Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 16807 del 16/03/2018


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 16807 Anno 2018
Presidente: DIOTALLEVI GIOVANNI
Relatore: FILIPPINI STEFANO

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
CASOLANI MAURO nato il 25/02/1971 a GIULIANOVA

avverso la sentenza del 18/11/2015 della CORTE APPELLO di L’AQUILA
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere STEFANO FILIPPINI
Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore FULVIO BALDI
che ha concluso per l’annullamento con rinvio.
Udito il difensore avv. Candelori A. che si riporta ai motivi associandosi alle
concusioni del P.G..

Data Udienza: 16/03/2018

RITENUTO IN FATTO
1.

Con sentenza in data 18.11.2015, la Corte di appello di L’Aquila

confermava la sentenza del Tribunale di Teramo del 5.3.2014 che aveva
condannato CASOLANI Mauro alla pena ritenuta di giustizia per il reato di
estorsione, commesso ai danni di Caralla Giuseppe; secondo la ricostruzione
del fatto accolta nella sentenza di primo grado e poi condivisa dai giudici di
appello, l’imputato, inizialmente accusato (al capo A) di tentata estorsione di

fisiche e di non restituire un assegno dell’importo di C 3.000,00 di cui si era
impossessato) nonché (capo B) di rapina consumata dell’assegno medesimo,
è stato giudicato colpevole di estorsione consumata avente ad oggetto
l’assegno predetto.
1.1.

La Corte territoriale respingeva le censure mosse con l’atto d’appello,

relative sia ad aspetti procedurali, sia alla affermazione della penale
responsabilità in ordine al reato al reato ascritto.
2.

Avverso tale sentenza propone ricorso l’imputato, tramite difensore,

sollevando i seguenti motivi:
2.1. violazione di legge con riferimento alla emissione di decreto di giudizio
immediato, in data 19.4.2013, viziato da abnormità o nullità perché
emesso a seguito di reiterate richieste del PM, formulate dopo un primo
diniego del GIP che, quand’anche illegittimamente disposto, non è stato
impugnato, ma aggirato dal PM con una nuova richiesta, seguita da
accoglimento; in relazione al dedotto motivo la Corte territoriale ha
sostanzialmente omesso di rispondere, ritenendo che l’impugnante non
avesse adeguatamente documentato la propria doglianza con allegazione
della documentazione di supporto.
2.2. violazione di legge e vizio della motivazione con riferimento alla
eccepita violazione del principio di correlazione tra accusa e condanna,
sussistendo nella fattispecie una effettiva divaricazione tra i contenuti
dell’addebito ed il fatto ritenuto in sentenza.
2.3. violazione di legge e vizio della motivazione in relazione alla violazione
del diritto di difesa integrata dalla revoca della ammissione del teste Gulin
Ionut.
2.4. violazione di legge e vizio della motivazione con riferimento alla
ritenuta utilizzabilità, anche a fine di condanna, di affermazioni di Caralla
Giuseppe e Caralla Fileno tratte dalla querela e dai verbali di s.i.t., di cui
vengono riportati stralci.

una somma di denaro pari ad C 2.000,00 (richiesta con minaccia di violenze

2.5. vizio della motivazione, da considerare solo apparente, in relazione alla
ritenuta attendibilità del teste persona offesa Caralla Giuseppe, con
travisamento della prova al riguardo tratta, nonchè omessa risposta alle
censure difensive al riguardo.
2.6. violazione di legge e vizio della motivazione con riferimento alla
qualificazione della condotta quale estorsione consumata; difetta invero la
minaccia idonea, come pure il conseguimento del profitto, non potendo

dall’imputato e che non costituiva l’obiettivo delle richieste del Casolani, il
quale invece aveva richiesto denaro contante.
2.7. violazione di legge e vizio della motivazione in punto di qualificazione
giuridica a proposito della mancata riqualificazione dei fatti come esercizio
arbitrario delle proprie ragioni.
2.8. violazione di legge e vizio della motivazione con riferimento al limite
del ragionevole dubbio, avendo la Corte territoriale trascurato le
ricostruzioni alternative offerte dalla difesa.

CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile in quanto basato su motivi manifestamente
infondati o non consentiti.
1. Giova premettere, con riferimento a tutti i motivi proposti, che il ricorso
riproduce pedissequamente gli argomenti prospettati nel gravame, ai quali
la Corte d’appello ha dato (con l’eccezione di sui si dirà al punto 2 che
segue) sufficienti risposte, esaustive in fatto e corrette in diritto, che il
ricorrente non considera adeguatamente né censura in maniera efficace,
come meglio si dirà in seguito.
1.1. Inoltre, in più punti, ad avviso del Collegio, il ricorso verte in tema di
valutazioni di merito, che sono insindacabili nel giudizio di legittimità,
quando il metodo di valutazione delle prove sia conforme ai principi
giurisprudenziali e l’argomentare scevro da vizi logici, come nel caso di
specie (Sez. U., n. 24 del 24/11/1999, Spina, Rv. 214794; Sez. U., n. 12 del
31.5.2000, Jakani, Rv. 216260; Sez. U. n. 47289 del 24.9.2003, Petrella,
Rv. 226074 ). Ma a tal proposito si rinvia alla trattazione specifica dei motivi
di ricorso.
2. Quanto alla questione di cui al punto 2.1, deve segnalarsi che, con
pronuncia alla quale il Collegio ritiene di aderire (S.U., n. 42979 del
26/06/2014, Rv. 260018), si è autorevolmente affermato che la decisione
con la quale il giudice per le indagini preliminari dispone il giudizio

quest’ultimo consistere nella apprensione di un assegno non incassabile

immediato non può essere oggetto di ulteriore sindacato. In motivazione, la
Suprema Corte ha osservato che il provvedimento adottato dal Gip chiude
una fase di carattere endoprocessuale priva di conseguenze rilevanti sui
diritti di difesa dell’imputato, salva l’ipotesi in cui il giudice del dibattimento
rilevi che la richiesta del rito non è stata preceduta da un valido
interrogatorio o dall’invito a presentarsi, integrandosi in tal caso la
violazione di una norma procedimentale concernente l’intervento

lett. c) e 180 cod. proc. pen.. Mentre, al di fuori di queste ultime ipotesi,
nella specie non ricorrenti, nessuno spazio residua per questioni ulteriori.
Di conseguenza, la questione ora riproposta deve ritenersi manifestamente
infondata e ciò consente anche di richiamare, in relazione alla omessa
risposta, da parte della Corte di appello, rispetto al motivo in parola, la
consolidata giurisprudenza di legittimità secondo la quale, in sede di ricorso
per cassazione, non costituisce causa di annullamento della sentenza
impugnata il mancato esame di un motivo di appello che risulti
manifestamente infondato (Sez. 5, n. 27202 del 11/12/2012, Rv. 256314 ;
Sez. 3, n. 21029 del 03/02/2015, Rv. 263980).
3. Manifestamente infondato è il secondo motivo, attinente alla pretesa
violazione del principio di correlazione tra accusa e condanna. Infatti,
secondo consolidata giurisprudenza (Sez. 6, Sentenza n. 17799 del
06/02/2014, Rv. 260156), non sussiste violazione del principio di
correlazione tra accusa e sentenza quando nella contestazione, considerata
nella sua interezza, siano contenuti gli stessi elementi del fatto costitutivo

del reato ritenuto in sentenza, in quanto rimmutazione si verifica solo nel
caso in cui tra i due episodi ricorra un rapporto di eterogeneità o di
incompatibilità sostanziale per essersi realizzata una vera e propria
trasformazione, sostituzione o variazione dei contenuti essenziali
dell’addebito nei confronti dell’imputato, posto, così, a sorpresa di fronte ad
un fatto del tutto nuovo senza avere avuto nessuna possibilità d’effettiva
difesa. Si è infatti più volte affermato (Sez. 6, Sentenza n. 899 del
11/11/2014, Rv. 261925) che sussiste violazione del principio di
correlazione tra accusa e sentenza nell’ipotesi in cui tra il fatto contestato e
quello ritenuto in sentenza ricorra un rapporto di eterogeneità o di
incompatibilità sostanziale per essersi realizzata una vera e propria
trasformazione, sostituzione o variazione dei contenuti essenziali
dell’addebito nei confronti dell’imputato, posto, così, a sorpresa di fronte ad

dell’imputato, sanzionata di nullità a norma degli artt. 178, comma primo,

un fatto del tutto nuovo senza avere avuto nessuna possibilità d’effettiva
difesa. Nella fattispecie, l’impossessamento dell’assegno di causa da parte
dell’imputato è stato contestato

ab origine nell’ambito della fattispecie

estorsiva (qualificata però dal PM come solamente tentata), all’interno della
quale costituiva uno strumento di pressione finalizzato ad estorcere denaro
alla vittima. Il medesimo fatto (impossessamento dell’assegno da parte del
Casolani), tuttavia, era poi anche contestato come integrante una

all’imputato è stata contestata l’intera azione compiuta, sulla quale si è
potuto difendere. I giudici del merito, sin dal primo grado, hanno ritenuto
(con motivazione adeguata in fatto e corretta in diritto) che detta condotta
materiale già integrasse una forma di conseguimento di profitto,
anticipando dunque a quel momento la consumazione dell’estorsione; in tal
modo, giudicando come assorbito nel fatto estorsivo quello autonomamente
contestato come rapina, con evidente vantaggio per l’imputato (che in tal
modo ha dovuto rispondere di un reato e non di due).
Dunque, anche senza prendere in considerazione il profilo dell’interesse
dell’imputato rispetto al motivo in esame, pare al Collegio evidente che
nessuna immutazione sostanziale dei fatti si è verificata e l’imputato ha
potuto pienamente dispiegare le proprie difese in relazione all’intera
condotta da lui realizzata. Del resto, questa Corte ha già condivisibilmente
affermato (Sez. 5, n. 44862 del 06/10/2014, Rv. 261286) che non viola il
principio di correlazione tra accusa e sentenza la decisione di condanna per
il reato consumato, a fronte della contestazione di reato tentato, quando
non vi è modifica del fatto penalmente rilevante indicato in contestazione e
l’imputato è stato in condizione di difendersi su tutti gli elementi oggetto
dell’addebito, trattandosi in tal caso solo di una riqualificazione giuridica
dello stesso fatto.
4. Quanto agli argomenti di cui al punto 2.3., relativi alla revoca in primo
grado della ordinanza ammissiva della deposizione del teste Gulin Ionut,
indicato dalla difesa, questa Corte ha affermato (Sez. 2, n. 9761 del
10/02/2015, Rv. 263210; Sez. 6, n. 53823 del 05/10/2017, Rv. 271732)
che la revoca dell’ordinanza ammissiva di testi della difesa, resa in difetto
di motivazione sulla superfluità della prova, produce una nullità di ordine
generale, che deve essere immediatamente dedotta dalla parte presente, ai
sensi dell’art. 182, comma secondo, cod. proc. pen., con la conseguenza
che, in caso contrario, essa è sanata.

4

concorrente ipotesi di rapina. Evidente è dunque la circostanza che

4.1.

Posta dunque la legittimità della dichiarazione di tardività

dell’eccezione difensiva in parola, fatta dai giudici di appello, neppure può
ravvisarsi violazione di legge o vizio della motivazione con riferimento alla
mancata rinnovazione istruttoria in appello (a proposito della deposizione
Gulin); invero, è fuor di dubbio che trattasi di prova che non può definirsi
sopravvenuta, e dunque che la stessa poteva essere ammessa solo nei
ristretti limiti di cui all’art. 603 comma 1 cod.proc.pen., rispetto ai quali la

decisione con il richiamo agli argomenti già utilizzati dal primo giudice al
riguardo, effettivi e non manifestamente illogici (essendosi ritenuta
indimostrata la effettività del domicilio del teste, comunque indicato solo a
prova contraria). Argomenti che il ricorso (nel quale si indica solamente che
la testimonianza aveva ad oggetto l’esistenza di un presunto credito
dell’imputato nei confronti della persona offesa) neppure specificamente
contrasta né efficacemente supera.
4.2. E comunque, deve pur sempre considerarsi che, in tema di violazione
di legge censurabile ai sensi dell’art. 606, comma primo lett. d) cod. proc.
pen., questa Corte ha già condivisibilmente affermato (si veda Sez. 6, n.
4036 del 12/01/1994, Rv. 197969) che il vizio relativo alla mancata
“assunzione di prova decisiva” (ammettendo per ipotesi che detta decisività
ricorra), postula pur sempre un vizio di motivazione, giacché se la prova
ammessa risulti per cause oggettive non acquisibile ne’ altrimenti
sostituibile con altre, non si realizza il vizio ipotizzato dell’art. 606, comma
primo lett. d) cod. proc. pen.. In particolare, per quanto concerne la prova
testimoniale, qualora l’esame del teste ammesso a deporre su determinati
fatti non sia possibile per irreperibilità (come ritenuto nella fattispecie dal
primo giudice), da tale situazione non può derivare la violazione dell’art.
606 comma primo lett. d) citata. E, come già detto, il dato relativo alla
effettiva reperibilità del teste è rimasto indimostrato.
5 Inammissibili sono poi gli argomenti di cui al punto 2.4. . Infatti, il
ricorrente censura l’utilizzazione fatta dai giudici del merito delle
dichiarazioni utilizzate per le contestazioni ex art. 500 cod.proc.pen. (a fini
di affermazione della penale responsabilità, e non solo per saggiare la
credibilità del teste), ma non considera l’insegnamento offerto da condivisa
e consolidata giurisprudenza (Sez. 2, n. 10483 del 21/02/2012, Rv.
252707), secondo la quale nel corso dell’esame dibattimentale del
testimone può procedersi alla contestazione delle dichiarazioni dallo stesso

5

Corte territoriale ha giustificato la non decisività della prova ai fini della

rese in precedenza tutte le volte in cui queste ultime presentino difformità
con le dichiarazioni dibattimentali, sia che in dibattimento il soggetto
esaminato manifesti una conoscenza diversa, sia che riveli, come nella
fattispecie, di non ricordare le vicende o i fatti sui quali aveva riferito in
precedenza. Ciò posto, si è pure condivisibilmente precisato che, nel caso
in cui il teste dichiari di non ricordare il fatto o la circostanza su cui viene
esaminato, ma, a seguito della contestazione, affermi che, pur non

appunto si è verificato nella fattispecie per la ricostruzione del fatto), non si
applica la disciplina in tema di utilizzabilità delle dichiarazioni acquisite a
seguito di contestazioni, ma solo le regole generali in ordine alla valutazione
dell’attendibilità del dichiarante.
Nello stesso senso, si è pure affermato (Sez. 2, n. 17089 del 28/02/2017,
Rv. 270091) che le dichiarazioni predibattimentali utilizzate per le
contestazioni al testimone che manifesti genuina difficoltà di elaborazione
del ricordo, ove lo stesso ne affermi la veridicità anche mediante richiami
atti a giustificare il “deficit” mnemonico, devono ritenersi confermate e, in
quanto tali, possono essere recepite ed utilizzate come se rese direttamente
in dibattimento. In quest’ultima pronuncia la Corte di cassazione ha ritenuto
corretta l’affermazione dei giudici di merito secondo cui il teste aveva
espressamente confermato, a seguito di contestazioni, le dichiarazioni rese
in precedenza. Situazione, dunque, del tutto analoga a quella di specie.
Né la censura può tendere ad ottenere da questa Corte una diversa “lettura”
del risultato della prova, posto che, in tema di ricorso per cassazione, sono
inammissibili, per violazione del principio di autosufficienza e per genericità,
quei motivi che, deducendo il vizio di manifesta illogicità o di
contraddittorietà della motivazione, riportano meri stralci di singoli brani di
prove dichiarative, estrapolati dal complessivo contenuto dell’atto
processuale al fine di trarre rafforzamento dall’indebita frantumazione dei
contenuti probatori, o, invece, procedono ad allegare in blocco ed
indistintamente le trascrizioni degli atti processuali, postulandone la
integrale lettura da parte della Suprema Corte (Sez. 1,n. 23308 del
18/11/2014, Rv. 263601; Sez. 2, n. 26725 del 01/03/2013, Rv. 256723)
3.5. Quanto agli argomenti di cui al punto 2.5., premessa la legittimità
dell’opzione ermeneutica della Corte territoriale in punto di validità della
prova tratta dalle sole dichiarazioni della persona offesa, effettivo e non
illogico appare lo scrutinio operato in relazione alla credibilità del teste e alla

6

avendone attuale ricordo, quanto dichiarato in precedenza è vero (come

attendibilità del narrato (cfr. pag. 2 della sentenza di primo grado e pagg. 67 di quella d’appello).
6. Manifestamente infondati sono gli argomenti di cui al punto 2.6. . In
punto di diritto, quanto alla idoneità della minaccia, si è più volte affermato
(si veda, tra le tante, Sez. 2, n. 37526 del 16/06/2004, Rv. 229727) che la
minaccia costitutiva del delitto di estorsione può assumere valenza
multiforme (tanto palese ed esplicita quanto implicita o larvata), essendo

del soggetto passivo, in relazione alle circostanze concrete, alla personalità
dell’agente, alle condizioni soggettive della vittima e alle condizioni
ambientali, in cui questa opera. E , nel caso concreto, effettiva e non illogica
è la ricostruzione dei giudici del merito che adeguatamente illustrano la
potente azione intimidatoria posta in essere dall’imputato.
Quanto alla realizzazione del profitto, si è pure coindivisibilmente affermato
(Sez. 2, n. 16658 del 31/03/2008, Rv. 239780) che, in tema di estorsione,
l’elemento dell’ingiusto profitto si individua in qualsiasi vantaggio, non solo
di tipo economico, che l’autore intenda conseguire e che non si collega ad
un diritto. E dunque, nel caso di specie, legittima è l’individuazione del
profitto (e dunque la consumazione del reato estorsivo) già con la semplice
apprensione dell’assegno, bene rispetto al quale l’imputato non poteva
vantare titolo alcuno; apprensione che viene a configurare una posizione di
vantaggio, un ingiusto profitto, a fronte dell’oggettivo danno per la vittima.
E, al riguardo, effettiva e non illogica è la motivazione dei giudici del merito,
che ricostruiscono la condotta in termini di progressione criminosa, nella
quale l’impossessamento dell’assegno è stato considerato non costituente
l’obiettivo finale dell’azione dell’imputato (il quale mirava ad ottenere anche
denaro contante), ma comunque ha costituito un fatto già capace di
assicurare un profitto ed un corrispondente danno, dunque la consumazione
del reato. Né può dubitarsi della intenzionalità dell’impossessamento del
titolo di credito in questione e della finalizzazione dell’atto al conseguimento
del profitto (pur nella forma della acquisizione di una posizione di vantaggio
e di uno strumento di pressione sulla vittima).
Tanto chiarito in punto di diritto, inammissibili risultano le censure volte a
suggerire una diversa ricostruzione del fatto, sia in punto di idoneità delle
minacce, sia di integrazione dell’ingiusto profitto, trattandosi di aspetti
adeguatamente motivati dai giudici del merito (cfr. pagg. 7-9 della sentenza
di appello e 8-9 di quella di primo grado).

7

solo necessario che sia idonea ad incutere timore ed a coartare la volontà

7.

Manifestamente infondata è la deduzione in tema di mancata

qualificazione giuridica ai sensi dell’art. 393 cod.pen. . Invero, in causa è
mancata del tutto la dimostrazione della esistenza di un credito azionabile
giuridicamente e relativo al bene oggetto di apprensione. Peraltro, in
considerazione della legittima riqualificazione delle condotte operata sin dal
primo grado, il motivo difetta del tutto di specificità, non essendo neppure
dedotta la inerenza del preteso diritto rispetto alla apprensione dell’assegno

37980 del 20/09/2001, Rv. 220003), in tema di esercizio arbitrario della
proprie ragioni con violenza sulle persone, per la sussistenza del reato, è
necessario, non solo che la pretesa arbitrariamente esercitata sia munita di
specifica azione, ma anche che la condotta illegittima sia mantenuta nei
limiti di quanto il soggetto avrebbe potuto ottenere per via giudiziaria;
profili che evidentemente non si attagliano alla apprensione di cui si discute.
8. Né merita condivisione l’argomento relativo alla pretesa violazione di
legge o vizio di motivazione in relazione al mancato superamento del
ragionevole dubbio rispetto alle ipotesi ricostruttive alternative della vicenda
offerte dalla difesa. Si è infatti già condivisibilmente affermato da questa
Corte (Sez. 2, n. 29480 del 07/02/2017, Rv. 270519) che il principio
dell’oltre ragionevole dubbio”, introdotto nell’art. 533 cod. proc. pen. dalla
legge n. 46 del 2006, non ha mutato la natura del sindacato della Corte di
cassazione sulla motivazione della sentenza, che non può essere utilizzato
per valorizzare e rendere decisiva la duplicità di ricostruzioni alternative del
medesimo fatto, eventualmente emerse in sede di merito e segnalate dalla
difesa, una volta che tale duplicità sia stata oggetto di attenta disamina da
parte del giudice dell’appello, giacché la Corte è chiamata ad un controllo
sulla persistenza o meno di una motivazione effettiva per mezzo di una
valutazione unitaria e globale dei singoli atti e dei motivi di ricorso su di essi
imperniati, non potendo la sua valutazione sconfinare nel merito.
Ancor più recentemente, questa Sezione (Sez. 2, n. 28957 del 03/04/2017,
Rv. 270108) ha affermato che la regola di giudizio compendiata nella
formula “al di là di ogni ragionevole dubbio” rileva in sede di legittimità
esclusivamente ove la sua violazione si traduca nella illogicità manifesta e
decisiva della motivazione della sentenza, non avendo la Corte di cassazione
alcun potere di autonoma valutazione delle fonti di prova. Illogicità che,
come detto, assolutamente non si rinvengono nel caso di specie.
9. Al rigetto del ricorso consegue, ai sensi dell’articolo 616 cod. proc. pen.,

8

da parte dell’imputato. E, secondo costante giurisprudenza (Sez. 5, n.

la condanna dell’imputato che lo ha proposto al pagamento delle spese del
procedimento.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali.

Così deciso, il 16 marzo 2018

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