Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 16815 del 22/03/2018


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 16815 Anno 2018
Presidente: IASILLO ADRIANO
Relatore: RAGO GEPPINO

SENTENZA
sul ricorso proposto da
DE MARTINO MARCELLO, nato il 10/05/1979, contro la sentenza del 21/10/2016
della Corte di Appello di Salerno;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere dott. G. Rago;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Fulvio
Baldi, che ha concluso chiedendo l’annullamento con rinvio;

RITENUTO IN FATTO

1. De Martino Marcello, fu tratto a giudizio e condannato in entrambi i gradi
del giudizio, per il «delitto p. e p. dagli artt. 81 cpv., 56-629 comma 1 e 2; 7 L.
203/91, perché, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso,
mediante reiterate minacce, consistite:
nel recarsi in data 25.11.2013 presso la sede e gli uffici della società
municipalizzata “Salerno Pulita” e nel profferire, brandendo un bastone, minacce
di morte sia nei confronti di Beluto Giuseppe, direttore tecnico della predetta
società, (affermando tra l’altro: “se non mi assumete, il posto per te è già pronto
al cimitero; sia nei confronti del Sindaco di Salerno) qualora non fosse stato
assunto “entro cinque giorni” presso la detta società;

Data Udienza: 22/03/2018

nel collocare in data 26.11.2013 una testa di maiale con un limone in bocca sulla
cassetta postale di De Luca Vincenzo, Sindaco di Salerno, all’interno del portone
di ingresso dell’abitazione del predetto;
nel recarsi in data 10.12.2013 ancora presso la sede e gli uffici della società
“Salerno Pulita” reiterando la richiesta di assunzione ad horas, accompagnata da
insulti e minacce nei confronti ancora del Beluto e del Sindaco di Salerno,
compiva atti idonei diretti in maniera non equivoca a costringere Beluto Giuseppe
ed il Sindaco del medesimo Comune a procurare allo stesso indebitamente utilità

evento che non si verificava per cause indipendenti dalla sua volontà».

2. L’imputato, a mezzo del proprio difensore, ha proposto ricorso per
cassazione contro la sentenza in epigrafe deducendo:
2.1. la violazione dell’art. 629 cod. pen. in quanto:
a) nei confronti del Sindaco, nonostante la condotta fosse qualificabile come
minacciosa, «mancava ogni elemento di collegamento tra la minaccia e la
costrizione a fare, cioè ad assumere l’imputato in “Salerno pulita”. Risulta dagli
atti processuali che al Sindaco non pervenne nessuna richiesta di assunzione;
egli fu unicamente destinatario dell’atto intimidatorio»;
b) nei confronti del Beluti, d’altra parte, l’azione minacciosa posta in essere
dal De Martino, «era assolutamente inidonea a produrre l’evento dell’assunzione
nell’azienda municipalizzata “Salerno Pulita”», non avendo il Beluti «i poteri e la
legittimazione per procedere all’assunzione diretta di personale, in violazione
delle procedure pubblicistiche di tutela dell’evidenza pubblica»;
c) «l’assunzione in un’azienda non costituisce di per sé un danno per la
persona offesa; lo diventa in relazione alla non necessità dell’assunzione, che
tuttavia è un tema assolutamente inesplorato dai Giudici del merito, malgrado
l’espressa censura in ordine all’irrealizzabilità dell’evento»;
2.2. l’omessa motivazione sulla pericolosità sociale del ricorrente, come
accertato dal perito;
2.3. la manifesta illogicità della motivazione nella parte in cui la Corte
Territoriale aveva negato la prevalenza del vizio parziale di mente sulle
aggravanti e, quindi, la diminuzione della pena, tenuto anche conto che l’unica
aggravante contestata (art. 7 L. 203/1991) era stata ritenuta insussistente.

CONSIDERATO IN DIRITTO
1. LA VIOLAZIONE DELL’ART.

629

COD. PEN.

I fatti sono pacifici e sono quelli sintetizzati nel capo d’imputazione.

9
/

economiche, in relazione a pretestuose richieste di lavoro avanzate dallo stesso:

La difesa non contesta che la condotta tenuta dal ricorrente fosse
minacciosa.
Sostiene, invece, che il delitto di tentata estorsione non sarebbe
configurabile perché: a) il Sindaco fu oggetto solo di una minaccia ma non della
richiesta estorsiva; b) il Belluti, a sua volta, non aveva la possibilità di adempiere
alla minaccia; c) in ogni caso, l’eventuale assunzione nell’azienda municipalizzata
non avrebbe costituito di per sé un danno, salvo che la suddetta assunzione non
fosse stata inutile, circostanza, questa che, però, s’ignorava.
La censura è infondata per le ragioni di seguito indicate.

In punto di diritto, va premesso quanto segue.
Il delitto di estorsione è, pacificamente, un reato avente natura
plurioffensiva in quanto lede, da una parte, il patrimonio e, dall’altra, il diritto
alla autodeterminazione.
Ciò fa sì che, seppure, normalmente, le due lesioni coincidano nello stesso
soggetto minacciato, possano esservi casi in cui il soggetto passivo che subisca
la minaccia sia diverso da quello che patisca il danno patrimoniale, come nel
canonico esempio della minaccia rivolta ad una persona perché induca un terzo —
al quale sia legato da una particolare relazione (di amicizia, di affetto o di lavoro)
– a compiere un determinato atto patrimoniale a favore dell’estorsore.
In tali ipotesi, si parla di condotta intimidatrice posta in essere non nei
confronti diretti della vittima designata (cd. condotta diretta), ma di condotta
indiretta o mediata proprio perché il profitto viene conseguito attraverso una
minaccia in forma mediata o indiretta, agendo psicologicamente sulla
determinazione della volontà di altro soggetto, che, a causa della particolare
relazione con la vittima, può influenzarla nel compimento dell’atto di disposizione
patrimoniale assicurando la più rapida ed efficace realizzazione del profitto
ingiusto con il danno relativo: in terminis, Cass. 8731/1984 rv. 166166.
Più esattamente, si è precisato che la persona minacciata va qualificata
come soggetto passivo del reato, mentre il terzo che, indirettamente, subisce la
minaccia ed il danno, deve identificarsi nel soggetto danneggiato, proprio perché,
anche in tema di delitto di estorsione, si applica la distinzione, propria della
teoria generale del reato, tra soggetto passivo e soggetto danneggiato, in quanto
la minaccia che lo caratterizza può essere rivolta a persona diversa da colui che
subisce il danno: in terminis Cass. 11924/1982 rv. 156651; Cass. 25382/2014
rv. 262259.
Alla stregua dei suddetti principi di diritto, è, quindi, del tutto evidente che il
Belluti va qualificato come soggetto passivo della condotta minacciosa (in quanto
a lui furono rivolte direttamente le minacce), nel mentre il Sindaco va ritenuto
soggetto danneggiato (in quanto destinatario, indiretto delle minacce; sul punto,
peraltro, va osservato che una minaccia diretta fu rivolta anche nei suoi confronti

3

Li

nel momento in cui il ricorrente collocò una testa di maiale con un limone in
bocca sulla cassetta postale del Sindaco): entrambi, però, sicuramente vanno
ritenute “vittime” del reato tant’è che sono stati ammessi a costituirsi come parti
civili nel presente procedimento penale.
Il caso di specie è, quindi, un classico esempio di minaccia indiretta perché il
Beluti – direttore tecnico della società municipalizzata dalla quale l’imputato
pretendeva essere assunto – proprio per il ruolo che in essa ricopriva, se non
aveva la possibilità di assumere direttamente l’imputato, certamente aveva,

organo amministrativo della città di Salerno, da cui dipendeva la suddetta
società municipalizzata.
La censura, pertanto, va disattesa alla stregua del seguente principio di
diritto: «il delitto di estorsione – avendo natura plurioffensiva – può essere
commesso, oltre che in forma diretta contro la vittima designata a subirne tutte
le conseguenze, anche in forma indiretta tramite violenza o minaccia contro un
terzo (soggetto passivo della condotta) che, a causa della particolare relazione
con la vittima (soggetto danneggiato), può influenzarla nel compimento dell’atto
di disposizione patrimoniale assicurando all’agente la più rapida ed efficace
realizzazione del profitto ingiusto con il danno relativo».
Infine, va disattesa anche l’ulteriore censura secondo la quale in ogni caso,
l’eventuale assunzione nell’azienda municipalizzata non avrebbe costituito di per
sé un danno, salvo che la suddetta assunzione non fosse stata inutile,
circostanza, questa che, però, s’ignorava.
Infatti, essendo l’estorsione un reato plurioffensivo, il danno va rinvenuto
nella semplice circostanza che, con la condotta tenuta, l’imputato mirava a
coartare la libertà di autodeterminazione, e, quindi, il regolare svolgimento della
procedura di assunzione, con un evidente ingiusto profitto per sè e con un
correlativo danno (patrimoniale e non patrimoniale) per l’azienda municipalizzata
costretta comunque ad assumere il ricorrente al di fuori di ogni selezione e di
ogni necessità.
Sul punto, anche la suddetta censura va, quindi, disattesa alla stregua del
seguente consolidato principio di diritto

(ex plurimis Cass. 10703/1982 rv.

156074; Cass. 48461/2013 riv 258168; Cass. 9429/2017 rv 269364):

«nella

c.d. “estorsione contrattuale” – che si realizza quando al soggetto passivo sia
imposto di porsi in rapporto negoziale di natura patrimoniale con l’agente o con
altri soggetti – l’elemento dell’ingiusto profitto con altrui danno è implicito nel
fatto stesso che il contraente-vittima sia costretto al rapporto in violazione della
propria autonomia negoziale, impedendogli di perseguire i propri interessi
economici nel modo e nelle forme ritenute più confacenti ed opportune».

4

però, la possibilità di influenzare la decisione del Sindaco, ossia del massimo

%

2. TRATTAMENTO SANZIONATO RIO

Il Tribunale, alla stregua della perizia disposta sulla capacità mentale
dell’imputato, al momento della commissione del reato, ritenne il ricorrente
pericoloso socialmente e, pertanto, gli applicò la misura di sicurezza della libertà
vigilata per al durata di anni uno.
Il tribunale, infine, riconobbe all’imputato il vizio parziale di mente
equivalente alle contestate aggravanti (recidiva e art. 7 L. 203/1991) e lo
condannò alla pena di anni tre di reclusione ed C 800,00 di multa.

potesse essere ritenuto socialmente pericoloso (quinto motivo di appello) e,
dall’altra, richiese la prevalenza del vizio parziale di mente sulle aggravanti
(sesto motivo di appello).
La Corte di Appello, ha escluso l’aggravante di cui all’art. 7 legge cit. ed ha
rideterminato la pena in anni due, mesi due di reclusione ed C 800,00 di multa,
confermando il giudizio di equivalenza.
Entrambe le censure dedotte in questa sede (supra in parte narrativa ai §§
2.2.-2.3.) vanno ritenute manifestamente infondate.
In punto di diritto, va premesso che, per consolidata giurisprudenza di
questa Corte, «la inammissibilità dell’impugnazione non rilevata dal giudice di
secondo grado deve essere dichiarata dalla Cassazione, quali che siano state le
determinazioni cui detto giudice sia pervenuto nella precedente fase processuale,
atteso che, non essendo le cause di inammissibilità soggette a sanatoria, esse
devono essere rilevate, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del procedimento»:
ex plurimis Cass. 40816/2014 Rv. 260359.
Orbene, entrambi i motivi di appello si caratterizzano, ad una semplice
lettura, per l’estrema genericità ed aspecificità rispetto alla puntuale motivazione
addotti sui suddetti punti dal Tribunale
Pertanto — seppure sul punto, in effetti, la Corte Territoriale abbia omesso di
motivare esplicitamente – entrambe le censure dedotte in questa sede vanno
disattese, dovendosi peraltro rilevare, quanto alla dedotta cessazione della
pericolosità sociale, che la concreta applicazione della disposta misura di
sicurezza, spetta al magistrato di sorveglianza, ex art 679 cod. proc. pen., che,
prima di applicarla in concreto deve accertare, all’attualità, se «l’interessato è
persona socialmente pericolosa».

3. In conclusione, l’impugnazione deve rigettarsi con conseguente condanna
del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.
RIGETTA

5

/

Nel proporre appello, la difesa, da una parte, contestò che l’imputato

il ricorso e
CONDANNA
il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 22/03/208
Il Consigliere stensore

1,

Adriano ‘asili°

–■

Geppino Ra

Il Presidente

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