Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 16819 del 22/03/2018


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 16819 Anno 2018
Presidente: IASILLO ADRIANO
Relatore: RAGO GEPPINO

SENTENZA
sul ricorso proposto da
1.

MANGINO MICHELE, nato il 30/11/1945;

2.

KURTI IDAJEDE nato il 30/11/1960;

3.

KAMBERI IGLI, nato il 21/10/1985;

4.

GIAMPALMA DOMENICO, nato il 29/08/1966;

contro la sentenza del 10/11/2016 della Corte di Appello di Bari;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere dott. G. Rago;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Fulvio
Baldi, che ha concluso chiedendo il rigetto per il Giampalma, l’inammissibilità per
i restanti ricorsi;
uditi i difensori, avv.ti Nicola Mastropasqua (per Giannpalma), Iole Rosa Miele, in
sostituzione dell’avv.to Carmine Di Paola (per Kurti e Kamberi) che hanno
concluso chiedendo l’accoglimento dei ricorsi;

RITENUTO IN FATTO

1. Mangino Michele, Kurti Idajede, Kamberi Igli e Giannpalma Domenico, a
mezzo dei rispettivi difensori, hanno proposto separati ricorsi per cassazione
contro la sentenza in epigrafe.

Data Udienza: 22/03/2018

2. MANGINO MICHELE

condannato per i reati di usura (capi sub b-c-d-e-j-k-l-

m-n-o-q-r-s-t-u-v-w-x-y), di estorsione tentata e consumata (capi sub f-l-z) e
calunnia (capo sub p) – ha dedotto la violazione delle norme sul trattamento
sanzionatorio (eccessività della pena; mancata esclusione della recidiva;
mancata prevalenza delle attenuanti generiche), per non avere la Corte tenuto
conto del comportamento processuale e del ruolo di secondaria importanza che
aveva avuto nei fatti per cui è processo, essendo stato egli soltanto la longa

3. KAMBERI IGLI e KURTI IDAJETE, sebbene con separati ricorsi, hanno dedotto
motivi perfettamente identici avendo entrambi sostenuto:
3.1. l’irrilevanza causale del loro contributo alla consumazione dei vari reati
di cui sono stati ritenuti colpevoli;
3.2. l’inattendibilità delle dichiarazioni della persona offesa Tempesta Biagio:
sul punto, la difesa, ha dedotto ulteriori argomenti con i motivi aggiunti
depositati il 19/04/2017;

4. GIAMPALMA DOMENICO

condannato per il delitto di cui all’art. 648 bis cod.

pen. – ha dedotto:
4.1. La violazione dell’art. 648 bis cod. pen.: la difesa ha sostenuto,
innanzitutto, che il ricorrente era stato condannato «in assenza di una specifica e
puntuale contestazione degli elementi costitutivi e strutturali della condotta tipica
ex art. 648 bis cod. pen. [….] deprivando l’imputato di una precisa e puntuale
conoscenza dell’imputazione su cui articolare la difesa».
In secondo luogo, la difesa, ha sostenuto che, in modo illogico e
contraddittorio, la Corte aveva desunto il dolo da circostanze fattuali in realtà
prive di uno spessore indiziario certo ed univoco. Anzi, la circostanza che
l’imputato avesse accreditato gli assegni provento di usura sul suo c/c in maniera
tracciabile e che non li avesse alterati, ne dimostrava l’assoluta buona fede.
Inoltre, «quei titoli erano stati consegnanti al Giampalma a titolo di corrispettivo
a fronte di precedenti ordinazioni (a lui) commissionate»: sul punto, la Corte non
aveva ritenuto attendibile la versione difensiva in modo del tutto illogico. Inoltre,
non erano state tenute in debita considerazione le circostanze che i c/c sui quali
gli assegni veniva versati preesistevano alle operazioni in questione e che
l’imputato non aveva mai avuto alcun rapporto con le persone offese dai reati di
usura. In realtà, l’imputato aveva offerto una valida ed alternativa tesi difensiva
secondo la quale i rapporti che aveva intrattenuto con il Mangino e l’Asseliti
trovavano la loro causa in leciti rapporti commerciali nell’ambito dei quali aveva,
appunto, ricevuto i titoli in contestazione a pagamento totale o parziale di
precedenti commissioni. In tale ottica, la difesa, ha sostenuto che la vicenda

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manus dei soggetti effettivamente interessati alle transazioni;

dell’assegno del Buonaugurio era privo di qualsiasi attitudine esplicativa, così
come l’episodio richiamato dal Nanula.
Infine, la difesa ha sostenuto che, a tutto concedere, difettava l’idoneità
della condotta contestata ad ostacolare l’identificazione dell’asserita provenienza
delittuosa del denaro, proprio perché i versamenti dei titoli erano stati «pochi,
trasparenti, tutti tracciati» e cioè «tali da consentire la piena ed evidente
tracciabilità di denaro senza alcuna possibilità di errore o di difficoltà nella
ricostruzione» e dell’asserita provenienza delittuosa del denaro.

la condotta di riciclaggio in quella del favoreggiamento;
4.3. La violazione degli artt. 62 bis-133-69-163 cod. pen. per avere la Corte
omesso di motivare sui motivi di appello proposti in ordine al trattamento
sanzionatorio e per non avere valutato tutti gli indici di cui all’art. 133 cod. pen.
al fine di rimodulare in me/ius la pena inflitta;
4.4. La violazione dell’art. 12 sexies L. 356/1992 per avere la Corte respinto
il motivo di appello proposto sul punto «con argomentazioni del tutto generiche
ed approssimative, concretizzando così il vizio di difetto assoluto di motivazione»
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. RICORSO MANGINO MICHELE
Il ricorso è inammissibile essendo manifestamente infondata la censura
dedotta.
Il trattamento sanzionatorio – comprensivo del riconoscimento delle
circostanze attenuanti e della loro comparazione con le eventuali aggravanti e
della concessione dei benefici della sospensione condizionale e della non
menzione – rientra nelle attribuzioni esclusive del giudice di merito e così
anche la determinazione della pena da infliggere in concreto che, per l’art.
132 cod. pen., è applicata discrezionalmente dal giudice che deve indicare i
motivi che giustificano l’uso di tale potere.
In sede di legittimità, è consentito esclusivamente valutare se il giudice,
nell’uso del suo potere discrezionale, si sia attenuto a corretti criteri logico
giuridici e abbia motivato adeguatamente il suo convincimento.
E’, infatti, da ritenere adempiuto l’obbligo della motivazione in ordine alla
misura della pena allorché sia indicato l’elemento, tra quelli di cui all’art. 133
cod. pen., ritenuto prevalente e di dominante rilievo (Sez. un., n. 5519 del
21/4/1979, rv. 142252): invero, una specifica e dettagliata motivazione in
ordine alla quantità di pena irrogata, in tutte le sue componenti, appare
necessaria soltanto nel caso in cui la pena sia di gran lunga superiore alla
misura media di quella edittale, potendo altrimenti risultare sufficienti a dare

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4.2. La violazione dell’art. 379 cod. pen. per non avere la Corte riqualificato

conto del corretto impiego dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen. espressioni
del tipo “pena congrua”, “pena equa” o “congruo aumento”, come pure il
richiamo alla gravità del reato oppure alla capacità a delinquere (Sez. II, n.
36245 del 26/6/2009, rv. 245596; Sez. IV, n. 46412 del 5/11/2015, rv.
265283).
Nel caso di specie, a fondamento della statuizione contestata, la Corte di
appello, (pag. 5) ha quindi incensurabilmente valorizzato i precedenti penali
dell’imputato, gravi e specifici, e le gravi modalità dei fatti accertati, che

prendendo atto del corretto comportamento processuale, ha calcolato la pena
base (per il reato di estorsione) nel minimo edittale ed applicato minimi
aumenti di pena per tutti i reati in continuazione, ed, infine, ha provveduto a
ridurre la pena inflitta dal primo giudice. Tanto basta per ritenere
incensurabile la decisione impugnata.

2. RICORSI KAMBERI IGLI E KURTI IDAJETE
Entrambi i ricorsi sono inammissibili.
Quanto alla dedotta irrilevanza causale del contributo dei ricorrenti alla
consumazione dei vari reati di cui sono stati ritenuti colpevoli, è sufficiente
osservare che si tratta della medesima censura dedotta con i motivi di appello
ma disattesa dalla Corte Territoriale con motivazione amplissima, congrua e
coerente con i numerosi elementi fattuali puntualmente indicati (pag. 6 ss
della sentenza impugnata): null’altro resta da aggiungere trattandosi di una
mera questione di fatto riproposta in modo tralaticio e reiterativo in questa
sede al fine di ottenere, in modo surrettizio, una nuova valutazione del
merito.
Stessa cosa dicasi, mutatis mutandis, in ordine alla dedotta inattendibilità
della persona offesa Tempesta Biagio ampiamente confutata, in fatto, dalla
Corte Territoriale (pag. 8). In particolare, con i motivi aggiunti del
19/04/2017, entrambi i ricorrenti hanno sostenuto l’insussistenza dei fatti loro
addebitati ai capi sub g-h-i (usura ed estorsione in danno del Tempesta)
adducendo una serie di circostanze di fatto dalle quali, ad avviso della difesa,
dovrebbe desumersi che il prestito fu effettuato ma senza interessi.
Al che deve replicarsi che si tratta della stessa tesi difensiva dedotta in
appello (con il quale fu sostenuto che il prestito era stato concesso “per mero
spirito di solidarietà umana”) ma ritenuta dalla Corte Territoriale «risibile se
raffrontata con le emergenze probatorie [….]» (pag. 8).
La dedotta censura (con la quale si adombra una sorta di travisamento
della prova: omessa valutazione di due cambiali prodotte nel corso
dell’udienza preliminare), quindi, va ritenuta manifestamente infondata alla
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C

denotano spiccata capacità criminale: va peraltro rilevato che la Corte,

stregua del seguente principio di diritto: «Qualora ci si trovi innanzi ad una cd.
doppia conforme (doppia pronuncia di uguale segno) il vizio di travisamento
della prova può essere rilevato in sede di legittimità solo nel caso in cui il
ricorrente rappresenti (con specifica deduzione) che l’argomento probatorio
asseritamente travisato è stato per la prima volta introdotto come oggetto di
valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado. Infatti, in
considerazione del limite del devolutum (che impedisce che si recuperino, in
sede di legittimità, elementi fattuali che comportino la rivisitazione

dell’iter

critiche dei motivi di gravame, abbia richiamato atti a contenuto probatorio
non esaminati dal primo giudice) il sindacato di legittimità, deve limitarsi alla
mera constatazione dell’eventuale travisamento della prova, che consiste
nell’utilizzazione di una prova inesistente o nell’utilizzazione di un risultato di
prova incontrovertibilmente diverso, nella sua oggettività, da quello effettivo».

3. RICORSO GIAMPALMA DOMENICO
Il ricorso è inammissibile per le ragioni di seguito indicate.
3.1. LA VIOLAZIONE DELL’ART. 648 BIS COD. PEN.
La difesa del ricorrente ha articolato un complesso motivo ruotante,
sostanzialmente, sulle seguenti censure.
3.1.1. La nullità della sentenza in quanto la responsabilità dell’imputato
era stata affermata «in assenza di una specifica e puntuale contestazione
degli elementi costitutivi e strutturali della condotta tipica ex art. 648 bis cod.
pen.».
La censura è manifestamente infondata. Infatti, ove la difesa intenda
riferirsi alla genericità ed indeterminatezza del capo d’imputazione, l’eventuale
nullità deve ritenersi sanata ex art. 181 cod. proc. pen. non risultando essere
mai stata dedotta nei giudizi di merito (SSUU 5307/2008, Battistella).
Comunque, il capo d’imputazione è preciso e determinato in quanto descrive
perfettamente la condotta di “riciclaggio” tenuta dal ricorrente.
3.1.2. L’assenza di dolo: anche la suddetta censura è manifestamente
infondata. Sul punto non resta che rinviare alla lettura della sentenza
impugnata (pag. 12 ss) in cui la Corte indica l’univoco e convergente quadro
probatorio a carico dell’imputato (dichiarazioni accusatorie rese dal Mangino
davanti al P.m. seppure poi ritrattate davanti al giudice delle indagini
preliminari; intercettazioni telefoniche; servizi di appostamento; analisi dei c/c
sequestrati) dal quale risulta che fosse perfettamente a conoscenza dell’illecita
attività che svolgeva in favore degli usurai e per la quale veniva
ricompensato.

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Q
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costruttivo del fatto, salvo il caso in cui il giudice d’appello, per rispondere alla

La Corte Territoriale ha, poi, preso in esame anche la tesi difensiva
(secondo la quale l’imputato era all’oscuro di ogni cosa ed i titoli che versava
sui propri c/c derivavano da leciti rapporti commerciali) ma l’ha confutata in
modo congruo, logico e coerente con gli evidenziati elementi fattuali
stigmatizzandone, quindi, l’inverosimiglianza (pag. 13).
In questa sede, la difesa non ha fatto altro che reiterare la propria tesi
alternativa sostenendone l’attendibilità. Al che deve replicarsi che, in tema di
controllo sulla motivazione, alla Corte di cassazione è normativamente
preclusa la possibilità di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze

una surrettizia rivalutazione del merito, potendo solo procedere a valutare la
tenuta logica della motivazione (che, quindi, non dev’essere,

ictu ocu/i,

manifestamente illogica, dovendo il sindacato di legittimità essere limitato a
rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze:
ex plurimis SSUU 24/1999) e che la medesima sia rispettosa della regola di
giudizio compendiata nella formula “al di là di ogni ragionevole dubbio”.
Ciò comporta che il vizio di motivazione va escluso quando il ragionamento
sia effettivamente adeguato a superare il ragionevole dubbio e, per, converso
sussiste quando le alternative proposte dalla difesa siano logiche e fondate su
elementi di prova acquisiti al processo e regolarmente prospettati.
Infatti, la condanna può essere pronunciata a condizione che il dato
probatorio acquisito lasci fuori soltanto eventualità remote, pur astrattamente
formulabili e prospettabili come possibili “in rerum natura” ma la cui effettiva
realizzazione, nella fattispecie concreta, risulti priva del benché minimo
riscontro nelle emergenze processuali, ponendosi al di fuori dell’ordine
naturale delle cose e della normale razionalità umana (Cass. 17921/2010 Rv.
247449; Cass. 2548/2015 Rv. 262280; Cass. 20461/2016 Rv. 266941).
Nel caso di specie, non è ravvisabile alcun vizio motivazionale sotto il
profilo dell’al di là di ogni ragionevole dubbio, perché il giudice di merito, ha
pronunciato sentenza di condanna sulla base di un compendio probatorio
formato da indizi gravi, precisi e concordanti ex art. 192/2 cod. proc. pen. ed
ha contestualmente escluso, con motivazione logica e congrua, la tesi
alternativa prospettata dalla difesa in quanto priva di ogni riscontro
processuale e, quindi, non razionalmente plausibile.
3.1.3. L’inidoneità della condotta contestata ad ostacolare l’identificazione
della provenienza delittuosa del denaro. Anche la suddetta censura è
manifestamente infondata.
In punto di fatto risulta accertato che gli usurai consegnavano denaro e
titoli provenienti dal delitto di usura al Giampalma il quale – dopo averli
custoditi in un box di cui aveva la disponibilità – li versava sui propri conti

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processuali a quella compiuta nei precedenti gradi e, quindi, di procedere ad

correnti, li incassava e poi li restituiva, una volta “ripuliti”, ai suddetti usurai
che, in cambio, lo ricompensavano.
In punto di diritto, va premesso che il riciclaggio, è una norma speciale
rispetto alla ricettazione il cui elemento specializzante è costituito dalla ricezione
di un bene di provenienza illecita (elemento comune con la ricettazione)
finalizzata ad ostacolare l’identificazione della sua origine delittuosa tramite la cd
“ripulitura”.
In altri termini, sotto il profilo dell’elemento materiale, il reato di riciclaggio,
punisce le condotte che impediscono di identificare la provenienza delittuosa del

si limita a ricevere la cosa di provenienza delittuosa, senza modificarla e ripulirla
dalle possibili tracce della propria illecita provenienza.
L’art. 648 bis cod. pen. prevede tre condotte di riciclaggio (due nominate: la
sostituzione ed il trasferimento; un’altra innominata: altre operazioni) finalizzate
tutte ad «ostacolare la provenienza delittuosa»: fra queste, ad es. il «successivo
ritiro di denaro contante dell’importo corrispondente quello versato presso
banche in assegno o altre tipologie di denaro»: Cass. pen., sez. IV, 30 gennaio
2007, Gazzella.
Queste notorie nozioni, consentono, ora di affrontare la problematica del
riciclaggio degli assegni e del denaro, problematiche che, spesso, vengono
impropriamente sovrapposte e confuse.
Sulla suddetta problematica questa Corte di legittimità ha ritenuto quanto
segue.
Ove l’imputato versi denaro contante, stante la fungibilità del bene, non può
dubitarsi che il deposito in banca di denaro “sporco” realizzi automaticamente la
sostituzione di esso, essendo la banca obbligata a restituire al depositante la
stessa quantità di denaro depositato (ex plurimis Cass. 19504/2012 Rv. 252814,
in motivazione).
Si verifica, poi, un’ipotesi di riciclaggio anche in tutti quei casi in cui
l’imputato si presti a monetizzare un assegno (di provenienza illecita) con
operazioni tali «da ostacolare la provenienza delittuosa» e, quindi, a ripulire
l’importo di denaro per il quale è stato emesso: Cass. 1924/2016 rv. 265988;
Cass. 4631/2016 Rv. 268316; Cass. 30265/2017 Rv. 270302.
Ora, applicando i suddetti principi di diritto alle concrete fattispecie in
esame, ne deriva che la conclusione alla quale sono pervenuti entrambi i giudici
di merito è corretta e conforme alla citata giurisprudenza di questa Corte di
legittimità.
L’imputato, infatti, monetizzò gli assegni provento dei delitti commessi dagli
usurai con il preciso obiettivo di “ostacolare” l’accertamento della provenienza

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denaro, beni o altra utilità, mentre quello di ricettazione sanziona il soggetto che

illecita di quegli assegni, girando l’assegno (rilasciato dalle vittime dei reati
presupposti) e versandolo sui propri conti correnti.
In altri termini, l’obiettivo di riciclaggio (ottenere la disponibilità di denaro
“pulito” non riconducibile ai reati commessi dagli usurai), fu raggiunto
dall’imputato attraverso il compimento delle seguenti tre operazioni tra di loro
coordinate:
a) ricezione degli assegni provento del delitto di usura: in tal modo, veniva
ostacolato il collegamento fra gli assegni con gli autori dei reati per effetto dei

b)

versamento dei suddetti assegni sui propri conti correnti: essendo

l’imputato estraneo al reato presupposto (usura), il collegamento fra gli assegni
con gli autori dei reati, diventava ancora più difficoltoso;
c) monetizzazione degli assegni, con conseguente disponibilità del denaro a
favore degli autori del reato i quali, quindi, alla fine di tutta questa operazione, si
ritrovavano ad avere la disponibilità di denaro “pulito” non riconducibile agli
assegni rilasciati a loro favore dalle vittime dei reati.
E’ chiaro, quindi, che ci si trova di fronte ad una classica operazione di
riciclaggio.
Infine, va osservato che è del tutto irrilevante, che il suddetto meccanismo
fu scoperto a seguito delle indagini degli inquirenti perché, ciò non significa, che
il reato non fu commesso, essendo sufficiente, secondo quando dispone
letteralmente l’art. 648 bis cod. pen. che le operazioni compiute ostacolino
l’identificazione la provenienza delittuosa dei beni riciclati.
Infatti, a seguire la tesi del ricorrente (secondo la quale per il solo fatto che
il meccanismo di riciclaggio venne scoperto, il reato non sarebbe configurabile), il
suddetto reato non sarebbe, in pratica, mai perseguibile perché,
paradossalmente, sarebbe configurabile solo allorquando i marchingegni posti in
essere dall’imputato siano tali da non rendere possibile l’accertamento del reato.
3.1.4. Infine, va osservato che, nella condotta tenuta dal ricorrente, non è
ipotizzabile il diverso reato di favoreggiamento reale in quanto, secondo la
giurisprudenza di questa Corte «il delitto di favoreggiamento reale è una figura
criminosa sussidiaria rispetto a quella del riciclaggio di cui all’art. 648 bis c.p.,
allorquando siano ravvisabili gli estremi di detta ipotesi delittuosa. Ne consegue
che, in tal caso, va affermata la sussistenza del reato di riciclaggio ed escluso
quello di favoreggiamento reale»: Cass. 43295/2010 rv. 248949; Cass.
11709/1994 rv 199762.
3.2. LA VIOLAZIONE DEGLI ARTT. 62 BIS-133-69-163 COD. PEN.
La censura deve ritenersi manifestamente infondata alla stregua dello
stesso principio di diritto illustrato supra al § 1 (ricorso Mangino) essendo la
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quali quegli assegni erano stati rilasciati dalle vittime;

motivazione addotta sul punto dalla Corte Territoriale (pag. 14) congrua e
coerente con gli evidenziati elementi fattuali e conforme alla giurisprudenza di
questa Corte puntualmente richiamata.
3.3.

LA CONFISCA

La censura è manifestamente infondata per le ragioni di seguito indicate.
Nella sentenza di primo grado (pag. 144), il giudice dell’udienza preliminare
scrisse: «la Polizia Giudiziaria ha effettuato opportune indagini patrimoniali a
carico degli imputati all’esito delle quali si è accertato che gli imputati sia

di beni in misura sproporzionata rispetto ai redditi dichiarati e alle attività
economiche effettivamente svolte, tali da poter essere giustificati solo da introiti
illegali quali quelli provenienti dall’attività illecita svolta», Il giudice, dopo avere
illustrato i principi di diritto ai quali si sarebbe attenuto e, in particolare, la
sproporzione del reddito al momento dei singoli acquisti (SSUU n. 920/2004,
Montella) e chiarito che al Giampalma erano già stati dissequestrati alcuni beni,
ha ristretto il sequestro solo ad alcuni di essi.
Nel proporre appello, la difesa (pag. 17 ss dell’atto di appello) si limitò a
chiedere la revoca della suddetta confisca riportandosi integralmente ad una Ct
di parte (dott. Soave) che trascriveva integralmente.
La Corte Territoriale ha respinto il suddetto motivo di appello osservando
che «le generiche argomentazioni contenute nell’atto di appello non consentono
di ritenere superata la presunzione di illecita accumulazione patrimoniale da
parte dell’interessato, sicchè la Corte ritiene che i condivisibili rilievi del giudice
dell’udienza preliminare, ai quali si rimanda, giustifichino la conferma della
confisca».
In questa sede il ricorrente ha lamentato, a sua volta, la genericità della
motivazione addotta dalla Corte.
Al che deve replicarsi che, il motivo di appello era, in effetti, del tutto
generico in quanto le osservazioni del Ctp dott. Fontana, si limitavano, in pratica,
ad un mero “confronto tra gli investimenti e le fonti legittime riferibili ai coniugi
Giampalma-Filannino per il periodo 1987-2010” (pag. 19 atto di appello), per poi
concludere che, siccome “l’eccedenza numerica delle fonti legittime”, pari ad C
621.354,79, era superiore di C 29.708,51, rispetto “al valore degli investimenti
realizzati”, pari ad C 591.646,28, allora non sussistevano i requisiti per la
confisca: ma, è del tutto evidente che si tratta di un ragionamento di natura
meramente “ragioneristico” (contrario a quanto stabilito dalle SSUU cit.) che,
saltando a piè pari tutta la complessa problematica giuridica di cui ha dato atto
lo stesso primo giudice, rende il motivo di appello del tutto generico ed aspecifico
come correttamente ha ritenuto la Corte Territoriale.

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9

personalmente che tramite gli stretti congiunti conviventi avevano la disponibilità

E’ chiaro, quindi, che in questa sede di legittimità, il ricorrente non può
pretendere di “recuperare” e far valere quelle questioni di diritto la cui soluzione
presuppone la valutazione di precisi dati fattuali che non sono stati fatti valere
nel merito.
La censura, pertanto, va ritenuta manifestamente infondata.

3. In conclusione, tutte le impugnazioni devono ritenersi inammissibili a
norma dell’art. 606/3 c.p.p, per manifesta infondatezza: alla relativa declaratoria

pagamento delle spese processuali, nonché al versamento in favore della Cassa
delle Ammende di una somma che, ritenuti e valutati i profili di colpa emergenti
dal ricorso, si determina equitativamente in C 2.000,00 ciascuno.

P.Q.M.
DICHIARA
inammissibili i ricorsi e
CONDANNA
i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro duemila
ciascuno a favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso il 22/03/2018

consegue, per il disposto dell’art. 616 c.p.p., la condanna dei ricorrenti al

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