamare i principi di diritto, elaborati dalla
giurisprudenza di legittimità, sul tema dell’utilizzo probatorio delle dichiarazioni di
quanti, indagati o imputati del medesimo reato o di reati connessi, per avere riferito
la commissione di fatti di reato da parte di terzi, siano autori di una chiamata in
correità o in reità. Secondo la previsione dell’art. 192 cod. proc. pen., l’accusa
proveniente da siffatti soggetti costituisce in sé un dato incerto, da verificare con un
complesso procedimento che costituisce un preciso limite metodologico, e non di
risultato, alla libertà di convincimento del giudice e che la giurisprudenza di
legittimità ha previsto dover consistere in un triplice vaglio, incentrato su: a)
credibilità soggettiva del dichiarante in relazione alla sua personalità, alle sue
condizioni socio-economiche e familiari, al suo passato, ai rapporti con i chiamati in
correità ed al percorso di formazione della sua risoluzione alla confessione ed alla

9

ì’f/

nel caso specifico si presenti sfornita di qualsiasi riscontro nelle emergenze

accusa dei coautori e complici; b) affidabilità intrinseca e consistenza della
narrazione in relazione ai caratteri della precisione, della coerenza, della costanza e
della spontaneità; c) riscontri esterni individualizzanti.
E’ sufficiente ricordare al riguardo quanto autorevolmente evidenziato dalle
Sezioni Unite di questa Corte nella sentenza n. 20804 del 29/11/2012, Aquilina e
altri, rv. 255145, secondo la quale “la detta sequenza non deve essere – per così
dire – rigorosamente rigida, nel senso cioè che il percorso valutativo dei vari

soggettiva del dichiarante e l’attendibilità oggettiva del suo racconto, influenzandosi
reciprocamente, al pari di quanto accade per ogni altra prova dichiarativa, devono
essere valutate unitariamente, “discendendo ciò dai generali criteri epistemologici e
non indicando l’art. 192 c.p.p., comma 3, sotto tale profilo, alcuna specifica regola
derogatoria” (sez. 1, n. 19759 del 17/05/2011, Misseri, non massimata sul punto;
sez. 6, n. 11599 del 13/03/2007, Pelaggi, rv. 236151). In sostanza, devono essere
superate eventuali riserve circa l’attendibilità del narrato, vagliandone la valenza
probatoria anche alla luce di tutti gli altri elementi di informazione legittimamente
acquisiti”.
Con riferimento ai riscontri esterni, la relativa obbligatoria acquisizione è
imposta dalla formulazione del terzo comma dell’art. 192 cod. proc. pen. laddove
menziona in modo generico gli “altri elementi di prova” che confermino
l’attendibilità delle dichiarazioni del propalante, da intendersi nel loro complessivo
contenuto e non per ciascuno dei punti riferiti. Per tali, secondo pacifico
orientamento, devono intendersi elementi di qualsiasi tipo e natura, -prove storiche
dirette, ma anche ogni altro elemento probatorio indiretto-, purchè dotati di
autonomo significato rappresentativo, basati su dati oggettivi apprezzabili e non su
mere congetture soggettive e correlati con i fatti di reato contestati, sicché il
riscontro non può esaurire la propria funzione nella conferma dell’attendibilità
soggettiva del dichiarante, ma deve riferirsi all’addebito mosso all’imputato, in
modo che da esso si possa risalire, con logica deduzione, all’oggetto dell’accusa.
Non è però richiesta una capacità dimostrativa autonoma dell’elemento di riscontro,
che deve operare soltanto quale conferma delle dichiarazioni accusatorie, in quanto,
diversamente, non sarebbe più applicabile la regola di giudizio di cui al terzo
comma dell’art. 192 cod. proc. pen., ma i principi sulla pluralità delle prove e sul
libero potere di selezione di quelle più affidabili e convincenti da parte del giudice
(Cass. sez. 6 n. 4108 del 17/2/1996, Cariboni, rv 204439). L’assenza di precise
indicazioni normative contrarie ha indotto a ritenere che i riscontri non debbano
necessariamente essere di natura diversa rispetto alla fonte da corroborare,
potendo trattarsi anche delle dichiarazioni rese da altro chiamante in correità o in
reità ed in questo TX secondo caso il loro utilizzo richiede un maggiore rigore

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passaggi non deve muoversi lungo linee separate. In particolare, la credibilità

valutativo, che si deve tradurre nel correlativo sforzo motivazionale, volto a
riscontrarne:
– la convergenza in ordine al fatto materiale oggetto della narrazione, da apprezzarsi
comunque non come assoluta coincidenza delle versioni riferite, ma quale
corrispondenza del nucleo essenziale e significativo della vicenda fattuale descritta;
– l’indipendenza, in quanto non originate da intese fraudolente o da altri
condiziona menti;

oggettività e nella sua riferibilità al chiamato;
– l’autonomia genetica, ossia la provenienza da fonti diverse al fine di scongiurare la
circolarità della notizia, che, se proveniente da unico dichiarante, vanificherebbe la
funzione di riscontro oggettivo e la pretesa convergenza.
3.4.3 Confrontata la sentenza in esame con i criteri come sopra riassunti,
emerge che la stessa con ricchezza di argomenti e con rigore logico ha sondato ogni
aspetto delle dichiarazioni della collaboratrice di giustizia Cordua ed è approdata al
giudizio di piena affidabilità della fonte con un corredo esplicativo molto analitico,
logico e del tutto plausibile, che resiste alle pur pregevoli censure difensive.
Invero, l’assunto propugnato in ricorso della perfetta sovrapponibilità anche
linguistica nelle versioni dei fatti rese dalla Cordua a ricalco di quella del Cefariello
pecca di genericità poiché non specifica quali passaggi o espressioni rivelino un
intento emulatorio della coimputata e la non autonomia delle notizie riversate nel
processo. Per contro, che la coincidenza narrativa non sia assoluta e totale emerge
anche dalla stessa sentenza, laddove ha evidenziato che ella aveva descritto
l’attività preparatoria al delitto in termini genuini ed indipendenti dal narrato del
Cefariello, non coinvolto nei medesimi compiti e che del suo coinvolgimento nella
vicenda vi era conferma nelle dichiarazioni di tutte le altre fonti dichiarative
escusse.
La pretesa della difesa di ritenere irrilevante l’apporto conoscitivo fornito dalla
Cordua sui preparativi e sullo studio dei movimenti della vittima, perché compiuti
senza l’apporto del ricorrente, non tiene conto del fatto che deve essere oggetto di
disamina in sede processuale, nell’ambito della verifica sulla credibilità, l’intera
narrazione operata dalla fonte onde riscontrarne la razionalità, l’assenza di profili di
incongruenza o palese illogicità, la plausibilità complessiva della ricostruzione
fattuale, non essendo possibile estromettere una parte del racconto perché non
riguardante la posizione individuale di ciascun accusato.
Sono prive di fondamento anche le contestazioni che interpretano come
studiata efficienza e sospetta precisione i caratteri di pacatezza ed assenza di
animosità nella chiamante in correità, evidenziati in sentenza, di cui si segnala un
ulteriore profilo di illogicità: la percezione da parte del giudice del contenuto

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– la specificità per essere corrispondenti nella descrizione del fatto nella sua

rievocativo delle vicende criminose, delle modalità in cui lo stesso è proposto, della
sua qualità in termini di completezza, ricchezza di dettagli descrittivi, coerenza e
corrispondenza agli altri dati probatori, dell’atteggiamento del dichiarante,
costituisce operazione inalienabile nell’ambito della valutazione di credibilità e non
può essere censurato come appartenente alla sfera dell’opinabilità soggettiva e
dell’irrazionalità. In ogni caso, in ricorso si omette di indicare specifici profili di
meccanica riproduzione del testo scritto e precedentemente letto, presenti nelle
dichiarazioni della Cordua, di illustrare l’incoerenza del suo narrato, la necessità di

insomma non si sostanzia la censura che investe il giudizio di attendibilità della
coimputata con la prospettazione di dati di fatto concreti che possano avvalorare la
denuncia di un suo allineamento strumentale e mendace alle accuse già provenienti
dal Cefariello.
4.4 Vanno disattese anche le doglianze espresse col secondo motivo articolato
dalla difesa del Viola. Escluso che si possano estromettere dalla piattaforma
probatoria le dichiarazioni della Cordua per quanto già esposto e ritenuto
incensurabile il giudizio di convergenza della sua chiamata in correità con quella
resa dal Cefariello, non è sostenibile che, poiché tra quanto riferito dalla Cordua e
quanto affermato da questi e dal Langella vi è un solo punto di difformità relativo
alla consegna dell’arma da parte del Viola alla coimputata, tale discrasia dimostra
l'”inesistenza storica del riscontro”. La narrazione del Langella, come analizzata in
sentenza, è stata correttamente ritenuta confermare la compresenza alla Cuparella
dei tre complici, già a lui noti, velocemente rientrati in quel luogo subito dopo la
percezione degli spari, circostanza perfettamente compatibile sul piano logico e
materiale con l’esecuzione poco prima avvenuta dell’omicidio del Brisciano.
Anche la mancata descrizione da parte della Cordua e del Cefariello della presenza
e della partecipazione al delitto di Lorenzo Fioto ha trovato congrua risposta da
parte dei giudici di appello, per i quali i due coimputati non avevano potuto
percepirne il coinvolgimento per l’atteggiamento defilato assunto dal Fioto stesso,
mentre la divergenza nella descrizione dell’arma in possesso del Viola, offerta dalla
teste Mennella rispetto a quella data dal Cefariello, per la stimata marginalità del
particolare e la possibilità di un errore da parte di quest’ultima è stata ritenuta
insufficiente a dimostrare che l’intera vicenda non si è mai verificata in quei termini
ed è addebitabile all’operato di soggetto diverso dal ricorrente.
E’ evidente il tentativo difensivo di isolare singoli aspetti della ricostruzione
dell’azione criminosa, in cui si è effettivamente registrata la non piena
corrispondenza tra la versione di una fonte e quella delle altre, il che però, stante la
limitatezza della divergenza e l’incidenza su dettagli secondari, non consente di
ritenere arbitrario, illegale ed illogico il difforme convincimento espresso in sentenza

12

contestazioni, l’omessa risposta a domande formulate nel corso del controesame,

laddove si è rinvenuta la convergenza di plurimi contributi dichiarativi ad indicare
nel Viola l’esecutore materiale dell’omicidio premeditato di Gennarino Brisciano.
Per le considerazioni svolte, i ricorsi proposti da Enrichetta Cordua e da
Giacomo Zeno vanno dichiarati inammissibili, il che comporta la loro condanna al
pagamento delle spese processuali ed al versamento di una somma in favore della
Cassa delle ammende, che, stante le differenti ragioni dell’inammissibilità, si stima
equo determinare in euro 500,00 per la prima ed in euro 2.000,00 per il secondo; il
ricorso proposto da Enrico Viola va, invece, respinto con la sua conseguente

P. Q. M.

dichiara inammissibile il ricorso di Enrichetta Cordua, che condanna al
pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di euro 500,00 in
favore della Cassa delle ammende. Dichiara altresì inammissibile il ricorso di
Giacomo Zeno, che condanna al pagamento delle spese processuali ed al
versamento della somma di euro 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Rigetta il ricorso di Enrico Viola, che condanna al pagamento delle spese
processuali.
Così deciso in Roma, il 6 dicembre 2017.

condanna al pagamento delle spese processuali.

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