Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 16715 del 14/11/2017


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 16715 Anno 2018
Presidente: BLAIOTTA ROCCO MARCO
Relatore: DOVERE SALVATORE

SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
PROCURATORE GENERALE PRESSO CORTE D’APPELLO DI BRESCIA
nel procedimento a carico di:
CIROCCO AMLETO nato il 20/04/1928 a SULMONA
FABBRI GAETANO nato il 08/12/1934 a CHIOGGIA( ITALIA)
PAGLIA GIANNI nato il 03/05/1943 a ARQUA PETRARCA( ITALIA)
ZIGLIOLI FRANCESCO nato il 27/07/1944 a GAVARDO( ITALIA)
MAZZANTI GIORGIO nato il 11/08/1928 a MILANO( ITALIA)
GATTI PIER GIORGIO nato il 09/10/1931 a PIACENZA( ITALIA)
MORRIONE PAOLO nato il 04/11/1937 a FIRENZE( ITALIA)
MATTIUSSI ANDREA nato il 06/10/1935 a LIBIA( LIBIA)
DIAZ GIANLUIGI nato il 15/12/1931 a VIAREGGIO( ITALIA)
EDISON S.P.A.
nel procedimento a carico di questi ultimi

PORTA GIORGIO nato il 07/06/1936 a MILANO
inoltre:
SCHENA SERGIO nato il 18/12/1939 a MANTOVA
ROTTI RICCARDO nato il 20/06/1929 a MILANO
PARTE CIVILE

Data Udienza: 14/11/2017

avverso la sentenza del 05/02/2016 della CORTE APPELLO di BRESCIA
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere SALVATORE DOVERE
Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore GIUSEPPE
CORASANITI
che ha concluso per

Il Procuratore Generale CORASANITI GIOVANNI, conclude per l’annullamento
con rinvio della sentenza impugnata riguardo al ricorso del Procuratore Generale

Udito il difensore
E’ presente l’avvocato DINOIA MASSIMO del foro di MILANO in difesa della parte
civile costituita VERSALIS SPA, che chiede di respingere i ricorsi degli imputati e
del responsabile civile e di confermare la sentenza impugnata, come da
conclusioni scritte e nota spese che deposita.
E’ presente l’avvocato PARTESOTTI LUCA del foro di VENEZIA in difesa delle parti
civili:
AMBROSI TERESA e MIGLIORINI MARIA, prossimi congiunti di AMBROSI ROMEO;
GANELLI FRANCESCA e BARALDI GUIDO, prossimi congiunti di BARALDI
ROBERTO;
FEDRIGO MARIA TERESA e CAMPEDELLI ANDREA, prossimi congiunti di
CAMPEDELLI LUIGI;
GROTTI MARIA e FERRARI BRUNA, prossimi congiunti di FERRARI TELEMACO:
MORETTI ILDEGONDA, FRATTI MARA e FRATTI MARCO, prossimi congiunti di
FRATTI GIUSEPPE;
LAZZARINI REGINA, GHIDETTI LAURA, GHIDETTI MAURO e MARTINI SAMANTA,
prossimi congiunti di GHIDETTI GIOVANNI;
MARZI MARICA, PEDRELLI LIDIA e PEDRELLI GIORGIA, prossimi congiunti di
PEDRELLI FAUSTO;
GRASSI GIUSEPPINA e PERETTI CATIA, prossimi congiunti di PERETTI FRANCO;
BALASINI ALESSANDRA e RACCANELLI PAOLO, prossimi congiunti di
RACCANELLI ANTONIO;
MAMBRINI ANNA MARIA, ROVESTA MAURO e ROVESTA EMANUELE, prossimi
congiunti di ROVESTA LUIGI;
SANFELICI GERMANO, SANFELICI PAOLO, SANFELICI MARCO e CANTONI
ELVIRA, prossimi congiunti di SANFELICI MARIO;
GANDOLFI MARIA GRAZIA e TRUPIA EMANUELA, prossimi congiunti di TRUPIA
EMANUELE;
L’avv. PARTESOTTI chiede l’accoglimento del ricorso del Procuratore Generale
della Corte di Appello di Brescia e l’inammissibilità dei ricorsi degli imputati e del
responsabile civile con tutte le conseguenze di legge, comprese le statuizioni
civili, come richieste nei precedenti gradi di giudizio.
E’ presente l’avvocato MARA LAURA del foro di BUSTO ARSIZIO in difesa di parte
civile costituita MEDICINA DEMOCRATICA, MOVIMENTO DI LOTTA PER LA
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e inammissibilità di tutti gli altri ricorsi.

SALUTE SOC. COOP., non ricorrente che deposita conclusioni scritte e nota spese
alle quali si riporta chiedendo l’inammissibilità dei ricorsi degli imputati con
conferma della sentenza impugnata e condanna di tutti gli imputati al
risarcimento dei danni patrimoniali e non in favore della parte civile .
E’ presente l’avvocato SOMENZI SANDRO del foro di MANTOVA in difesa delle
parti civili:
eredi di ROSSATO DUILIO, eredi di CILLO SERGIO, eredi di VOLPATO PATRIZIO,
eredi di GANDOLFI GIUSEPPE, eredi di GUARNIERI AUGUSTO, eredi di CAMPANA
TEODORO e eredi di ROVESTA FRANCO.

l’inammissibilità dei ricorsi degli imputati, l’accoglimento del ricorso del
Procuratore Generale di Brescia e l’annullamento della sentenza della Corte di
Appello di Brescia relativamente ai punti impugnati dal Procuratore Generale,
con ogni provvedimento consequenziale, anche in ordine alle statuizioni civili
secondo la quantificazione indicata nei precedenti gradi di giudizio.
E’ presente l’avvocato BOLOGNESI DARIO del foro di FERRARA in difesa della
parte civile SOC. SYNDIAL S.P.A., che come da conclusioni scritte e nota spese
depositate chiede l’inammissibilità dei ricorsi degli imputati e del responsabile
civile con conferma della sentenza impugnata e con condanna degli imputati ed
del responsabile civile EDISON S.P.A. al pagamento delle spese di giudizio.
E presente l’avvocato PERSEGATI RUGGERINI ELOISA del foro di MANTOVA in
difesa della parte civile PROVINCIA DI MANTOVA, che associandosi alle
conclusioni del Procuratore Generale, deposita conclusioni scritte e nota spese.
E’ presente l’avvocato DI NOIA MASSIMO del foro di MILANO in sostituzione
dell’avv. MAGOTTI SARA del foro di MANTOVA in difesa della parte civile
COMUNE DI MANTOVA, che deposita conclusioni scritte e nota spese alle quali si
riporta.
E’ presente l’avv. ROSSI ANDREA del foro di ROMA in difesa dell’INAIL, che
deposita conclusioni scritte e nota spese alle quali si riporta chiedendo
l’inammissibilità dei ricorsi degli imputati e l’accoglimento del ricorso del
Procuratore Generale.
E’ presente l’avvocato ACCINNI GIOVANNI PAOLO del foro di MILANO in difesa di
MAZZANTI GIORGIO, che insiste per l’accoglimento del ricorso.
E’ presente l’avvocato GIARDA ANGELO LUIGI MATTEO del foro di MILANO in
difesa di ZIGLIOLI FRANCESCO, che insiste per l’accoglimento del ricorso.
E’ presente l’avv. ALESSANDRI ALBERTO del foro di MILANO in difesa di GATTI
PIER GIORGIO, che riportandosi ai motivi ne chiede l’accoglimento.
E’ presente l’avvocato SASSI CARLO del foro di MILANO in difesa di SCHENA
SERGIO, CIROCCO AMLETO, FABBRI GAETANO e di PAGLIA GIANNI, che dopo
aver esposto i motivi dei ricorsi ne chiede l’accoglimento.
E’ presente l’avvocato PADOVANI TULLIO del foro di PISA in difesa di ROTTI
RICCARDO, MORRIONE PAOLO e della EDISON S.P.A., che insiste per
l’accoglimento dei ricorsi.
E’ presente l’avvocato BACCAREDDA BOY CARLO del foro di MILANO in difesa di
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L’avvocato SOMERZI come da conclusioni scritte e nota spese depositate chiede

DIAZ GIANLUIGI e della EDISON S.P.A., che chiede l’accoglimento dei ricorsi.
E’ presente l’avvocato ALECCI NADIA del foro di MILANO in difesa di PORTA
GIORGIO, che chiede la conferma dell’assoluzione del proprio assistito.
E’ presente l’avvocato DELUCA MARCO del foro di MILANO in difesa di ROTTI
RICCARDO, MORRIONE PAOLO e di MATTIUSSI ANDREA, che riportandosi ai
motivi chiede l’accoglimento dei ricorsi.
E’ presente l’avvocato CENTONZE FRANCESCO del foro di MILANO in difesa di
i

DIAZ GIANLUIGI, che chiede l’accoglimento del ricorso.

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RITENUTO IN FATTO
1. Le imputazioni
Porta Giorgio,

Cirocco Amleto, Fabbri Gaetano, Paglia Gianni,

Ziglioli

Francesco, Schena Sergio, Mazzanti Giorgio, Gatti Pier Giorgio, Morrione Paolo,
Rotti Riccardo, Mattiussi Andrea e Diaz Gianluigi venivano tratti a giudizio
dinanzi al Tribunale di Mantova per rispondere dei delitti di omicidio colposo
plurimo aggravato, di lesioni personali colpose e di omessa collocazione di
impianti, apparecchi e segnali diretti a prevenire infortuni sul lavoro, aggravato

professionale dei lavoratori dello stabilimento petrolchimico di Mantova (in
proprietà di differenti soggetti giuridici nel corso del periodo considerato dalle
contestazioni) a sostanze nocive per l’uomo e alle conseguenze della stessa su
taluni degli esposti.
In particolare, le contestazioni mosse agli imputati, alcuni dei quali indicati
come amministratori delegati della società proprietaria, altri come direttori dello
stabilimento, succedutisi nelle cariche durante l’ampio arco temporale assunto
dagli addebiti, sono state distinte in tre capi:
– nel capo 1) sono state descritte le trasgressioni cautelari che, perché
determinanti l’esposizione dei lavoratori dello stabilimento a benzene, stirene,
acrilonitrile, dicloretano, sono state ritenute causative delle morti dei lavoratori
Cavicchioli Arienzo, Negri Francesco, Peretti Franco, Rebustini Livio, Basso
Severino, Bringhenti Arturo e Toniato Bruno, esitate da patologie a carico del
sistema emolinfopoietico (i primi quattro) o del pancreas (i restanti), venendo
quindi contestati i delitti di cui agli artt. 81 cpv. e 113 cpv., in relazione all’art.
112 n. 3, 61 n.3, 589 co. 2 e 3 cod. pen., commessi in Mantova dal 1970 al
9.5.1989;
– nel capo 2) sono state descritte le trasgressioni cautelari che, perché
determinanti l’esposizione dei lavoratori dello stabilimento a fibre di amianto
aerodisperse, sono state ritenute causative delle morti dei lavoratori Ballesini
Nardino, Beduschi Dino, Calore Severino, Cusini Sergio, Donzellini Silvano, Lana
Franco, Monici Luciano, Sanfelici Mario e delle lesioni personali patite da Rossin
Carlo, nonché delle morti dei lavoratori Benedini Alessandro, Bonfante Mario,
Braglia Carlo, Campana Teodoro, Campo Sergio, Franzoni Angelo, Fratti
Giuseppe, Gandolfi Giuseppe, Pirondini Erminio, Roncari Sergio, Rovesta Luigi,
Vellani Athos, Zavattini Guglielmo esitate per i primi otto da mesotelioma
pleurico e per gli ultimi tredici da tumore polmonare, venendo quindi contestati
i delitti di cui agli artt. 81 cpv. e 113 cpv. in relazione all’art. 112 n. 3, 61 n.3,
589 co. 2 e 3, 590, co. 1, 2, 3, 4 cod. pen., commessi in Mantova dal 1970 al
9.5.1989;

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dalla verificazione dell’infortunio, in relazione alla prolungata esposizione

- nel capo 3) sono state descritte le plurime condotte che, concretizzando
l’omessa adozione di impianti, apparecchi e cautele destinate a prevenire “le
malattie – infortunio professionali” patite dai lavoratori presi in considerazione
dai precedenti capi ed altresì
lavoratori

l’insorgenza delle patologie negli ulteriori

indicati in separato elenco (All. D), hanno dato luogo alla

contestazione del delitto di cui agli artt. 81 cpv., 110, 112 n. 1 e 3, 437, co. 1
e 2 cod. pen.
2. La sentenza di primo grado.

stabilimento di Mantova nella Montedison s.p.a. (dal 1966 al 30.12.1980), nella
Montepolimeri s.p.a. (dal 31.12.1980 al 31.12.1983), nella ‘nuova’
Montepolimeri s.p.a. (dal 1.1.1984 al 30.12.1984), nella Montedipe s.p.a. (dal
31.12.1984 al 29.6.1989), nella Enimont s.p.a. (dal 30.6.1989 al 17.1.1991),
nella Enichem s.p.a. (dal 18.1.1991 al 31.12.2001), nella Polimeri s.p.a. (dal
1.1.2002 al 4.4.2012) ed infine nella Versalis s.p.a. (dal 5.4.2012 all’attualità).
Ricostruiva i cicli produttivi, ed in specie la presenza in essi di benzene,
stirene, acrilonitrile, dicloroetano, sostanze utilizzate come materie prime in
ambienti nei quali erano presenti i lavoratori, nonché di amianto, quale
materiale di coibentazione di linee, apparecchiature, caldaie, colonne,
componenti e sezioni di impianti, nonché come componente di dispositivi di
protezione individuali quali guanti, coperte, cuscini; e riteneva accertato che i
lavoratori fossero stati esposti a tali sostanze, propagatesi negli ambienti di
lavoro, individuando per ciascuna di esse i reparti o i siti nei quali si era
prodotta quell’esposizione.
Analizzati poi i materiali probatori disponibili a riguardo delle cause ultime
delle morti dei lavoratori indicati nelle prime due imputazioni, tra i quali la
perizia affidata dal Tribunale medesimo al dr. P.G. Betta, giungeva alla
conclusione che il Ballesini, il Beduschi, il Calore, il Cusini, il Donzellini, il Lana
ed il Monici fossero deceduti per mesotelioma pleurico, il Bonfante, il Campo ed
il Franzoni per carcinoma polmonare, ed il Negri ed il Cavicchioli per leucemia
mieloide acuta. Il primo giudice riteneva accertata anche la derivazione
dall’esposizione all’amianto aerodisperso nello stabilimento di Mantova delle
placche pleuriche patite dal Rossin.
Pertanto, in relazione ai fatti descritti al capo 1,

il Tribunale riteneva

provata la penale responsabilità degli imputati Cirocco, Gatti, Diaz, Fabbri,
Morrione e Rotti, limitatamente all’omicidio colposo in danno del Negri
(ammalatosi di leucemia mieloide acuta: LMA).

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Il Tribunale individuava le società succedutesi nella proprietà dello

In relazione ai fatti descritti al capo 2, con riferimento ai decessi derivati da
mesotelioma pleurico, riteneva la responsabilità del Cirocco e del Gatti per gli
omicidi colposi in danno del Ballesini, del Calore, del Cusini, del Donzellini, del
Monici, del Beduschi; del Mazzanti per gli omicidi del Calore, del Cusini, del
Donzellini, del Lana, del Beduschi; del Fabbri, per gli omicidi del Calore, del
Donzellini, del Monici, del Beduschi; del Morrione e del Rotti per gli omicidi in
danno del Calore, del Donzellini e del Monici; del Diaz, del Paglia, del Mattiussi e
dello Ziglioli per gli omicidi in danno del Calore e del Monici; con riferimento ai

Fabbri, del Gatti, del Paglia, del Diaz, del Morrione e del Rotti per gli omicidi in
danno del Bonfante, del Campo e del Franzoni, mentre riteneva il Mattiussi ed il
Mazzanti responsabili dei decessi del Bonfante e del Campo e lo Ziglioli
responsabile del decesso del solo Franzoni.
Per tutti i delitti il Tribunale escludeva le aggravanti di cui rispettivamente
agli artt. 61 n. 3, 113, co. 2 e 112 n. 1 cod. pen. ed irrogava le pene ritenute
eque per ciascuno degli imputati, i quali venivano anche condannati al
risarcimento dei danni, da liquidarsi in separata sede, in favore delle parti civili
costituite dai familiari delle persone offese decedute, dal Rossin (per le cui
lesioni pronunciava sentenza di non doversi procedere perché il reato era
estinto per prescrizione), nonché al risarcimento del danno patrimoniale e
non patrimoniale in favore delle parti civili Comune di Mantova, Provincia di
Mantova, Regione Lombardia, FILCEM Federazione Italiana Chimica Energia
Manifatture CGIL Territoriale Mantova, UILCEM Unione Italiana Lavoratori della
chimica, dell’energia e del manufatturiero Mantova, AIEA, MEDICINA
DEMOCRATICA, SYNDIAL Attività Diversificate S.p.A., POLIMERI EUROPA S.p.A.
(ora, VERSALIS S.p.A.), INAIL e FEMCA Federazione Lavoratori Energia Moda
Chimica e settori affini CISL Mantova, da liquidarsi in separato giudizio civile,
disponendo a favore delle medesime (ma non di Syndial) provvisionali
immediatamente esecutive.
Per i decessi dei lavoratori Rovesta, Vellani, Benedin, Campana, Gandolfi e
Cavicchioli il Tribunale rilevava il decorso dei termini di prescrizione del reato
già in epoca antecedente alla richiesta di rinvio a giudizio e pertanto, non
ravvisando l’evidenza della prova dell’innocenza degli imputati, dichiarava
estinti i relativi reati.
Per i restanti lavoratori menzionati nei capi 1) e 2) non veniva ritenuta
certa la causa di morte (lo Zavattini ed il Sanfelici) o l’efficienza causale
dell’agente chimico rispetto alla patologia recata dal lavoratore (tanto vale per il
Basso, il Toniato ed il Bringhenti, ammalatisi di tumore al pancreas, la cui
derivazione dallo stirene, dall’acrilonitrile o dal dicloroetano il Tribunale riteneva

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r

decessi causati da tumore polmonare riteneva la responsabilità del Cirocco, del

non documentata; e per il Peretti, affetto da leucemia linfatica cronica, ed il
Rebustini, affetto da mieloma multiplo, rispetto al benzene) o ancora l’efficacia
causale dell’esposizione all’agente nocivo presso lo stabilimento mantovano (il
Braglia, il Fratti, il Pirondini ed il Roncari).
Pertanto assolveva tutti gli imputati (nei limiti delle contestazioni a ciascuno
mosse), per insussistenza del fatto, in ordine agli omicidi colposi in danno del
Sanfelici e dello Zavattini, del Braglia, del Fratti, del Pirondini, del Roncari, del
Basso, del Bringhenti, del Toniato, del Peretti e del Rebustini.

assoluzione in relazione a ogni addebito.
Quanto al delitto di cui al capo 3), il Tribunale osservava in primo luogo che
la contestazione richiamava le malattie-infortunio patite da 74 lavoratori: i
ventinove elencati nei capi 1 e 2 ed altri quarantacinque, per i quali non era
stata elevata l’imputazione ex art. 589 cod. pen. perché tali reati risultavano già
prescritti. Quindi, dopo aver ricostruito i termini dell’imputazione, cogliendo in
essa la indicazione di tre ordini di condotte omissive, ciascuno dei quali
incardinato sulla proiezione delle cautele doverose sul rischio connesso ad uno
specifico agente nocivo (amianto-benzene- stirene, acrilonitrile, dicloroetano), il
Tribunale escludeva che talune delle cautele indicate nella contestazione fossero
riconducibili alle nozioni di ‘impianti, apparecchiature, segnali’, costituenti gli
oggetti materiali del delitto di cui all’art. 437 cod. pen. Di altre omissioni
riteneva la non raggiunta dimostrazione. Dava poi conto delle ragioni per le
quali doveva ritenersi accertata la sussistenza delle restanti omissioni
contestate ma perveniva alla conclusione che fosse comunque manchevole il
dolo, rappresentato, a dire del primo giudice, dalla

“consapevolezza che le

cautele omesse servissero a evitare il verificarsi degli eventi infortunio
concretamente realizzatisi”, in quanto tale consapevolezza presuppone quella
della tossicità e della cancerogenicità delle sostanze presenti in stabilimento e,
in particolare, della loro capacità di causare malattie-infortunio nei lavoratori a
esse esposti. Orbene, una simile consapevolezza da parte dei singoli imputati
non era stata dimostrata.
Assolveva pertanto tutti gli imputati anche dal reato di omissione dolosa di
cautele contro gli infortuni sul lavoro perché il fatto non costituisce reato (i soli
Porta e Schena venivano assolti da detto reato per non aver commesso il fatto).

3. La sentenza di secondo grado
Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte di Appello di Brescia ha
parzialmente riformato la pronuncia appena sintetizzata. Condividendone il
complessivo impianto ancora dopo aver preso in esame i rilievi avanzati dagli

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Nei confronti di Porta Giorgio e di Schena Sergio pronunciava sentenza di

appellanti, la corte distrettuale ha dato evidenza alla circostanza che il Rotti era
deceduto ancor prima della pronuncia della sentenza di primo grado ed ha
quindi dichiarato l’inesistenza della medesima; ha poi assolto il Mazzanti dal
reato di omicidio colposo in danno del Donzellini; ha escluso la responsabilità di
tutti gli imputati appellanti per l’omicidio colposo in danno del Campana (per il
quale era stata dichiarata l’estinzione per prescrizione); ha escluso la
responsabilità del Gatti, del Diaz, del Cirocco e del Fabbri per l’omicidio colposo
in danno del Vellani (anch’esso dichiarato prescritto dal Tribunale).
ha assunto la

seguente conformazione:

il Cirocco ed il Gatti sono stati giudicati colpevoli degli omicidi in danno
del Ballesini, del Calore, del Cusini, del Donzellini, del Monici, del
Beduschi, nonché del Campo e del Franzoni;

il Mazzanti è stato giudicato colpevole degli omicidi in danno del Calore,
del Cusini, del Lana e del Beduschi, nonché del Campo;

il Fabbri è stato giudicato colpevole degli omicidi in danno del Calore,
del Donzellini, del Monici e del Beduschi nonché del Campo e del
Franzoni;

il Paglia è stato giudicato colpevole degli omicidi in danno del Calore e
del Monici, nonché del Campo e del Franzoni;

il Morrione è stato giudicato colpevole degli omicidi in danno del Calore,
del Donzellini e del Monici nonché del Campo e del Franzoni;

il Mattiussi ed il Diaz sono stati giudicati colpevoli degli omicidi in danno
del Calore e del Monici nonché del Campo e del Franzoni;

lo Ziglioli è stato giudicato colpevole degli omicidi in danno del Calore e
del Monici nonché del Franzoni.

Conseguentemente, la Corte di Appello ha proceduto alla ridefinizione del
trattamento sanzionatorio, concedendo a tutti gli imputati le attenuanti
generiche, valutate equivalenti alla contestata aggravante di cui all’art. 589, co.
2 cod. pen.; ha ridotto a tutti gli imputati le pene inflitte dal primo giudice,
concedendo al solo Ziglioli i doppi benefici di legge. E’ intervenuta quindi sulle
statuizioni in materia civile, rideterminando la misura della provvisionale
liquidata a favore dell’Inail e revocando le statuizioni civili assunte a favore delle
parti civili costituite dai prossimi congiunti dei lavoratori deceduti a causa
dell’esposizione a sostanze nocive presso lo stabilimento di Mantova, nonché
quelle concernenti la Filcem, la Uilcem, la Fennca e la Aiea (articolazioni
sindacali). Ha poi confermato nel resto la sentenza di primo grado e pronunciato
ulteriori statuizioni accessorie delle quali si darà conto nel prosieguo, ove reso
necessario dal contenuto dei ricorsi.

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Per effetto di tali statuizioni la pronuncia di condanna

Quanto al delitto di cui al capo 3) la Corte di Appello ha escluso la
responsabilità di tutti gli imputati per tale reato, ma sulla scorta di una
impostazione parzialmente difforme.
Come già il Tribunale, la corte distrettuale ha ritenuto che nessuna delle
condotte indicate nella contestazione e riferibili al rischio amianto fossero
sussumibili nella fattispecie di cui all’art. 437 cod. pen. Ad avviso della Corte di
Appello, alcune fra esse non integrano l’elemento materiale del reato di cui
all’art. 437 cod. pen., talune perché descritte in termini tanto generici da non

perché estranee a questa. Alcune delle condotte che il P.M. appellante aveva
indicato come tipiche – ha convenuto il collegio territoriale – lo sono realmente,
ma esse non sono state oggetto di contestazione sub capo 3) e pertanto non
possono essere considerate, se non violando l’art. 521 cod. proc. pen.
In relazione a condotte funzionali a prevenire malattie-infortunio derivanti
da sostanze diverse dall’amianto, la Corte di Appello ha convenuto con il
Tribunale circa il mancato raggiungimento della prova della loro sussistenza; ed
ha quindi rettificato la formula assolutoria in quella del ‘fatto non sussiste’.
In relazione a condotte funzionali a prevenire malattie-infortunio derivanti
dall’esposizione al benzene la Corte di Appello ha ritenuto fondati gli appelli del
P.M., del P.G. e delle parti civili, ribadendo la sussistenza dell’elemento
materiale del reato ma divergendo dal Tribunale quanto alla integrazione del
dolo, che ha ravvisato nella coscienza e volontà di omettere tutte le cautele
prescritte, nonostante la consapevolezza del pericolo per l’incolumità pubblica,
ed ha quindi dichiarato l’estinzione per prescrizione del reato di cui all’art. 437,
co. 1 cod. pen., previa identificazione del dies a quo in quello di cessazione della
condotta; quanto all’evento aggravatore costituito dalla morte del Negri la Corte
di Appello ha ravvisato – come già il Tribunale – il dies a quo nel tempo del
verificarsi del medesimo, nel caso il 23.6.1999, rilevando l’avvenuta estinzione
del reato per prescrizione.
Conseguentemente la Corte di Appello ha assolto tutti gli imputati dal reato
sub 3), in relazione al rischio amianto, per insussistenza del fatto; ha assolto gli
stessi da parte delle condotte descritte al capo 3, in relazione al rischio da
stirene, benzene, acrilonitrile e dicloretano, ancora per insussistenza del fatto;
ha dichiarato prescritto il reato di cui all’art. 437, co. 1 cod. pen. in relazione ad
ulteriori condotte connesse al benzene, allo stirene, all’acronitrile e al
dicloroetano; ha reso analoga statuizione in relazione all’art. 437, co. 2 cod.
pen., con riferimento alla malattia-infortunio subita dal Negri.

lo

.(J

mostrare contenuti concreti assimilabili alla condotta tipica, altre, ben descritte,

4. I fatti accertati dalle sentenze di merito.
Pur nell’ampiezza dei materiali scrutinati dai giudici di merito e quindi dei
connotati delle molteplici vicende che si intrecciano e fondono nella sintesi
offerta dalle imputazioni, la sostanziale consonanza delle pronunce emesse dal
Tribunale di Mantova e dalla Corte di Appello di Brescia consente di
rappresentare con la necessaria sintesi il percorso ricostruttivo che sostiene le
statuizioni or ora brevemente rammentate.
4.1. Esposizione al benzene.
A riguardo dell’omicidio colposo commesso in danno del Negri, connesso

proc. pen. per il caso in cui ricorra la condanna anche generica al risarcimento
dei danni alle parti civili, la Corte di Appello ha condiviso il giudizio del Tribunale
secondo il quale:
– non era controverso che il Negri fosse morto a causa di leucemia mieloide
acuta (LMA);
– il Negri era stato esposto al benzene durante il tempo in cui aveva
lavorato presso il reparto 5T3 dello stabilimento di Mantova, ovvero tra il
gennaio 1974 ed il gennaio 1983;
– siffatta esposizione era da ascriversi alle perdite di materiale dalle pompe
a tenuta singola presenti nell’impianto, all’evaporazione del prodotto durante le
quotidiane e ripetute operazioni di campionamento, all’evaporazione dei residui
della sostanza che confluivano nelle canalizzazioni non chiuse delle acque; e
pertanto alla mancata adozione delle misure, delle regole comportamentali e
delle informazioni a contenuto prevenzionistico che sarebbero valse ad
eliminare l’aerodispersione del benzene (misure, regole ed informazioni che i
giudici di merito indicavano analiticamente); tanto implicava la violazione degli
artt. 247, 248, 374, 387 del d.p.r. 547/55;
– i valori dell’esposizione del Negri erano stati accertati come superiori alla
soglia che secondo la comunità scientifica risulta idonea a cagionare la malattia,
ovvero 1Oppm/anni, in forza di indagine tecnica condotta dal c.t. dr. Tieghi;
– non erano risultate cause alternative di insorgenza della malattia patita
dal Negri, non reputando causalmente incidente l’abitudine del lavoratore di
fumare tra le 15 e le 20 sigarette al giorno;
– lo stato delle conoscenze scientifiche in materia di esposizione al benzene
sin dalla metà/fine degli anni sessanta del ventesimo secolo indicava la
potenzialità oncogena del benzene sul sistema emolinfopoietico e in specie la
sua capacità di causare la leucemia;
– coloro che rivestivano posizioni di garanzia all’interno della Montedison
s.p.a. avevano conoscenze superiori rispetto a quelle dell’agente medio; sicché

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all’esposizione al benzene, assolvendo al compito imposto dall’art. 578 cod.

erano rimproverabili per l’omessa adozione delle necessarie misure
prevenzionistiche, adozione dimostratasi possibile anche alla luce dei successivi
interventi;
– gli imputati ricoprivano posizioni di garanzia (amministratori delegati o
direttori di stabilimento) che imponevano loro di adottare le misure necessarie e
la condotta di ciascuno di essi era stata concausa dell’esposizione mortale,
stante la natura strutturale e la dimensione finanziaria degli investimenti
necessari per risolvere il problema dell’esposizione dei lavoratori al benzene.

lavoratore al benzene, la Corte di Appello ha condiviso il giudizio del Tribunale
secondo il quale era maturata la prescrizione del reato sin da prima della
pronuncia della sentenza di primo grado (sulla premessa dell’infondatezza
dell’appello del P.G. che sollecitava il riconoscimento dell’aggravante di cui
all’art. 61 n. 3 cod. pen. e quindi della continuazione dei reati, con applicazione
del disposto dell’art. 158 cod. pen., nel testo previgente alla legge n. 251/2005)
e pertanto ha rigettato gli appelli degli imputati ritenendo che non emergesse
l’evidenza della prova dell’innocenza, secondo la previsione dell’art. 129 cod.
proc. pen.

4.2. Esposizione alle fibre di amianto.
Con riferimento agli omicidi colposi derivanti da esposizione a fibre di
amianto aerodisperse, la Corte di Appello ha ritenuto di dover confermare le
valutazioni operate dal Tribunale sottese alle pronunce di condanna. Ha quindi
precisato che in merito ai lavoratori per la cui morte era intervenuta condanna
non era controversa tra le parti la patologia individuata quale causa del
decesso; che, certa la presenza di amianto aerodisperso nello stabilimento di
Mantova e nei reparti presso cui lavorarono le persone offese (al riguardo la
Corte di Appello ha superato le deduzioni difensive di una presenza dell’asbesto
aerodisperso sporadica, minimale ed ha indicato in dettaglio quale fosse stata la
situazione presso i diversi reparti in considerazione), la questione della misura
dell’esposizione di ciascuna di esse – in assenza di campionamenti risalenti al
tempo di interesse – andasse affrontata diversamente a seconda delle
patologie. Poiché per il mesotelioma la comunità scientifica assume che la
patologia può insorgere anche in caso di esposizione a livelli molto bassi, risulta
irrilevante l’entità quantitativa dell’esposizione del singolo lavoratore. Nel caso
di tumore polmonare, invece, la comunità scientifica – la Corte di Appello ha
fatto espresso richiamo al Consensus Report di Helsinki del 1997 e alla sua
conferma fatta dal Consensus del 2014 – riconosce che ad un’esposizione
cumulativa pari a 25 ff/aa corrisponde il raddoppio del rischio di insorgenza
della malattia; ma anche che le esposizioni cumulative sotto tale soglia sono

12

Per l’omicidio del Cavicchioli, anch’esso derivante dall’esposizione del

associate ad un rischio di insorgenza comunque aumentato, sia pure in misura
minore del doppio, e che solo esposizioni estremamente basse non consentono
di quantificare l’aumento del rischio. La corte territoriale ha proseguito ponendo
la premessa di ordine generale per la quale la prova della causalità singolare
deve essere tratta dalla storia lavorativa delle persone offese, quale emergente
dalla anamnesi, dalle mansioni in concreto svolte dal lavoratore, dalle condizioni
di lavoro del medesimo, dal rispetto del limite minimo di latenza indicato in dieci
anni dalla prima esposizione, assumendo che è dato acclarato che il tumore

rischio di contrarre la malattia, ed affermando che si riconosce il cd. effetto
acceleratore, ovvero che le dosi successive a quelle che determinano
l’attivazione del processo patologico producono un’abbreviazione del tempo di
latenza della malattia e quindi un accorciamento del tempo della vita. Inoltre, in
relazione alla multifattorialità del tumore polmonare, dopo aver considerato le
deduzioni difensive, la Corte di Appello ha ritenuto che l’analisi comparata dei
rischi da amianto e da fumo ai quali erano risultati esposti i lavoratori Campo,
Bonfante e Franzoni permettesse di ritenere che le patologie dagli stessi patite
siano riconducibili all’asbesto, da solo o in concorso con il fumo, e non
esclusivamente a quest’ultimo.
Ancora in relazione agli omicidi connessi all’insorgenza di mesotelioma
pleurico, la corte territoriale ha ritenuto che non fossero decisivi i rilievi difensivi
che investivano quanto affermato dal primo giudice a riguardo del carattere
sostanzialmente monofattoriale del mesotelioma maligno, dell’esistenza di un
diffuso consenso sui meccanismi di azione dell’amianto e sulla teoria multistadio
nonché sulla natura dell’amianto quale cancerogeno completo (ovvero in grado
di determinare l’insorgenza e la progressione della malattia) e sull’effetto
acceleratore delle esposizioni successive; ha osservato che lo studio di mortalità
sulla coorte dei dipendenti dello stabilimento mantovano nel periodo 1957-1991
aveva evidenziato un rilevante eccesso di rischio per il mesotelioma maligno e
che per i lavoratori Ballesini, Calore, Cusini, Donzellini, Lana, Monici e Beduschi
l’anamnesi lavorativa, le condizioni di lavoro ed il rispetto del limite di latenza
convergevano nell’indicare l’esposizione all’amianto quale causa delle rispettive
malattie. Ha ulteriormente precisato che sussistevano le condotte colpose
descritte nell’imputazione e la valenza causale del comportamento doveroso
non tenuto; che andavano respinte le doglianze difensive incentrate sullo
spettro preventivo dell’art. 21 d.p.r. 303/1956 (che non sarebbe volto a
prevenire malattie ma piuttosto molestie e fastidiosità oggettive e fisicamente
avvertibili), sulla prevedibilità in concreto degli effetti sull’uomo dell’esposizione

13

polmonare è dose-dipendente, sicché ogni ulteriore dose assunta aggrava il

all’amianto, anche alla luce della previsione legale di valori soglia, sulla
evitabilità dell’evento.
Sulla scorta di siffatto percorso argomentativo, nutrito di ripetuti riferimenti
alla giurisprudenza di legittimità, la Corte di Appello è pervenuta alla conferma
delle condanne in relazione agli omicidi in danno del Ballesini, del Calore, del
Donzellini, del Lana, del Monici e del Beduschi e alla declaratoria di estinzione
per prescrizione dell’omicidio in danno del Cusini.
Con le ulteriori valutazioni la Corte di Appello ha ritenuto sussistente

Campana, per non aver avuto essi posizioni di garanzia nel periodo di
esposizione del medesimo, giungendo quindi a riformare la declaratoria di
estinzione del reato per prescrizione.
Diversa valutazione ha operato a riguardo dell’analoga declaratoria di
improcedibilità pronunciata in relazione agli omicidi in danno rispettivamente
del Benedini, del Gandolfi, del Rovesta e del Vellani, che ha ritenuto di dover
confermare, non emergendo la prova evidente dell’innocenza degli imputati; e
egualmente ha ritenuto a riguardo delle lesioni personali patite dal Rossin,
confermando quindi la declaratoria di estinzione del reato per essere maturata
la prescrizione sin dal tempo anteriore alla sentenza di primo grado.

4.3. Il delitto contro l’incolumità pubblica.
Con riferimento al delitto di cui all’art. 437 cod. pen. (ma dovrebbe dirsi dei
più delitti descritti sotto l’unificante capo 3, caratterizzati dall’omissione di
cautele dirette a prevenire il rischio derivante rispettivamente da amianto, da
benzene, da stirene-acrilonicrite-dicloroetano), la Corte di Appello ha
rammentato che il Tribunale aveva ritenuto provato (in parte) l’elemento
oggettivo del reato ma non il dolo, per la non raggiunta dimostrazione che gli
imputati avessero agito con la consapevolezza che le cautele omesse servissero
ad evitare il verificarsi degli eventi infortunio concretamente realizzatisi.
Ritenuto che tale consapevolezza presupponesse quella della tossicità e della
cancerogenicità delle sostanze presenti nello stabilimento, il Tribunale aveva
rilevato che lo stirene, l’acrilonitrile ed il dicloroetano non sono dalla scienza
indicati come certamente in grado di causare il tumore al pancreas o altre gravi
patologie oncologiche e pertanto aveva escluso la consapevolezza negli imputati
del loro potere cancerogeno. Inoltre il primo giudice aveva ritenuto non provata
la consapevolezza degli imputati, tra il 1970 ed il 1989, del potere cancerogeno
del benzene e dell’amianto, ravvisando piuttosto lo stato soggettivo della colpa,
perché gli imputati si erano del tutto disinteressati al rischio benzene ed al
rischio amianto presenti nello stabilimento.

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l’evidenza della prova dell’innocenza degli imputati in ordine all’omicidio

Svolte alcune precisazioni in ordine al perimetro dell’imputazione sub 3)
all’esito della contestazione suppletiva operata dal p.m. e delle preclusioni
derivanti dalla omessa impugnazione di quella parte della pronuncia di primo
grado che ha escluso la sussistenza dell’art. 437, co. 2 cod. pen. per e in
parallelo alla ritenuta insussistenza degli omicidi colposi richiamati come eventi
aggravanti, la Corte di Appello ha rigettato i motivi degli appelli del P.M., del
P.G., di Syndial e di Polimeri che lamentavano l’esclusione di talune delle
condotte descritte al capo 2 da quelle che possono valere ad integrare il reato di

tipiche operata dal Tribunale. Ha accolto il motivo di appello dei difensori che
censurava la formula utilizzata per l’assoluzione dal delitto di cui all’art. 437
cod. pen. in relazione alle misure indicate alle lettere a, c, c-bis, w, x, x-bix, y
del capo 1, mutandola da ‘il fatto non costituisce reato’ in ‘il fatto non sussiste’.
Ha quindi operato analoga modifica per le condotte di cui alle lettere k ed I del
capo 1; ha ribadito il giudizio di sussistenza della condotta ascritta in relazione
alle misure funzionali alla prevenzione del rischio da esposizione a stirene,
acrilonitrile, dicloroetano, apirolio ed altre, ritenendo quindi integrata l’ipotesi di
cui all’art. 437, co. 1 cod. pen.
In particolare, in accoglimento dei motivi degli appelli del Procuratore della
Repubblica, del P.G. e delle parti civili che investivano il giudizio del primo
giudice attinente alla sussistenza dell’elemento soggettivo del reato, la Corte di
Appello non ha condiviso che esso debba consistere nella consapevolezza che
le cautele omesse servano ad evitare il verificarsi degli infortuni concretamente
verificatisi, e rilevata l’estinzione dei reati per prescrizione, ha esplicitato che
non ricorre l’evidenza della prova della innocenza degli imputati, concludendo
per la riforma della pronuncia di primo grado, con la declaratoria di
improcedibilità per essere estinto per prescrizione il delitto di cui all’art. 437, co.
1 cod. pen. in riferimento alle condotte sub lettere b, d, e, f, f-bis, i, j, m, n, o,
u, v – v octies, z – z quinques del capo 1 ed il delitto di cui all’art. 437, co. 2
cod. pen. con riferimento alla patologia del Negri e alle condotte di cui alle
lettere g, h, e h-bis del capo 1.
Quindi la Corte di Appello ha preso in esame le censure mosse al
trattamento sanzionatorio definito dal primo giudice e quelle concernenti la
condanna generica al risarcimento dei danni, pervenendo alle conclusioni che si
sono già rammentate.

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cui all’art. 437 cod. pen. e più in generale la delimitazione delle condotte

5. Il ricorso del P.G.
Ha proposto ricorso il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte
di Appello di Brescia, articolando sei motivi.
5.1. Raccogliendole sotto la titolazione del primo motivo, che lamenta la
violazione di legge (in relazione agli artt. 40, 41, 42, 81 cpv., 110, 437, co. 1 e
2, 157 cod. pen. e 521 cod. proc. pen.) ed il vizio motivazionale, il ricorrente
muove plurime censure al giudizio formulato dalla Corte di Appello a riguardo del
capo 3). In primo luogo contesta che la descrizione delle condotte sia realmente

estranee al paradigma normativo.
Assume, poi, che la Corte di Appello ha erroneamente affermato che non vi
era stata impugnazione dell’assoluzione pronunciata dal Tribunale per il reato di
cui all’art. 437, co. 2 cod. pen. in relazione alle morti per le quali era stata
esclusa la sussistenza del reato di cui all’art. 589 cod. pen.; in realtà l’appello del
P.G. concerneva l’assoluzione dal delitto di cui all’art. 437 cod. pen. nella sua
interezza. Il ricorrente ne fa derivare il vizio di omessa motivazione della
sentenza della Corte di Appello, che non si è pronunciata su tale punto del
gravame. Rammenta il ricorrente che la giurisprudenza di legittimità ravvisa il
concorso formale di reati tra il delitto di cui all’art. 437, co. 2 e quello di cui
all’art. 589 cod. pen.
Censura, inoltre, l’assunto della Corte di Appello secondo il quale, stante la
non equivocità della contestazione, la fattispecie di cui al secondo comma
dell’art. 437 cod. pen. sarebbe stata riferita a malattie-infortuni e non al
disastro, sicché sarebbe stata necessaria la prova del nesso causale tra la
condotta tipica e la singola malattia-infortunio per ritenere integrato il reato
aggravato; assume l’esponente che la descrizione dei fatti, come contenuta
nell’imputazione, fa riferimento a decessi e a malattie a carico di settanta
lavoratori e ciò può rappresentare anche l’evento di disastro menzionato dall’art.
437, co. 2 cod. pen.
Il P.G. si duole, ancora, che la Corte di Appello abbia ritenuto l’atipicità,
rispetto al reato di cui all’art. 437 cod. pen., delle condotte consistite
nell’impiego di elementi contenenti amianto, sulla scorta di una lettura
incompleta ed atomizzata della imputazione; mentre la lettura congiunta delle
lettere a) e b) del capo 2 avrebbe posto in luce che si rimproverava agli imputati
la inadeguata conservazione e manutenzione delle cose (manufatti, guarnizioni,
apparecchiature, caldaie etc.) contenenti amianto. Il ricorrente contesta che non
rientri nell’elemento materiale del reato l’omesso adeguamento del budget di
manutenzione, la mancata realizzazione di sufficienti interventi di conservazione
e la manutenzione degli elementi e degli impianti più soggetti a deterioramento.

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di tale genericità da pregiudicare il diritto di difesa e che talune di esse siano

Egli lamenta altresì che la Corte di Appello non abbia considerato l’attività di
scoibentazione nelle condizioni date come attività di manutenzione/riparazione,
rilevante ai fini della sussistenza della condotta tipica. Più in generale rileva che il
contraddittorio tra le parti ha avuto ad oggetto la mancata realizzazione di
interventi di conservazione e la mancata manutenzione degli impianti; osserva
che tali condotte integrano il reato sub art. 437 cod. pen. perché l’omissione,
come il mancato adeguamento alle migliori tecnologie di un impianto già
esistente (ed il ricorrente illustra le matrici normative dell’obbligo di adozione

impianto adeguato.
Nel corpo del medesimo motivo il ricorrente contesta il giudizio della Corte di
Appello secondo il quale non sarebbero state oggetto di formale contestazione ex
art. 437 cod. pen. la mancata realizzazione di sistemi di aspirazione di polveri e
fibre, la omissione di segnalazione del rischio di diffusione di polveri di amianto,
la omessa collocazione di un sistema di idranti per la bagnatura di materiali e
delle polveri, l’assenza di un sistema di raccolta dei residui delle manipolazioni
delle cose contenenti amianto, l’omissione di strumenti di monitoraggio delle
fibre di amianto aerodisperse e di un sistema di igienizzazione; e nega che
l’addebito rivolto agli imputati di non aver curato che i lavoratori usassero tutti i
mezzi necessari di protezione individuale sia realmente generico, ritenendo che
esso in realtà esprima il rimprovero per l’omesso controllo.
Censura il P.G. la statuizione concernente la prescrizione del reato di cui
all’art. 437, co. 1 cod. pen., non avendo la Corte di Appello considerato che
trattasi di reato permanente la cui consumazione si protrae sino a quando
perdura l’omissione delle cautela dirette a prevenire disastri o infortuni. Per
l’esponente assumerebbe quindi rilievo che a tutt’oggi non sarebbe conclusa
l’opera di eliminazione dell’amianto. E, aggiunge, a nulla rileverebbe che gli
originari autori dell’inquinamento non abbiano più la disponibilità dell’azienda,
dal momento che per gli stessi rimane doverosa l’eliminazione dell’inquinamento.
Quanto al reato di cui all’art. 437, co. 2 cod. pen., ad avviso del ricorrente esso
si consuma con il verificarsi del disastro o dell’infortunio ed i termini di
prescrizione non sono decorsi perché l’ultimo decesso tra i lavoratori (quello del
Beduschi) risale al 17.7.2014. Puntualizza, il ricorrente, che non vi sono tanti
eventi quanti sono gli infortuni-malattia ma un macro evento che comprende
tutti gli infortuni-malattie degli operai; per tale ragione la consumazione del
reato coincide con l’ultimo evento morte e non con la data di insorgenza delle
singole malattie, come invece sostenuto dalle difese.
Il ricorrente propone poi, asseritamente ‘per completezza’, una disamina del
profilo soggettivo del reato di cui all’art. 437 cod. pen. in contrapposizione a

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delle migliori tecnologie disponibili), equivale alla mancata realizzazione di un

quanto ritenuto dal Tribunale (ma già superato dal giudizio della Corte di
Appello); tanto che per tale profilo non formula censure all’indirizzo della
motivazione della sentenza di secondo grado.
5.2. Con il secondo motivo il ricorrente investe il giudizio concernente la
colpa con previsione, in relazione ai ritenuti omicidi colposi di cui al capo 1 e al
capo 2, denunciando violazione degli artt. 40, 42, 61 n. 3 cod. pen. e 81 cpv.,
589, co. 2 e 3 cod. pen. nonché vizio della motivazione.
Ad avviso del ricorrente tutte le premesse esposte nella motivazione

come definita dalla giurisprudenza di legittimità. Dopo aver rammentato i principi
giurisprudenziali in materia di accertamento della colpa con previsione, il
ricorrente espone i dati concernenti la vicenda del Negri – citata come esempio -,
concludendo che da essi non può che trarsi un giudizio di sussistenza della colpa
con previsione, evidenziando altresì che quanto ritenuto dal giudice ai fini del
trattamento sanzionatorio, ovvero che in periodi di tempo più recenti le
conoscenze in ordine al potere tossico-cancerogeno delle sostanze erano ormai
avanzate, contraddice l’esclusione del particolare coefficiente soggettivo. In
sintesi, la consapevolezza delle situazioni dei reparti, delle inosservanze
prevenzionistiche e della possibilità di adottare contromisure dimostra la colpa
con previsione. Nell’argomentare il ricorrente fa anche riferimento critico al
mancato riconoscimento della continuazione, effetto della ritenuta insussistenza
della colpa con previsione.
5.3. Il terzo motivo denuncia violazione degli artt. 2, 81, 157, 158 cod. pen.
in relazione ai capi 1 e 2. Il ricorrente ravvisa una errata applicazione della legge
da parte della Corte di Appello laddove questa ha ritenuto che nel caso di reato
continuato il termine di prescrizione decorra, secondo il testo dell’art. 158 cod.
pen. previgente alla novella recata dalla legge 251/2005, dal tempo di
consumazione dell’ultimo reato avvinto solo se la continuazione è stata
riconosciuta antecedentemente al decorso del termine di prescrizione di uno o
più dei reati avvinti, citando a conforto Cass. sez. 2, n. 28712/2013, dalla quale
ricava il principio che la decorrenza dal momento di cessazione della
continuazione è applicabile anche nel caso in cui il vincolo della continuazione sia
individuato successivamente nella sentenza. Aggiunge che l’art. 129 cod. proc.
pen. non impedisce al giudice di verificare la sussistenza della continuazione e
quindi della decorrenza posticipata della continuazione. Rimarca che il motivo è
sostenuto dall’interesse ad impugnare ancorché l’eventuale accoglimento non
possa condurre ad un nuovo giudizio (in quanto comunque i reati sarebbero
estinti per prescrizione in un tempo successivo alla sentenza di primo grado)

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portavano alla conclusione della sussistenza della colpa con previsione, così

perché viene riconosciuto l’interesse all’esatta osservanza della legge (cita, al
riguardo, le decisioni di questa Corte n. 28712/2013 e n. 32527/2010).
Il ricorrente censura inoltre la correttezza delle modalità del computo del
termine di prescrizione degli omicidi colposi aggravati operato dalla Corte di
Appello. Questa ha ritenuto che tale termine non dovesse decorrere dall’ultimo
degli omicidi accertati nel procedimento ma dall’ultimo degli omicidi avvenuti
prima dell’entrata in vigore della legge cd. ex Cirielli (8.12.2005), ritenendo che
diversamente operando si sarebbe applicata una disciplina intermedia,

applicazione la normativa più recente perché non posticipa il termine di
decorrenza della prescrizione alla cessazione della continuazione, sicché per ogni
decesso vi è un suo proprio termine iniziale di prescrizione.
5.4. Deduce, ancora, violazione di legge e vizio della motivazione in
relazione alla esclusione di responsabilità di Porta Giorgio per gli omicidi colposi
in danno di Calore, Cusini, Donzellini, Lana, Monici, Beduschi, Bonfante, Campo,
Franzoni, Neri, Campana, Rovesta e Cavicchioli.
L’argomentazione prende in considerazione il tema della posizione del Porta,
quale amministratore delegato della società capogruppo Montedison s.p.a.
Assume il ricorrente che nel diritto penale prevenzionistico, ai fini della
individuazione del soggetto da definirsi ‘datore di lavoro’ assume rilievo non solo
la qualifica formale ma anche la sostanziale titolarità ed esercizio dei relativi
poteri. Sicchè la responsabilità del Porta non può essere esclusa solo asserendo
che egli non aveva la qualifica giuridica di datore di lavoro o affermando, senza
approfondimenti, che egli non si era ingerito nella gestione di Montepolimeri. Ad
avviso del ricorrente l’ingerenza di fatto “vi è anche con lo svolgimento del ruolo
di amministratore delegato della società controllante/capogruppo giacchè
all’amministratore delegato della società controllante/capogruppo spettano
decisioni che influenzano le scelte impiantistiche e le dinamiche produttive della
controllata, tanto più nei casi in cui questa sia interamente controllata”. Nel caso
di specie era sicuro interesse del gruppo gestire gli stabilimenti in maniera
uniforme e mirante al massimo rendimento; dopo il 31.12.1980 Montedison
s.p.a. decise le politiche dell’intero gruppo, quindi anche le scelte produttive e
gestionali delle controllate, condizionando il livello delle migliori tecnologie e
della manutenzione di ciascun stabilimento e quindi il livello di sicurezza
dell’ambiente di lavoro delle controllate. Il totale potere decisionale della
Montedison viene confermato dal fatto che fu essa a pianificare tutti i passaggi di
mano dello stabilimento di Mantova, come dimostrato dalla documentazione
versata in atti. Sicché è alla controllante che vanno riferite le scelte operative, la
proprietà e la gestione dell’impianto di Mantova, e quindi le scelte di

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pacificamente non consentita. Ad avviso del ricorrente, invece, deve trovare

investimento per le necessità della sicurezza dei lavoratori, essendo peraltro il
Porta pienamente consapevole di quanto vi accadeva.
Né risulta che egli abbia manifestato la propria opposizione a decisioni
operative della controllata o segnalato ai singoli responsabili che la controllante
voleva agire per impedire le conseguenze delle omissioni di cautele attribuibile
alla controllata.
Il ricorrente fa riferimento all’art. 40 cpv. cod. pen. per affermare che il
Porta, nella sua qualità, era tenuto ad impedire la commissione dell’evento del

una scelta riferibile al Porta quella di non adeguare gli impianti, come risulta
dalla ‘Nota sulla formulazione del budget di manutenzione per gli anni 19781980’ acquisito agli atti del giudizio.
5.5. Violazione degli artt. 81 cpv., 61 n. 3, 589, co. 2 e 3 cod. pen. e vizio di
motivazione vengono dedotti a riguardo dell’assoluzione del Cirocco, del Fabbri,
del Mazzanti, del Gatti, del Rotti e del Diaz, pronunciata per l’omicidio in danno
di Sanfelici Mario. La Corte di Appello ha ritenuto che il fatto non sussista
persistendo il dubbio in ordine alla causa immediata della morte del Sanfelici; ma
in realtà entrambe le cause emerse come possibili (mesotelioma maligno diffuso
di tipo sarconnatoide – carcinoma sarcomatoide del polmone) sono malattie
asbesto-correlate.
5.6. Analoghi vizi vengono dedotti a riguardo della declaratoria di estinzione
per prescrizione degli omicidi in danno del Benedini, del Gandolfi, del Rovesta e
del Cavicchioli, fondata sulla esclusione della colpa con previsione e della
continuazione tra i reati; nonché a riguardo della pronuncia di assoluzione in
relazione agli omicidi in danno di Campana Teodoro e di Vellani Athos.
6. I ricorsi degli imputati e del responsabile civile Edison s.p.a.
Tutti gli imputati ed il responsabile civile hanno proposto ricorso con atto
unitario a firma degli avv. T. Padovani, M. Deluca, G. P. Accinni, A. Alessandri, C.
Baccaredda Boy, F. Cagnola, F. Centonze, S. Genovesi, A. Giarda, C. Sassi.
6.1. Con il motivo I, premesso che il Tribunale aveva accolto acriticamente
le tesi del c.t. dell’accusa ed omesso di valutare criticamente lo stato
complessivo delle conoscenze accreditate in tema di effetto acceleratore delle
esposizioni all’asbesto successive a quelle che determinano l’insorgenza della
malattia, si rileva che il passaggio chiave di entrambe le sentenze di merito è
quello in cui si applica al mesotelioma il risultato di studi condotti sul tumore
polmonare (si allude allo studio Berry 2007). Per contro, si sostiene, in tutta la
letteratura scientifica internazionale nessun autore ha mai applicato tale modello
al mesotelioma o sostenuto che possa essere applicato. Solo gli esperti
dell’accusa sostengono tale estensione della teoria. Peraltro, in tal modo la

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quale era venuto a conoscere, sia pure sulla scorta di segnali perspicui. Fu quindi

sentenza di primo grado ha affermato l’esistenza di una legge scientifica di
copertura valevole per il mesotelioma (l’effetto acceleratore) sulla base di studi
statistici che concernono il diverso tema dell’aumento di incidenza della malattia
in una popolazione. Con il primo ed il terzo motivo di appello si era rimarcato che
nessuno aveva mai affermato l’applicabilità della distribuzione di Weibull
(utilizzato nello studio Berry) al mesotelioma fatta eccezione per i consulenti
dell’accusa, ma sul punto la Corte di Appello ha omesso ogni motivazione e non
ha spiegato in base a quali evidenze, sulla scorta di quale consenso scientifico, si

della loro incidenza seguono quel modello statistico.
Inoltre la Corte di Appello, alla quale pure si era segnalata come motivo di
doglianza la circostanza che il Tribunale avesse citato affermazioni dei consulenti
di accusa che non riflettevano il reale tenore dello studio del Berry – proprio a
riguardo del rapporto tra aumento di incidenza al crescere della dose cumulativa
e tempo di latenza – ha replicato chiamando a sostegno gli studi che si erano
indicati come inidonei a fondare la tesi dell’effetto delle successive esposizioni
sulla latenza.
Per dimostrare l’esistenza di un consenso scientifico sulla tesi dell’effetto
acceleratore la Corte di Appello ha citato il solo Quaderno della Salute n. 15 del
2012; ma il dibattimento ha fatto emergere le particolari modalità con le quali si
era passati da una prima versione della pg. 41 a quella oggetto del riferimento
fatto dai consulenti dell’accusa; la replica data dalla Corte di Appello, di non
credibilità di chi le aveva riferite, il Prof. Pira, non è argomentata.
Si rileva poi che mentre il Tribunale aveva definito quella dell’effetto
acceleratore una legge universale, la Corte di Appello l’ha considerata una legge
statistica. Ebbene l’esame dei casi concreti oggetto del processo non conferma la
teoria, perché all’aumento dell’esposizione corrisponde l’aumento della latenza e
alla diminuzione dell’esposizione una riduzione della latenza. Per gli esponenti ciò
risulta chiaro già dal fatto che la legge di copertura assunta dalla Corte di Appello
è fondata su studi di popolazione non applicabili al singolo, come d’altronde
affermato dallo stesso studio del Berry. La Corte di Appello ha risolto il nodo
affermando che se il singolo lavoratore si ammala dopo rispetto alla media degli
ugualmente esposti ciò non mina la legge causale generale perché si potrebbe
osservare che se l’esposizione fosse stata minore quel lavoratore si sarebbe
ammalato ancora più tardi. Ciò non spiega su basi scientifiche perché la latenza
delle patologie delle singole persone offese abbia subito un accorciamento
determinato dalle esposizioni verificatesi nei singoli periodi di carica degli
imputati.

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può affermare che il mesotelioma rientra tra quelle patologie che nell’andamento

Infine, la Corte di Appello ha omesso di motivare in ordine alle censure
indirizzate alla prima pronuncia per la omessa ed errata valutazione della
qualificazione professionale e indipendenza di giudizio degli esperti dell’accusa
pubblica e privata.
6.2. Il motivo II attiene al giudizio di non necessità di un accertamento della
quantità delle esposizioni ai fini dell’accertamento del nesso causale.
Si premette che durante il processo di primo grado è emerso che
l’esposizione è un concetto quantitativo, nel senso che non basta prendere atto

presente nell’ambiente di lavoro, essendo imprescindibile ricostruire i valori
inquinanti ed il tempo durante il quale la singola persona offesa è entrata in
contatto con il fattore di rischio. Dopo aver ripercorso i principi posti a riguardo
dell’accertamento del nesso causale tra esposizione a sostanze nocive per l’uomo
e patologie tumorali, traendone la conseguenza della necessità di individuare i
valori dell’esposizione concernenti il singolo lavoratore, ci si duole che la
sentenza impugnata abbia omesso qualsiasi accertamento in merito alla effettiva
esposizione dei singoli lavoratori considerati, accontentandosi della prova della
presenza di sostanze tossiche nell’ambiente di lavoro.
In particolare, con riferimento all’esposizione al benzene di Francesco Negri
si rileva che la Corte di Appello ha ritenuto che essa può essere ricavata anche
su base indiziaria (così replicando alla tesi della necessità di una ‘stima
particolaristica’) ed ha rimarcato come nello specifico caso vi fosse una
misurazione dell’esposizione perché gli operatori esterni del reparto 5T3
avevano eseguito campionamenti con dosimetri personali; sicchè, ha concluso la
corte territoriale, il c.t. del P.M. dr. Tieghi non aveva operato una stima bensì
l’attribuzione di esposizione misurata. Ma, rilevano gli esponenti, è sempre la
Corte di Appello ad affermare che il Tieghi aveva fatto ricorso ad una media
aritmetica, giudicata attendibile sulla base di una motivazione che per gli
esponenti è censurabile dal giudice di legittimità. Infatti:
– è stato omesso di esplicare perché è possibile prescindere da una
ricostruzione quantitativa e particolaristica dell’esposizione del Negri;
– è stato omesso di accertare la esposizione quantitativa perché non è
possibile quantificare l’effettiva esposizione del Negri;
– è stato omesso di argomentare in ordine alle censure che i difensori
avevano mosso al modello di stima dell’esposizione elaborato dal Tieghi, sotto il
profilo del suo fondamento scientifico e della sua idoneità ai fini
dell’accertamento dell’esposizione effettiva. Nonostante le difese avessero
dimostrato, avvalendosi della consulenza tecnica del prof. Nano, che i risultati
dell’analisi non possono essere considerati attendibili perché non vi è indicazione

22

della capacità oncogena di una certa sostanza né affermare che essa era

dei dati ambientali utilizzati, perché le stime sono state eseguite anche sulla
base di dati non rappresentativi dell’esposizione e perché i valori tra i reparti
sono stati attributi pur non essendo disponibili misurazioni ambientali, la Corte di
Appello non ha operato il vaglio del metodo utilizzato dal c.t. alla luce della sua
scientificità. E si aggiunge che vi sarebbe una divergenza icto oculi evidente tra
motivazione e dati processuali perché i risultati ai quali conduce il Metodo
utilizzato dal Tieghi sono opposti a quelli recepiti dal giudicante.
In sintesi, la sentenza impugnata ha applicato in modo improprio il metodo

probatorie; e, più in radice, è lo stesso metodo a presentare errori.
Ad avviso degli esponenti la Corte di Appello cade in contraddizione laddove
dapprima afferma che non ha un peso la stima del quantum delle esposizioni
individuali perché non esiste una soglia al di sotto della quale il rischio di
insorgenza di carcinoma polmonare da amianto è nullo, sicchè ogni livello di
esposizione è causalmente efficiente, poi si dilunga nel tentativo di dimostrare
induttivamente l’esistenza di elevati livelli di esposizione all’amianto dei
lavoratori. In tal modo la Corte di Appello ha sovrapposto l’idoneità lesiva, cioè il
rischio astratto che una sostanza possa essere dannosa per l’uomo, con la
causalità giuridica; inoltre ha errato nel ritenere che dalla mera presenza di
amianto si possa risalire all’esposizione. Si ravvisano, nella motivazione,
riferimenti ripetuti alla presenza di amianto, che non valgono a dare risposte al
tema dell’aerodispersione e delle esposizioni individuali. Tanto che la stessa
Corte di Appello afferma che dai materiali “poteva verificarsi la liberazione in aria
di fibre di amianto…” con ammissione della mancanza di certezza anche riguardo
alla mera aerodispersione. Sicchè è illogica la motivazione quando dalla
aerodispersione di fibre ricava l’esposizione non occasionale degli addetti.
Gli esponenti formulano poi una critica al procedimento di accertamento di
dati quantitativi a mezzo di testimonianza (provare una soglia mediante
testimonianze sulle modalità di trattamento dei manufatti in amianto). Si
afferma che nulla può essere detto a riguardo dell’esposizione quantitativa da
una ricostruzione su base testimoniale che sia vaga e non controllabile
scientificamente, perché non identifica le diverse variabili dell’aerodispersione e
dell’esposizione. Gli esponenti asseriscono che anche la giurisprudenza di
legittimità richiede che sia eseguita la verifica dell’esposizione in modo da
determinare la misura dell’effettivo contatto della singola persona che si assume
offesa con una certa concentrazione di sostanza pericolosa durante un certo
periodo di tempo.
Con riferimento al tema del metodo della ricostruzione della esposizione
quantitativa, si afferma che il primo giudice lo aveva eluso ritenendo indifferente

23

proposto dal Tieghi e quindi ha tratto conclusioni smentite dalle risultanze

il livello di esposizione e che la Corte di Appello, evidentemente conscia
dell’errore quanto meno in riferimento al carcinoma, ha affermato che il
Tribunale aveva adottato il metodo a crocetta. Per gli esponenti ciò determina il
vizio motivazionale della sentenza impugnata perché, posto che le due sentenze
si integrano, si chiama un causa un metodo per la quantificazione mentre si
disconosce la necessità della quantificazione; si adotta il metodo a crocetta senza
spiegare su quali basi scientifiche esso si lasci preferire agli altri due utilizzabili (il
metodo Versar e quello utilizzato dal prof. Nano).

rispondere alle censure che si erano mosse al Tribunale a riguardo della operata
preterrnissione di materiali probatori con arbitraria selezione degli stessi,
sfociante nella creazione della legge scientifica utilizzata quale criterio
inferenziale per l’accertamento dei reati in relazione al mesotelioma pleurico.
Si puntualizza tale enunciazione affermando che la Corte di Appello ha
replicato alle critiche che erano state indirizzate alle tesi della monofattorialità
del mesotelioma, del carattere multistadiale della cancerogenesi, dell’esser
l’amianto un cancerogeno completo ma non a quelle che si rivolgevano
all’affermazione del Tribunale che la durata della fase di progressione del
mesoteliorna è pari a dieci anni.
Come già il Tribunale, anche la Corte di Appello si è fatta creatrice di una
legge causale priva di fondamento scientifico, incardinata sulla tesi dell’effetto
acceleratore in ogni periodo di esposizione successivo a quello dell’insorgenza del
processo patologico e sull’assunto che sia possibile quantificare la durata delle
esposizioni causalmente efficienti. Nel giustificare tale affermazione la Corte di
Appello omette di prendere in considerazione le doglianze prospettate nei motivi
di appello o formula repliche illogiche e contraddittorie. Il riconoscimento del
peso determinante della variabilità individuale viene utilizzato per affermare
l’esistenza di una legge che opera secondo cadenze temporali diverse da
soggetto a soggetto in base a fattori ignoti e non verificabili: pertanto non una
legge scientifica sia pure statistica ma un postulato indimostrabile.
In particolare la Corte di Appello non ha risposto al rilievo che poneva in
evidenza come, se risultasse possibile quantificare la fase della progressione come ritenuto dal Tribunale sulla base di un solo consulente – allora sarebbe
individuabile anche la durata della induzione, che per converso è per tutti anche per il Tribunale medesimo – ignota. La corte distrettuale, inoltre, ha
condiviso la tesi del Tribunale della non incidenza delle esposizioni degli ultimi
dieci anni perché nelle coorti esaminate non si sono registrati casi di
mesotelioma in soggetti esposti all’amianto da meno di dieci anni e da ciò ha
ricavato, in termini illogici, che è possibile individuare le esposizioni efficaci.

24

6.3. Con il motivo III si lamenta che la Corte di Appello abbia omesso di

Osservano gli esponenti che l’affermazione di una durata minima dell’esposizione
pari a dieci anni perché possa prodursi la malattia è in contrasto con tutta
l’evidenza epidemiologica, per la quale il mesotelioma può insorgere anche a
seguito di esposizioni di brevissima durata. Insomma, non si può dedurre dalla
esclusione della rilevanza causale delle esposizioni degli ultimi dieci anni che
tutte le esposizioni precedenti all’ultimo decennio sono causalmente efficienti.
I ricorrenti lamentano la mancanza di motivazione sulle critiche dei
consulenti delle difese alle teorie multistadio della cancerogenesi e alla

motivazione è contraddittoria laddove valuta la posizione del Prof. Nicotera a
proposito della teoria multistadio.
La Corte di Appello, dopo aver preso atto che il contrasto tra i consulenti
aveva avuto ad oggetto l’esistenza di evidenze a favore del cd. effetto
acceleratore (e non sulla dose-dipendenza del mesotelioma), ha reso una
motivazione illogica ed apodittica – ovvero priva di concreta giustificazione – per
giustificare l’adozione della tesi dell’effetto acceleratore: il riconoscimento della
dose-dipendenza comporta di per sé l’efficacia causale di tutti i periodi di
esposizione; tale efficacia comporta di per sé l’effetto acceleratore. La Corte di
Appello ha travisato i modelli matematici elaborati da Peto e Boffetta ed ha
ignorato le critiche che i consulenti della difesa aveva rivolto al concetto di dose
cumulativa, indicando come l’incidenza della malattia sia connessa alla dose
media, un fattore al quale è estranea la componente ‘durata’. Osservano gli
esponenti che “l’affermazione della Corte che le formule contenute nei modelli
riconoscerebbero un ruolo a tutte le esposizioni ricevute ha chiaramente implicito
riferimento al concetto di dose cumulativa, ed è quindi destituita di fondamento”.
La tesi contestata dalla Corte, secondo cui la maggiore incidenza non andrebbe
confusa con l’anticipazione, è stata sostenuta da tutti gli esperti e nessuno studio
epidemiologico mostra in maniera convincente una riduzione della latenza per
effetto della maggiore esposizione; la Corte di Appello non ha replicato alle
specifiche argomentazioni portate dagli appellanti a sostegno di tali asserzioni.
Quindi gli esponenti esprimono giudizi in ordine alla valenza dimostrativa della
tesi fatta propria dalla Corte di Appello sulla scorta degli studi di Bianchi et al
2007, di Hansen et al 1998, di Magnani et al 2008, di Barone Adesi et al 2008, di
Berry 2012; ed imputano alla corte territoriale di non aver tenuto conto di
quanto sostenuto dalle difese a proposito della validità dello studio di Frost 2013.
L’affermazione della Corte di Appello, secondo la quale l’esistenza dell’effetto
acceleratore sarebbe stata confermata dal c.t. della difesa Prof. Lotti, laddove ne
ha spiegato le cause, travisa le affermazioni di questi.

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definizione dell’amianto come cancerogeno completo; ed asseriscono che la

La Corte di Appello ha preso atto che si tratterebbe comunque di una legge
statistica; ma ciò nonostante ha eluso l’obbligo di accertare la causalità
individuale affermando di fare ricorso a modelli (Berry 2007) in uso
nell’epidemiologia che tuttavia sono stati elaborati per studiare l’incidenza del
tumore polmonare in una popolazione e non per fornire la spiegazione del
singolo caso; ovvero per accertare il ruolo eziologico di singoli periodi di
esposizione in singoli casi di mesotelioma. D’altronde, la stessa Corte di Appello
riconosce che lo studio di Berry non attiene alla causalità individuale.

quale, anche ad ammettere la validità della legge dell’effetto acceleratore, essa
non troverebbe riscontro nelle latenze riscontrate nei singoli casi di mesotelioma
per cui è processo (le latenze risultavano più lunghe e non più brevi nei casi con
maggiore esposizione cumulativa e maggiore durata), essa ha ritenuto
superabile l’argomento perché il dato evidenziato dalle difese non è stato
registrato per tutti i lavoratori deceduti e perché si può ipotizzare che se
l’esposizione fosse stata minore quello specifico soggetto si sarebbe ammalato
ancora più tardi di quanto non effettivamente avvenuto.
Non si è avveduta, la Corte di Appello, che il tema era quello di verificare
l’affidabilità della legge scientifica; che i fatti contrastavano la teoria; che
l’argomento utilizzato non ha alcuna possibilità di verifica e chiede solo
un’adesione di fede.
Infine, posto che le difese avevano evidenziato le ragioni per cui era assente
la prova degli effetti benefici per il mesotelioma di una riduzione o cessazione
dell’esposizione e come ciò privasse di base scientifica il giudizio contro-fattuale
concernente il comportamento alternativo lecito, la replica della Corte di Appello,
secondo la quale ciò metterebbe sullo stesso piano due processi causali diversi,
non spiega l’affermazione.
6.4. Il motivo IV investe la motivazione resa dalla Corte di Appello a
riguardo delle condotte che, secondo la prospettazione accusatoria, avrebbero
causato i tumori polmonari.
Rammentano gli esponenti che, dissociandosi dall’impostazione seguita dal
Tribunale, la Corte di Appello ha ritenuto che quelle condotte avessero natura
omissiva. Ciò impegnava all’accertamento del nesso causale secondo le cadenze
descritte dalla sentenza Franzese; in particolare, dopo aver individuato una legge
di copertura generale, sarebbe stato necessario accertare la causalità
individuale. Gli esponenti rilevano che, in astratto, tale secondo passaggio può
essere svolto o ricostruendo il meccanismo di produzione del singolo evento
lesivo o dando prova del fatto che possibili fattori alternativi non abbiano operato
nel caso concreto. In concreto, non essendo possibile, allo stato delle conoscenze

26

Quando la Corte di Appello ha inteso farsi carico del rilievo difensivo per il

scientifiche, ricostruire ex post la eziopatogenesi dei tumori, in ragione della non
distinguibilità clinica e anatomo-patologica del tumore a seconda del fattore
causale, è possibile unicamente procedere, per l’attribuzione a questo o a quel
fattore nocivo, all’accertamento che nel caso concreto non abbiano potuto
operare fattori diversi da quello ipotizzato. A tal riguardo, denunciano i ricorrenti,
la Corte di Appello è venuta meno al compito che pure aveva affermato di dover
eseguire, in particolare non impegnandosi ad accertare che nei casi concreti non
avessero avuto un ruolo eziologico i fattori causali alternativi al fumo e

affermazioni arbitrarie anche quanto all’incidenza, nei singoli casi, dell’abitudine
del lavoratore al fumo. E ciò nonostante nella coorte dei lavoratori del
Petrolchimico si fosse registrato un numero di ammalati persino inferiore a quello
atteso.
Nella ulteriore esplicazione delle censure i ricorrenti segnalano i capisaldi
della motivazione sul tema: natura nnultifattoriale del tumore polmonare, natura
di cancerogeno completo dell’amianto, dose-dipendenza del tumore polmonare,
insussistenza di soglie minime di esposizione per l’insorgenza della malattia (e,
al proposito, il valore di 25ff/mm/aa indicherebbe solo la soglia oltre la quale
raddoppia il rischio di contrazione della malattia), relazione sinergica tra amianto
e fumo (di natura quasi moltiplicativa), equivalenza tra aumento del rischio e
anticipazione della malattia.
Orbene, quanto al ruolo della soglia sopra menzionata, la Corte di Appello
ha affermato che il rischio relativo aumenta del 50% a fronte di un’esposizione di
12,5 ff/mm/aa; per gli esponenti, partendo da valori di rischio bassissimi si
adotta la teoria dell’aumento del rischio; inoltre la distanza dalla soglia di
25ff/mm/aa dell’esposizione delle persone offese impedisce di utilizzare la legge
epidemiologica di copertura perché livelli bassi di esposizione possono generare
un aumento del rischio basso e quindi tale da non essere significativo nemmeno
a livello epidemiologico. Tanto più nel caso concreto, in cui i lavoratori del
Petrolchimico venivano colpiti da tumore polmonare meno che la popolazione
generale. Per giungere a diverse conclusioni la Corte di Appello ha operato un
calcolo che, in un range tra un minimo e un massimo, sceglie l’ipotesi peggiore
per l’imputato e che riposa sull’assunzione di un presupposto – che l’esposizione
fosse a 12,5 ff/mm/aa che non è stato provato attraverso stime
scientificamente valide.
Quanto alla relazione sinergica tra amianto e fumo, non solo la Corte di
Appello utilizza il concetto di aumento del rischio ma lo fa a partire da un dato, i
bassi livelli di esposizione all’amianto dei lavoratori del Petrolchimico, che porta a
“ritenere che l’eventuale moltiplicazione tra il rischio relativo correlato

27

all’amianto – fattori di natura ormonale, virale, familiare o genetici – e svolgendo

all’asbesto (vicino a quel punto all’unità) ed il rischio relativo correlato al fumo
non possa mai, per ragioni meramente matematiche, essere superiore a
quest’ultimo”.

Quindi non basta evocare la relazione sinergica ma occorre

conoscere i valori di questa ipotetica moltiplicazione.
Quanto all’effetto acceleratore, che la Corte di Appello afferma sulla base
dello studio Berry 2007, le conclusioni dei giudici di merito manifestano l’erronea
lettura di tale studio, secondo il quale nelle coorti con esposizioni più elevate il
raggiungimento di un determinato valore di incidenza della malattia avviene in

confuso l’anticipazione del momento di raggiungimento del numero di malattie
(anticipazione dell’incidenza numerica) con l’anticipazione della malattia rispetto
al suo decorso in presenza di esposizioni minori.
In sintesi, rimarcano gli esponenti, la Corte di Appello confonde causalità
medico-epidemiologica e causalità giuridica, come dimostrato dal fatto che essa
parla esclusivamente di ‘aumento del rischio’ e passa senza esplicazioni dal
concetto di natura epidemiologica di ‘fattore di rischio’ alla singola malattia
tumorale concreta. Ed è priva di copertura scientifica l’affermazione secondo cui
amianto e fumo, se compresenti, sono necessariamente da ritenersi
giuridicamente concausali; peraltro, la concausalità implica comunque l’ordinario
accertamento del rilievo eziologico del singolo antecedente.
Secondo gli esponenti la Corte di Appello avrebbe dovuto rinvenire una legge
di copertura epidemiologica idonea a coprire già da un punto di vista astratto gli
specifici livelli di esposizione dei singoli lavoratori, ovvero chiedersi se in
presenza di livelli di esposizione non quantificati e molto lontani dalla soglia
stabilita dai criteri di Helsinki esista una legge epidemiologica che individui un
aumento del rischio di contrarre tumori polmonari e con quale coefficiente
probabilistico; senza poter ritenere sufficiente l’inesistenza di una soglia del tutto
priva di rischio perché non è irrilevante il coefficiente probabilistico. Nel caso di
specie non è stato provato che i lavoratori dello stabilimento erano stati esposti a
dosi tali da aumentare il rischio di incidenza della malattia ed anzi la coorte dei
lavoratori presentava un rischio inferiore a quello della popolazione generale.
Gli esponenti ravvisano anche un vuoto motivazionale sul tema della
causalità singolare, nonostante la Corte di Appello avesse potuto fare
riferimento agli indici rappresentati dai criteri di Helsinki, ovvero la storia
lavorativa del soggetto, la sua esposizione all’amianto – ma precisata
numericamente e non stimata come fatto dalla corte territoriale – e l’analisi del
tessuto polmonare.
Ad avviso degli esponenti non è stata adeguatamente motivata la esclusione
di una possibile causa del tumore polmonare alternativa all’amianto, che si

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tempi anticipati rispetto a coorti meno esposte; per contro la Corte di Appello ha

indica specificamente per il Bonfante, il Campo ed il Franzoni nella familiarietà
con patologie oncologiche. Si lamenta poi che non sia stata pronunciata
assoluzione nel merito per gli omicidi in danno del Benedini, del Gandolfi, del
Rovasta e del Vellani, nonostante la presenza di possibili causali alternative.
6.5. Il motivo V espone il vizio di motivazione, anche nella forma del
travisamento della prova, in ordine alla esposizione ad amianto del Bonfante, del
Campo e del Franzoni. La Corte di Appello ha ritenuto che essa vi fosse stata,
rigettando il rilievo difensivo che faceva riferimento all’accertamento avvenuto

accertamento non rispecchiasse la situazione esistente nel periodo di rilievo. Gli
esponenti contestano tale affermazione asserendo che la Corte di Appello ha
travisato le emergenze processuali, ha illogicamente ritenuto che gli estrusori
residui fossero diversi da quelli rimossi e non ha tenuto contro del fatto che
l’amianto presente su tali estrusori era protetto da un carter, come emergente
dalla relazione dell’Asl di Mantova. La corte distrettuale ha ignorato le
testimonianze Zaniboni e Codognola, concernenti l’effettiva condizione lavorativa
del Bonfante. Con riferimento all’esposizione del Campo, gli esponenti
asseriscono che questi era stato esposto nel reparto CS con coibentazioni non in
amianto, presente in loco, in stato di ammaloramento, in quantità modesta.
Mentre è in contraddizione con altra affermazione della corte quella che indica
anche il Beduschi tra coloro che lavorarono presso il reparto CS.
Con riferimento all’esposizione individuale del Franzoni gli esponenti
ravvisano la totale assenza di prove.
6.6. Il motivo VI denuncia violazione degli artt. 40 e 41 cod. pen. e vizio
della motivazione in relazione alle morti correlate all’esposizione al benzene.
Nonostante la sentenza di primo grado fosse stata censurata sul punto della
mancata esclusione dell’operatività di fattori diversi dal benzene, indicati dal
Tribunale medesimo nella ereditarietà, nelle anomalie cromosomiche, nelle
sindromi mielodispastiche, nelle radiazioni, nel fumo, nell’assunzione di taluni
farmaci e nei virus, la Corte di Appello ha affermato che era non contestato che
la leucemia mieloíde sia malattia causata dal benzene, senza trattare dei possibili
agenti alternativi.
Si assume che le evidenze epidemiologiche assegnano valenza causale al
benzene solo al di sopra di una certa dose cumulativa sicché la Corte di Appello
si è fatta creatrice della legge scientifica utilizzando una legge fondata su
semplici stime in ordine a possibili aumenti di rischio. Per il profilo della
causalità singolare si sostiene che la prova della non operatività di altri fattori
non è stata data e non poteva essere data perché non sono note tutte le possibili

29

nel 2001 della presenza di amianto su due estrusori su nove, ritenendo che tale

cause della malattia; e comunque la motivazione è “mancante e illogica” con
riferimento all’esclusione del fumo quale causa della malattia.
Riportato in un paragrafo che viene intitolato ‘la causalità generale’, viene
sviluppato il rilievo critico che imputa alla corte territoriale di aver illogicamente
ritenuto dapprima che ai fini della identificazione della soglia di idoneità lesiva
del benzene occorreva far riferimento agli studi eseguiti su popolazioni esposte a
livelli analoghi a quelli dei lavoratori dello stabilimento di Mantova (quindi
petrolchimici) e poi non ha preso in considerazione tutte le evidenze probatorie

lavoratori dell’industria del petrolio che indica l’assenza di eccesso di rischio in
tali lavoratori; dato che risulta corroborato dai risultati dello studio
epidemiologico sulla coorte dei lavoratori di Mantova.
La Corte di Appello non ha replicato alle critiche rivolte allo studio
Vlaanderen et al. 2010 perché si rifà alla motivazione resa dal Tribunale, in
realtà silente sul punto. Gli esponenti illustrano tali critiche. Essi contestano la
replica data dalla Corte di Appello al fatto che i c.t. della difesa avevano indicato
la soglia di 40 ppm/aa/; e l’essersi la corte fondata sulle conclusioni del solo
consulente tecnico Dragani, che pure aveva disatteso quando questi aveva
erroneamente ricostruito lo stato delle conoscenze in merito alle patologie che
possono essere causate dal benzene.
A riguardo della causalità individuale, poi, gli esponenti lamentano
nuovamente che non sia stata operata la rigorosa esclusione di tutti i fattori
causali alternativi. La Corte di Appello ha escluso la rilevanza del fumo per la
malattia del Negri nonostante l’idoneità lesiva del benzene sia stata dimostrata
solo per dosi elevate, non ricorrenti per tale lavoratore; e non può dirsi modesta
l’abitudine al fumo con un consumo di 15-20 sigarette pro-die.
6.7. Il motivo VII attiene alla violazione degli artt. 43, co. 3 cod. pen., 20 e
21 d.p.r. n. 303/56 e al vizio della motivazione.
Dopo aver svolto più generali critiche all’approccio utilizzato dalla Corte di
Appello al tema della colpa, gli esponenti contestano l’opzione ermeneutica fatta
propria dai giudici per cui le norme antinfortunistiche che fanno obbligo al datore
di lavoro d’approntare ogni misura utile ad impedire o ridurre al minimo
l’inalazione di polveri non sarebbero da leggersi come dirette ad evitare che i
lavoratori subiscano il fastidio di un ambiente di lavoro più polveroso ma
l’inalazione di corpuscoli frammisti all’aria forieri di patologie tumorali. E ciò
perché si tratterebbe di una correlazione causale accertata solo decine di anni
dopo l’entrata in vigore del d.p.r. n. 303/56; né basterebbe la consapevolezza al
tempo della generica pericolosità dell’amianto. Anche l’esistenza di valori soglia
sta ad indicare che l’agente modello dell’epoca non potesse affatto

3

che risultavano di conseguenza pertinenti, come l’insieme degli studi sui

rappresentarsi la pericolosità dell’amianto a concentrazioni che si ponessero
sotto soglia. Se quei valori soglia rappresentano dei segnali di allarme, come
ritenuto dal Tribunale, allora non può logicamente affermarsi che essi non
assumono rilevanza in termini di prevedibilità dell’evento, come fatto dalla Corte
di Appello, perché poteva sorgere il legittimo affidamento sull’innocuità delle
esposizioni sotto soglia. L’argomento della Corte di Appello, per il quale non è
stato dimostrato che gli imputati avessero osservato i valori limite, ritenendo di
non dover fare altro, per gli esponenti implica un’inversione dell’onere della

Nonostante l’assenza di prova sul punto, la Corte di Appello ha ritenuto che
le concentrazioni avrebbero potuto essere ridotte ulteriormente; in ciò per gli
esponenti una illogicità, perché si pretende di ricavare da un dato ignoto due dati
ritenuti certi, la possibilità tecnica di abbattimento delle polluzioni e il
superamento dei limiti. Anche con riferimento al benzene la Corte di Appello non
affronta il nodo della idoneità dei valori limite a fondare il ragionevole
affidamento di poter efficacemente tutelare la salute nei luoghi di lavoro
rispettandoli. Essa muove dall’implicita premessa che ci si sarebbe dovuto
spingere sino all’azzeramento totale delle esposizioni.
Tornando sul tema della conoscenza della cancerogenicità dell’amianto, gli
esponenti convengono con la Corte di Appello che i primi studi che la indicavano
risalgono al 1960, ma rilevano che non basta uno studio isolato a determinare lo
standard di conoscenza dell’agente modello, considerato il tempo in cui una
segnalazione diviene acquisizione della comunità scientifica. Ma anche a ritenere
che all’epoca fosse stata acquisita la cancerogenicità dell’amianto, si dovrebbe
ancora accertare se le conoscenze consentivano di individuare a quali limiti
potesse insorgere il mesotelioma. La replica che la Corte di Appello ha reso alle
censure descritte è apodittica e si richiama a osservazioni del Tribunale che
tuttavia non si rinvengono. E che sia stato fatto notorio la cancerogenicità
dell’amianto è escluso da una recente sentenza del Tribunale di Torino.
Anche in relazione alla prevedibilità della cancerogenicità del benzene si
critica la motivazione resa dalla Corte di Appello.
Muovendosi nell’orizzonte delle evitabilità in concreto degli eventi, gli
esponenti rammentano che la Corte di Appello ha ritenuto le condotte di natura
omissiva ma poi, equivocando i principi ai quali pure si era richiamata (espressi
da SU n. 38343/2014), ha sostenuto che il criterio della causalità della colpa non
è quello della ragionevole certezza ma quello dell’apprezzabile probabilità di
successo. Ma tale criterio, affermano gli esponenti, era stato dalle SU riferito alla
causalità commissiva. Ne deriva che l’evitabilità dell’evento non è stato accertata
come imposto dalla giurisprudenza di legittimità ma è stata tratta dal fatto “che

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prova, perché è il p.m. che deve dimostrare che essi vennero superati.

le norme caute/ari contestate come violate avrebbero avuto la finalità di
prevenire eventi del tipo di quelli poi verificatisi”; si è confusa la concretizzazione
del rischio con il giudizio di evitabilità. Si osserva ancora che è mancante la
motivazione che esplichi l’avvenuto accertamento della evitabilità di ciascuno
evento da parte di ciascuno degli imputati ai quali esso è stato attribuito. Si
lamenta che sia stato omesso di verificare se i mezzi di protezione collettivi ed
individuali ritenuti omessi sarebbero stati effettivamente in grado di evitare con
certezza la verificazione degli eventi dannosi, con giudizio personalizzato su

6.8. Con il motivo VIII si deduce violazione dell’art. 437 cod. pen. e vizio
della motivazione in relazione alla ritenuta esposizione dei lavoratori a stirene,
acrilonitrile e dicloroetano. Dopo aver dissentito dalla Corte di Appello che ha
ritenuto non contestata dalla difesa la sussistenza dell’omissione delle cautele
descritte nell’imputazione, gli esponenti esprimono l’assunto di fondo secondo il
quale, essendo stato acclarato lo stato di incertezza scientifica in merito alla
cancerogenicità di quelle sostanze, non può ritenersi la tipicità della omissione di
cautele, perché di queste non può dirsi che fossero dirette ad evitare disastri o
infortuni, mancando la prova della loro efficienza preventiva. Di qui i vizi
denunciati, per l’erronea interpretazione data dalla Corte di Appello all’art. 437
cod. pen. e per aver affermato che è sufficiente che le cautele fossero dirette ad
impedire l’emissione delle sostanze in quanto pericolose per la salute dell’uomo.
In secondo luogo, con riferimento alle cautele dirette a prevenire malattie da
esposizione al benzene, gli esponenti ripropongono l’enunciazione dei vizi sopra
indicati, rilevando che diversamente da quanto ritenuto dalla Corte di Appello,
con il quinto motivo di appello si era contestata anche la materialità delle
omissioni ascritte, tanto sotto il profilo della atipicità di talune di esse, non
concernenti impianti, apparecchi o segnali, che sotto il profilo della sussistenza
stessa delle omissioni; su tali contestazioni la Corte di Appello non ha reso
motivazione, se non affermando di condividere quanto ritenuto dal Tribunale.
In terzo luogo si lamenta la violazione degli artt. 129, 597 cod. proc. pen. e
437 cod. pen. ed il vizio motivazionale. Secondo gli esponenti la Corte di Appello
ha operato una indebita

reformatio in peius,

modificando la pronuncia di

assoluzione degli imputati dal reato di cui all’art. 437 cod. pen., in relazione al
rischio da esposizione a stirene, acrilonitrile e dicloroetano nonché a benzene, in
declaratoria di improcedibilità per essere estinto il reato per prescrizione, senza
che la statuizione fosse stata oggetto di specifica censura da parte del P.M., del
P.G. o delle parti civili Syndial e Versalis.
In ogni caso non vi è motivazione che espliciti le ragioni per le quali è stato
ritenuto che la fattispecie sia integrata anche sul piano soggettivo.

32

ciascun imputato.

Dopo aver sostenuto che la Corte di Appello è incorsa in una lettura della
sentenza di primo grado “priva di reale consistenza e frutto di una lettura
alquanto superficiale della stessa” gli esponenti argomentano a sostegno della
tesi esposta dal Tribunale, della necessità, ai fini dell’integrazione del dolo del
delitto in parola, della consapevolezza che l’impianto, l’apparecchio o il segnale
sia diretto a prevenire il verificarsi di specifici eventi (infortuni o disastri).
Si afferma, poi, che la Corte di Appello non avrebbe dovuto limitarsi ad
affermare l’insussistenza della prova evidente dell’innocenza degli imputati ma,

dovuto motivare il proprio difforme convincimento in ordine alla totalità dei profili
evidenziati sia nella pronuncia di primo grado che negli atti di impugnazione; si
cita a sostegno Cass. n. 37592/2013.
6.9. Con il motivo IX si deduce la violazione dell’art. 133 cod. pen. La stessa
Corte di Appello ha dato conto della sussistenza di ‘criteri legali’ che, giusta la
disposizione dell’art. 133 cod. pen., avrebbero imposto una comminatoria penale
strettamente attestata sui minimi edittali; mentre l’essersi essa discostata da tali
minimi avrebbe imposto una motivazione rafforzata.
6.10. Con il motivo X si denuncia in primo luogo il vizio della motivazione
dell’ordinanza emessa dal Tribunale di Mantova il 15.2.2011, con la quale è stata
respinta la richiesta di esclusione delle parti civili Syndial Attività Diversificate
s.p.a., Polimeri Europa s.p.a. (ora Versalis S.p.a.), Comune di Mantova,
Provincia di Mantova, Regione Lombardia e Medicina Democratica.
Per la Corte di Appello il motivo di appello che concerneva l’ordinanza
indicata difettava di specificità e sarebbe stato meramente reiterativo. Gli
esponenti contestano tale giudizio e rilevano che il prospettato difetto di
legittimazione della Syndial derivava dall’esistenza di una transazione novativa
tra Eni s.p.a.- Enichem s.p.a. ed Edison s.p.a. con la quale il 6.3.2003 era stato
definito il rapporto tra le parti (di Eni la Syndial è divenuta successore universale
per il Petrolchimico di Mantova), con riferimento al “danno da adeguamento degli
impianti e al danno da operazioni di rimozione e bonifica di manufatti contenenti
amianto”. Il giudizio della Corte di Appello secondo il quale nell’atto di
transazione non sarebbero stati ricompresi i danni conseguenti alle violazioni
antinfortunistiche perché non prevedibili al momento del contratto viene
contestato dagli esponenti, i quali evocano il vizio motivazionale perché in diversi
passaggi argomentativi le risultanze dell’istruttoria dibattimentale (ovvero il
contenuto dell’atto di transazione) vengono travisate, giacché il contratto
prevedeva la rinuncia di Eni “in generale ad ogni pretesa”, con la sola eccezione
del danno ambientale dipendente dagli scarichi idrici nel fiume Mincio; quindi
ogni pretesa, anche quelle derivanti da responsabilità extracontrattuale. D’altro

33

intendendo procedere alla riforma di una sentenza di assoluzione, avrebbe

canto, si osserva, la circostanza che gli impianti e le dotazioni dello stabilimento
di Mantova siano stati ritenuti non conformi a quanto pattuito è il presupposto
stesso e l’oggetto dell’arbitrato sfociato nella transazione. Gli esponenti
ritengono che la Corte di Appello – affermando che si tratterebbe di un danno già
escluso in primo grado – abbia omesso la motivazione nonostante gli specifici
elementi dedotti con l’atto di appello, a riguardo della carenza di legittimazione
della Syndial rispetto al danno conseguente ai costi sostenuti per rimuovere e
bonificare i manufatti contenenti amianto.

non ha mai presentato richiesta di risarcimento di eventuali danni causati dalla
morte delle persone offese e pur avendo rammentato la perquisizione operata il
5.4.2001 presso la Enichem ha contraddittoriamente affermato che Syndial non
poteva sapere delle cause e delle dimensioni degli accadimenti all’atto della
transazione.
Inoltre Syndial sin dal 1.1.2002 si era spogliata degli impianti cedendoli a
Polimeri Europa s.p.a.; sicchè va escluso che potesse vantare un danno
all’immagine conseguente all’esposizione mediatica verificatasi a seguito
dell’inizio della vicenda penale.
Quanto alla legittimazione della Polimeri Europa s.p.a., gli esponenti
criticano nuovamente l’affermazione della Corte di Appello della imprevedibilità
degli eventi, questa volta in relazione alla clausola contenuta nell’atto di
conferimento dello stabilimento di Mantova da Enichern a Polimeri E. s.p.a., con
la quale era stato stabilito che tutte le controversie ed i loro effetti connessi a
fatti pregressi al 1.1.2002 sarebbero rimasti a carico di Enichem. La critica
investe il significato attribuito alla previsione contrattuale immediatamente
precedente la menzionata clausola, del subentro di P.E. s.p.a. ad Enichem “nel
modo più ampio e generale … in tutti i diritti … e rapporti attivi e passivi relativi
od inerenti al ramo di azienda conferito”. Inoltre, lamentano la omessa replica ai
rilievi posti con l’atto di appello.
In relazione alla ritenuta legittimazione degli enti territoriali, i ricorrenti
assumono che la motivazione della Corte di Appello non risponde ai rilievi mossi
dagli appellanti e si limita a riproporre le argomentazioni del Tribunale,
nonostante esse fossero state censurate specificamente. In particolare, quella
che indicava, sulla scorta del d.lgs. n. 152/2006 e della giurisprudenza di
legittimità, il Ministero dell’ambiente come il solo soggetto legittimato alla
richiesta risarcitoria per danno ambientale. Non si condivide, al riguardo,
l’assunto del Comune di Mantova secondo il quale occorrerebbe guardare
piuttosto alla legge 349/1986 perché le condotte ed i danni si sarebbero avuti
prima dell’entrata in vigore del d.lgs. 152/2006. In ogni caso quella legge

34

Quanto al danno morale, la Corte di Appello non ha considerato che Syndial

individua comunque nello Stato il soggetto titolare del diritto al risarcimento,
attribuendo agli enti territoriali minori il ruolo di interventori ad adiuvandum, che
possono fornire la prova del danno patito sul proprio territorio.
A riguardo dei danni ulteriori, diversi da quelli derivanti dalla lesione
all’ambiente, gli esponenti lamentano di non essere stato esplicato dalle parti
civili negli atti di costituzione perché i costi delle attività indicate (costituzione del
servizio ambiente del Comune e conclusione di protocolli di intesa) sarebbero
conseguenza diretta dei fatti di reato contestati. Generica è l’indicazione fatta

vantato e delle condotte che sarebbero conseguite alla necessità di apprestare
tutela ai beni individuali e/o alla sicurezza dei luoghi di lavoro a fronte della
presenza dello stabilimento.
Non condivisa è poi la replica offerta dalla Corte di Appello alla censura che
investiva la costituzione di parte civile della Regione Lombardia, per la quale si
rilevava che solo nel 2001 era stata prevista la competenza diretta in materia di
tutela del diritto alla salute o di tutela della salubrità degli ambienti di lavoro,
mentre risaliva al 1992 e al 1999 il conferimento delle competenze
amministrative regionali nella gestione del Servizio Sanitario Nazionale.
Gli esponenti rammentano che a proposito della costituzione di Medicina
difensiva era stata evidenziata criticamente l’assenza di qualsiasi collegamento
tra l’attività dell’ente ed il territorio mantovano. La Corte di Appello non ha
motivato sul punto.
6.11. Il motivo XI concerne la condanna generica pronunciata a favore di
Polimeri Europa s.p.a. per il patito danno non patrimoniale da lesione
all’immagine; rilevano gli esponenti che la Corte di Appello non ha replicato alla
censura che segnalava trattarsi di danno da processo e non di danno da reato.
La corte distrettuale ha anche taciuto sulla contestazione del diritto della Polimeri
a ottenere il risarcimento di danni anteriori al 1.1.2002, in ragione della già
rammentata clausola dell’atto di conferimento dello stabilimento. Per quelli
prodottisi nel tempo successivo si ravvisa una derivazione dalla errata
informazione resa dagli organi di stampa e quindi si esclude che trattasi di danno
diretto ed immediato conseguente al reato.
Quanto alla Syndial, il richiamo adesivo fatto dalla Corte di Appello alla
motivazione del Tribunale implica che la sentenza impugnata presenta le
medesime lacune motivazionali proprie della pronuncia di primo grado in punto
di riconoscimento del danno non patrimoniale all’immagine.
A riguardo della condanna generica a favore della Regione Lombardia gli
appellanti avevano censurato che il presunto danno patrimoniale fosse
individuabile nel costo delle prestazioni sanitarie erogate a seguito dell’attività

35

dalle parti civili dei parametri sui quali basare la titolarità del bene giuridico

illecita perché non in rapporto causale immediato e diretto con il reato. Inoltre,
non è all’evento morte che possono ricollegarsi i costi sostenuti dal SSN per la
cura delle patologie. Sul punto non si rinviene motivazione.
Per i Comuni di Mantova e la Provincia di Mantova si censura la mancata
dimostrazione di un danno risarcibile, non essendo sufficiente alla prova la mera
indicazione dei compiti elencati nei rispettivi statuti.
In relazione a Medicina Democratica, la affermata presunzione di danno
conseguente alla frustrazione delle finalità dell’ente richiede che l’associazione in

bene collettivo oggetto di lesione. Nel caso di specie l’istruttoria non ha dato
prova di un qualche collegamento tra l’attività dell’ente e il territorio mantovano
nel periodo in contestazione. Su tali rilievi non vi è stata motivazione.
6.12. Il motivo XII muove dalla asserita nullità del decreto che dispone il
giudizio per indeterminatezza e genericità della contestazione, per poi elevare
censura di violazione dell’art. 429 co. 1 lett. c) e co. 2 cod. proc. pen. e di vizio
della motivazione, in relazione alla replica offerta dalla Corte di Appello alla
rinnovata eccezione. A sostegno si rappresenta che il capo di imputazione
rinviava alla consulenza tecnica Mara-Carrara, manifestando di non essere
autosufficiente ed auto esplicativo; menzionava genericamente sostanze, polveri,
solventi chimici, sostanze inquinanti, sostanze manipolate, sostanze tossiche,
nocive, pericolose senza indicarne la qualità, la tipologia o la quantità, i
parametri della tossicità, della nocività, della pericolosità; parlava di impianti,
senza altra specificazione; di altri monomeri residui senza indicare quali fossero;
riproduceva le definizioni di legge senza alcuna specificazione che le
concretizzasse; faceva riferimento generico alle condotte tenute dagli imputati
nei periodi di rispettiva competenza, senza indicare quali elementi di quali
impianti fossero soggetti al deterioramento che una adeguata attività di
manutenzione e di conservazione avrebbe evitato.
Si sostiene che la Corte di Appello ha replicato limitandosi ad aderire
all’argomentazione e al giudizio del primo giudice, senza spiegare perché ha
ritenuto inconferente che nel corso del procedimento si fosse avuta la modifica
della contestazione ex art. 516 cod. proc. pen., evenienza che chiaramente
dimostra la genericità e l’indeterminatezza dell’originario capo di imputazione.
Si conclude che a tutt’oggi gli imputati non sono stati in grado di difendersi,
di conoscere quali omissioni abbiano compiuto e quali azioni avrebbero dovuto
compiere, come dimostra anche la affermazione della Corte di Appello di una
condotta illecita di natura omissiva, in disaccordo con il Tribunale.
6.13. Con il motivo XIII gli esponenti lamentano la violazione della legge
processuale e la mancata assunzione di una prova decisiva, nonché il vizio della

36

questione sia riconosciuta quale ente esponenziale della comunità in cui trovasi il

motivazione, in relazione alla richiesta rivolta al Tribunale e poi alla Corte di
Appello di emettere ordine di esibizione, o in subordine di sequestro di
documentazione attinente agli interventi sugli impianti e alle procedure di
lavorazione avutesi tra il 1970 ed il 1989 presso lo stabilimento di Mantova,
nonché di acquisizione di taluni documenti, parte attinenti allo stabilimento
Enichem di Brindisi, parte consistenti nei verbali di deposizione rese nell’ambito
del processo celebrato dinanzi al Tribunale di Venezia e definito da questo con
sentenza del 22.10.2001; ed altresì del documento denominato ‘Comunicato del

indicato come ‘riunione sulla sicurezza con v. direttori reso. Mandati, capigruppo
e tecnici PAS delle unità Dimp’. Il vizio di motivazione viene ravvisato perché la
Corte di Appello si è limitata a rifarsi all’ordinanza di rigetto emessa il 13.4.2011
dal Tribunale, senza farsi carico dei rilievi che a questa erano stati mossi dagli
appellanti; mentre la violazione di legge sussisterebbe in quanto dalla decisione
dei giudici è derivata la lesione del diritto di difesa degli imputati. In particolare
gli esponenti contestano l’assunto secondo il quale l’attività richiesta all’ufficio
sarebbe stata quella di ricerca della documentazione avente valore di prova,
preclusa al giudice del dibattimento.
Quanto al provvedimento ammissivo della deposizione del prof. Tiziano
Barbui quale prova a discarico richiesta dal P.M., gli esponenti avanzano una
censura fondata sulla negazione di quel carattere, poiché il tema dell’eziologia
delle patologie tumorali sul quale era stato chiamato il Barbui era centrale sin
dalle origini del procedimento. Censurano che la Corte di Appello abbia ritenuto
motivata – e quindi non nulla – l’ordinanza emessa dal Tribunale il 27.4.2011
perché non può dirsi tale un provvedimento che non tenga conto dei rilievi
avanzati dalla parte; e che non si sia attivata per la rinnovazione dell’istruttoria
dibattimentale di ufficio in alternativa alla pronuncia della inutilizzabilità delle
prove.
Concludono asserendo che la nullità delle ordinanze, determinata dalle
violazioni evidenziate, ha quale effetto l’illegittimità dell’acquisizione della prova
(di quella in relazione alla quale è stato impedito l’effettivo esercizio del diritto
alla controprova) e quindi l’inutilizzabilità della stessa ai sensi dell’art. 191 cod.
proc. pen.
6.14. Il motivo XIV attiene alla violazione della legge processuale e al vizio
della motivazione in relazione alla decisione sulla prospettata incompatibilità del
ruolo di consulente tecnico del P.M. e di ausiliario del P.M. con quello di
testimone, riferita alla persona del dr. Ricci, con i conseguenti effetti in ordine
alla nullità della nomina a c.t. e all’inutilizzabilità degli accertamenti compiuti.
Riproponendo l’interpretazione degli artt. 233, 225 e 222 cod. proc. pen. ritenuta

37

Consiglio di Fabbrica del Petrolchimico di Porto Marghera’ nonché del documento

corretta, gli esponenti affermano che vi è ontologica incompatibilità tra ruolo di
testimone e quello di c.t., e quindi doveva dichiararsi la nullità, ai sensi del
combinato disposto agli artt. 222 e 225 cod. proc. pen., della nomina a c.t. del
Ricci, che era stato indicato nella lista del P.M. come testimone ed era stato
anche nominato consulente tecnico di questi; con derivata inutilizzabilità della
consulenza tecnica.
In disaccordo con la Corte di Appello gli esponenti asseriscono che
l’applicabilità dell’art. 222, co. 1 lett. d) cod. proc. pen. alla nomina del c.t. non è

letterale, fondato sul rinvio espresso operato dall’art. 225, co. 3 cod. proc. pen.;
non condividono la tesi della Corte di Appello secondo la quale il divieto posto
dall’art. 225, co. 1 cod. proc. pen. vale solo per il caso che sia stata disposta
perizia, trattandosi nella specie non di nomina effettuata ai sensi dell’art. 359
cod. proc. pen. ma di nomina in corso di giudizio. A conforto delle proprie tesi gli
esponenti citano Cass. sez. 3, 26.11.2001, n. 4526.
Sotto diverso e complementare profilo gli esponenti rilevano che il dr. Ricci
era stato già nominato ausiliario del P.M. durante le indagini preliminari e che
quindi, in forza dell’art. 197 cod. proc. pen., non avrebbe potuto assumere la
veste di testimone nel processo. La Corte di Appello ha rigettato il rilievo
affermando che il Ricci non aveva assunto la qualità di ausiliario, sulla premessa
che tale nozione indica il personale di cancelleria e di segreteria, peraltro
fondando la propria argomentazione sul codice di rito del 1930; gli esponenti
dissentono su tale punto, rilevando che il Ricci aveva eseguito anche degli
accessi quale ufficiale di p.g.; citano l’indicazione fatta nella lista testimoniale
delle circostanze sul quale l’accusa pubblica aveva chiamato a deporre il Ricci
come conferma della propria tesi; asseriscono che il codice vigente lascia
ricomprendere nella nozione di ausiliario anche l’ufficiale di p.g. delegato dal P.M.
Infine, sul punto, viene denunciata la violazione dell’art. 149 cod. proc. pen.
per aver il Ricci partecipato ad udienze di esame dei consulenti prima di rendere
testimonianza.
6.15. Con il motivo XV si denuncia la violazione di norma processuale e il
vizio della motivazione in relazione al rigetto dell’eccezione di inammissibilità o
nullità della modifica dell’imputazione operata dal P.M. il 19.6.2012.
La motivazione resa dalla Corte di Appello non affronta la specifica doglianza
di nullità sollevata con riferimento alla violazione dell’art. 178 lett. c) cod. proc.
pen. e 429, co. 1 lett. c) e co. 2 cod. proc. pen.
Con specifico riguardo alle nuove contestazioni, gli esponenti rinvengono
motivo di censura nella asserita assenza di un nesso di derivazione delle stesse
dagli sviluppi dell’istruttoria dibattimentale, dalla quale assenza deriverebbe

38 ,

frutto di interpretazione analogica ma esito cui conduce l’interpretazione

l’obbligo del p.m. di indicare le fonti di prova e i fatti cui si riferiva, non potendo
valere il principio – posto da Cass. sez. 2, n. 24329/2006 – per il quale le fonti di
prova ed i fatti sono ricavabili dagli atti contenuti nel fascicolo del p.m. e
disponibili alle parti. Da ciò si ritiene derivi una nullità ai sensi dell’art. 178, lett.
c) cod. proc. pen.
A ritenere possibile la contestazione fondata esclusivamente sul materiale di
indagine (secondo le indicazioni che si ritengono date dalle Sezioni Unite in
causa Barbagallo), allora le nuove contestazioni dovevano ritenersi inammissibili

Formulando poi la tesi di una contestazione che non trovava causa né nelle
acquisizioni predibattimentali, né in quelle dibattimentali, gli esponenti
asseriscono che si tratta di ipotesi inedita, non prevista dalla legge e che viola
l’art. 178, lett. b) e c) cod. proc. pen.
Quanto all’intervento sulla contestazione del delitto di cui all’art. 437 cod.
pen., gli esponenti asseriscono che si è trattato della contestazione di reati
concorrenti, per i quali è prevista l’udienza preliminare, per essi mancata, sì che
si sarebbe dovuto disporre la trasmissione degli atti al p.m.
Infine si censura la genericità, la mancanza di chiarezza e di precisione delle
nuove contestazioni.
Siffatti rilievi, la cui trattazione da parte del Tribunale non ha soddisfatto gli
esponenti, riproposti con l’atto di appello, ad avviso degli stessi non hanno
trovato replica nella sentenza impugnata.
6.16. Il motivo XVI denuncia violazione della legge processuale e della legge
penale nonché vizio della motivazione, in relazione alla statuizione assunta in
ordine alla legittimità della nomina del dr. Piergiacomo Betta quale perito del
Tribunale.
Gli esponenti rammentano che la nomina del perito avvenne prima che
emergessero quelle lacune tecniche e/o scientifiche della fase istruttoria del
giudizio che, a loro avviso, rappresentano il presupposto della perizia, secondo la
previsione dell’art. 220 cod. proc. pen. Di qui la denuncia della violazione dell’art.
507 cod. proc. pen., che richiede l’assoluta necessità della perizia perché essa
venga disposta; da tale premessa si fa derivare la violazione del diritto di difesa
“concretizzatosi nella preclusione, a priori, della possibilità di apportare un
contributo significativo all’istruttoria dibattimentale”.
Ulteriori violazioni vengono ravvisate in riferimento agli artt. 111 Cost., sotto
il profilo della ragionevole durata del processo, e 508 cod. proc. pen.
Si contesta quindi l’assunto della Corte di Appello della insussistenza di
nullità, replicando ad essa che risulta violato il diritto di difesa,

“concretizzatosi

nella preclusione per la difesa della possibilità di apportare un contributo

39

perché fatte dopo l’apertura del dibattimento.

significativo all’istruttoria dibattimentale, nell’inosservanza dei principi della
centralità delle parti, dell’iniziativa di parte nel processo e della terzietà del
Giudice nonché in una indebita dilatazione dei tempi processuali”. Con ulteriore
passaggio, si deriva da ciò l’illegittimità della prova acquisita ai sensi dell’art. 191
cod. proc. pen. e quindi la sua inutilizzabilità.
Mentre il vizio della motivazione viene ravvisato nel fatto che la Corte di
Appello non spiega perché si sarebbe in presenza di mere irregolarità
procedimentali.

Cassazione. Note di replica ai motivi di ricorso del Procuratore Generale in tema
di prescrizione dei reati”.
Il primo motivo nuovo attiene alla spiegazione causale del mesotelioma. In
primo luogo gli esponenti rimarcano come la Corte di Appello abbia ritenuto che
la legge dell’effetto acceleratore sia di natura statistica in disaccordo con il primo
giudice, senza tuttavia spiegare le ragioni del diverso giudizio; tanto non permtte
di verificare la correttezza dell’affermazione dell’esistenza del nesso causale in
relazione ai casi di mesotelioma.
In secondo luogo osservano che, assunta come legge statistica, essa
avrebbe determinato la necessità di accertare che la probabilità di ammalarsi si
fosse verificata nei singoli casi sottoposti a giudizio. Sul punto la motivazione
resa dalla Corte di Appello è apparente; ed è contraddetta dal fatto che per le
parti offese nel presente giudizio si registra un rapporto di proporzionalità diretta
e non inversa tra durata dell’esposizione e durata della latenza.
Con riferimento alla valutazione operata dalla Corte di Appello del Quaderno
del Ministero della Salute n. 15, i ricorrenti ribadiscono che essa ha omesso di
considerare il sostrato dello studio, la discussione critica che l’ha preceduto, di
indagare le modalità della modifica intervenuta dopo circa un anno.
Rappresentando che il prof. Pira ha potuto avere copia dei verbali di due sedute
della I Sezione del Consiglio di Sanità solo a seguito di decisione del Tar Lazio del
13.12.2016, gli esponenti danno indicazione del contenuto del verbale del
23.4.2013 e del 3.5.2013 per ricavare che la genesi della modifica dimostra che
sarebbe stato necessario accertare quale fosse stato il dibattito scientifico che
aveva preceduto la formulazione di pg. 41 del menzionato Quaderno, nella sua
seconda versione.
Ulteriori osservazioni vengono formulate a riguardo della teoria
dell’anticipazione dell’evento. In primo luogo si distingue tra anticipazione
dell’evento morte una volta contratta la malattia dall’anticipazione del
sopraggiungere della malattia, sostenendo che va quindi tenuta distinta la
questione dell’anticipazione dell’evento dal cd. effetto acceleratore. Quindi si

40

6.17. Il 27.10.2017 i difensori hanno depositato “Motivi nuovi di ricorso per

ribadiscono le considerazioni già fatte in merito alla portata che può
correttamente assegnarsi allo studio Berry 2007 (dimostra l’aumento di
incidenza ma non l’accelerazione del processo cancerogenetico), in specie
nell’accertamento della causalità individuale.
Il secondo motivo

nuovo attiene ancora alla spiegazione causale del

mesotelioma pleurico, ma prende in considerazione il tema della determinazione
della durata del periodo di induzione, ribadendo che la Corte di Appello pretende
di poter determinare esattamente tale periodo pur trattandosi di un dati

fatto senza replicare ai rilievi mossi con l’atto di appello. Ulteriori considerazioni
si svolgono a riguardo della mancata dimostrazione che la legge dell’effetto
acceleratore si sia realmente attuata nei singoli periodi nei quali gli imputati
ricoprivano la posizione di garanzia, rinnovando la critica all’argomento utilizzato
dalla Corte di Appello, dell’incidenza della suscettibilità individuale, e insistendo
sulla assenza di prova della rilevanza causale delle omissioni dei singoli garanti a
riguardo del decorso del mesotelioma pleurico.
Si prospetta la sopraggiunta estinzione dei reati in danno del Campo e del
Calore, per essere decorso il termine massimo di prescrizione, pur tenuto conto
del periodo di 5 mesi e 28 giorni di sospensione di esso.
In replica ai motivi articolati dal Procuratore Generale in tema di prescrizione
dei reati, gli esponenti rilevano la mancanza di rilevanza pratica della questione
relativa alla sussistenza del vincolo della continuazione, posto che né il Tribunale
né la Corte di Appello hanno riconosciuto l’aggravante di cui all’art. 61 n. 3 cod.
pen.
Si contesta, poi, la correttezza dell’assunto del P.G. ricorrente a riguardo del
calcolo del termine di prescrizione degli omicidi commessi dopo il 24.5.2008
(quelli del Monici e del Beduschi), perché esso va operato tenendo presente la
pena edittale prevista al tempo della condotta e non quella al momento
dell’evento.
In ogni caso, anche a ritenere la continuazione, i reati sarebbero comunque
prescritti, dovendo trovare applicazione la più recente disciplina in quanto più
favorevole.
Con riferimento al tema della prescrizione del reato di cui all’art. 437, co. 1
cod. pen., gli esponenti osservano che non si comprende il senso della censura
del P.G. ricorrente, circa la natura permanente del reato e il momento di
cessazione della permanenza, perché si tratta di condotte ritenute insussistenti.
Peraltro, trattandosi di reato di condotta esso non può che consumarsi con
l’esaurirsi della condotta medesima.

41

pacificamente inconoscibile, come riconosciuto dallo stesso Tribunale; ciò ha

In merito alle statuizioni concernenti il secondo comma dell’art. 437 cod.
pen. gli esponenti concordano con la Corte di Appello circa l’attinenza della
contestazione ad una pluralità di malattie-infortunio e non al disastro, ma
ritengono che la consumazione del delitto aggravato debba farsi coincidere con il
momento di cessazione della condotta e non con il momento del verificarsi
dell’evento aggravatore, in ogni caso da identificarsi nella (insorgenza della)
malattia e non nel decesso.
6.18. E’ stata depositata nota con allegati gli atti indicati in ricorso, onde

7. Ricorso per Piergiorgio Gatti a firma degli avv. Alberto Alessandri e
Fabio Cagnola
Il ricorso è articolato in un unico motivo, con il quale si denuncia la
violazione degli artt. 40 cpv., 42, 43, 589 e 437 cod. pen., ed il vizio della
motivazione, in relazione alla attribuzione al Gatti di una posizione di garanzia.
La Corte di Appello, infatti, avrebbe affermato l’esistenza di una posizione di
garanzia in capo al Gatti senza tener conto della complessa e articolata struttura
del Gruppo Montedison e pertanto sulla base della sola circostanza che egli
aveva ricoperto l’incarico di Amministratore delegato per il Coordinamento
Gestione Chimica (nel complesso erano in carica cinque Amministratori delegati),
senza accertare quali fossero i concreti poteri di gestione e di controllo
dell’imputato sulle diverse Divisioni in cui si articolava la Montedison; divisioni
aventi ciascuna una propria autonoma organizzazione, tanto da essere
trasformate, nel dicembre 1980, in società autonome. La Corte di Appello ha
posto correttamente i principi giuridici ai quali fare riferimento ma poi non ne ha
fatto applicazione; ed ha travisato la prova perché ha tratto dalla
documentazione esaminata – gli ordini di servizio del 10.1.1978, del 16.6.1978
(nn. 79 e 81), del 18.1.1979 (n. 12 e altro), del 21.9.1979, del 1980 (n. 12) – un
potere di gestione e controllo che dagli stessi non si ricava.

8. Ricorso nell’interesse di Gaetano Fabbri a firma dell’avv. Carlo Sassi
8.1. Il ricorso è articolato in tre motivi. Con i primi due, che evocano la
violazione della legge penale, in riferimento agli artt. 40, co. 2 cod. pen., 4 d.p.r.
n. 547/55 e 4 d.p.r. n. 303/56, e il vizio della motivazione, in relazione alle
statuizioni in punto di posizione di garanzia del Fabbri, si censura che la Corte di
Appello abbia ritenuto coincidente la titolarità del ruolo di direttore di
stabilimento, di dirigente e di garante, a prescindere da una analisi in concreto
della suddivisione di ruoli e competenze all’interno dell’azienda e senza verificare
se nel periodo di interesse il direttore di stabilimento fosse provvisto di poteri

42

adempiere all’onere di autosufficienza dell’impugnazione.

decisionali a tutela della incolumità e della salute dei lavoratori dipendenti; in
specie se avesse i poteri di spesa necessari.
Il vizio della motivazione, anche sotto il profilo del travisamento della prova,
viene rinvenuto laddove la Corte di Appello ha affermato la sussistenza di
determinati poteri in capo al Fabbri sulla base di documenti inconferenti o
erroneamente interpretati; laddove la corte distrettuale ha affermato
l’indelegabilità dei compiti dei vertici aziendali e però ritenuto la responsabilità
del direttore di stabilimento; e dove ha affermato la mancanza di un flusso

presenza massiccia di amianto e tuttavia affermato la responsabilità del direttore
di stabilimento.
Alla Corte di Appello si contesta di aver ritenuto che il Fabbri avesse reali
poteri gestori in quanto formalmente direttore di stabilimento, senza
accertamento in concreto della titolarità di simili poteri; e di non aver verificato,
ed escluso, che la materia della sicurezza ed igiene sul lavoro avrebbe potuto
essere affidata ad altri nel contesto della concreta suddivisione delle sfere di
competenza; ci si richiama alla giurisprudenza di legittimità che richiede la
verifica delle reali specifiche sfere di competenza, escludendo la ammissibilità di
una responsabilità da posizione.
Facendo riferimento all’ordine di servizio n. 1125 dell’11.5.1976, ai
documenti enumerati dal c.t. del P.M. dr. Mara, nella Relazione III, e allo statuto
sociale Montedipe, si sostiene che il direttore di stabilimento era privo di poteri
gestori, facenti capo direttamente all’organo amministrativo della società, ed era
investito di compiti di natura esecutiva, come peraltro riconosciuto dalla stessa
Corte di Appello a pg. 399.
Si evoca poi la giurisprudenza contemporanea ai fatti per cui è processo per
sostenere che il direttore di stabilimento non è un institore.
Si afferma che la Corte di Appello ha riconosciuto doveri iure proprio in capo
al direttore di stabilimento sulla base di una giurisprudenza formatasi sulle
previsioni del D.Igs. n. 81/2008 e quindi su presupposti che non si attagliano al
ruolo del direttore di stabilimento all’epoca dei fatti oggetto di imputazione; e
che poteri/doveri di segnalazione e blocco possono essere riconosciuti in
situazioni di pericolo immediato per i lavoratori, non nel caso di pericolo
derivante da scelte macro-organizzative di natura strutturale e ad esito dilatato
nel tempo. Inoltre nell’organizzazione di stabilimento erano previsti i
Responsabili di sicurezza e protezione ambientale, titolari di poteri (che vengono
descritti) derivanti da strutturale divisione delle competenze funzionali; una
funzione non organizzata dal direttore di stabilimento e definita da atto
dell’organo amministrativo del gruppo industriale. Si cita a conferma dell’assunto

43

informativo dal vertice Montedison alle strutture in ordine ai rischi intrinseci alla

l’ordine di servizio n. 418 del 23.3.1973, nel quale si attribuisce al Vice direttore
servizi la funzione di assicurare il corretto svolgimento di tutte le azioni
riguardanti la sicurezza del lavoro, l’igiene industriale, la protezione ambientale
ed altro; e a partire dal 1974 i direttori di stabilimento non furono più titolari del
potere di vigilanza diretta sui subordinati perché questa venne ‘mediata dal
diaframma costituito … dalla Funzione Tecnica Direzionale”. Per il Fabbri non
risultano poteri concernenti la materia della sicurezza e dell’igiene sul lavoro.
Inoltre la sentenza impugnata non indica riscontri probatori alla sussistenza

corso degli eventi o di intervento sulle procedure.
8.2. Con il terzo motivo si deduce la violazione di legge processuale, in
relazione all’art. 546, co. 1 lett. e), seconda parte cod. proc. pen., e il vizio di
motivazione, per non aver la Corte di Appello esplicato le ragioni per le quali ha
ritenuto non attendibili le prove contrarie in ordine alla posizione di garanzia
attribuita al Fabbri e non aver citato tali prove.

9. Ricorso proposto nell’interesse di Cirocco Amleto e di Paglia Gianni, a
firma degli avvocati Sergio Genovesi e Carlo Sassi.
Con il primo motivo si lamenta il vizio della motivazione in relazione alla
ritenuta sussistenza della posizione di garanzia in capo al Cirocco ed al Paglia,
direttori di stabilimento, per aver la Corte di Appello omesso una analisi in
concreto della suddivisione dei ruoli e delle competenze all’interno dell’azienda e
quindi l’accertamento della effettiva titolarità di poteri decisionali a tutela della
incolumità e della salute dei lavoratori; per aver interpretato erroneamente il
significato di taluni documenti; per aver contraddittoriamente affermato la non
delegabilità delle decisioni di alto livello aziendale e ritenuto la responsabilità dei
direttori di stabilimento; ed altresì per aver affermato che nessuna informazione
era stata inviata dal vertice Montedison alle strutture in merito alla massiccia
presenza di amianto nello stabilimento e tuttavia ritenuto la possibilità dei
ricorrenti di impedire gli eventi.
Con un secondo motivo si censura che la Corte di Appello non abbia
esplicato le ragioni per le quali ha ritenuto non attendibili le prove contrarie in
ordine alla posizione di garanzia attribuita ai ricorrenti e non abbia citato tali
prove.

10.

Ricorso proposto nell’interesse di Francesco Ziglioli a firma degli

avv. Angelo Giarda e Carlo Sassi.
10.1. Con il primo motivo, che denuncia la violazione della legge penale e il
vizio della motivazione, in relazione alle statuizioni concernenti la posizione di

44

in concreto di poteri sollecitatori, di segnalazione, di indirizzo o influenza sul

garanzia dello Ziglioli, si censura che la Corte di Appello, pur dando atto della
irrilevanza dell’art. 2087 c.c. al fine di fondare una posizione di garanzia in capo
a soggetti diversi dal datore di lavoro, abbia richiamato la norma quale fonte di
colpa generica; e che altrettanto abbia fatto con l’art. 2043 c.c., peraltro in modo
innovativo rispetto al capo di imputazione.
Si censura che la Corte di Appello abbia contraddittoriamente affermato che
la fonte dell’obbligo deve essere legislativamente determinata, che la
normazione secondaria ha un ruolo meramente integrativo e che la posizione di

quelli impeditivi. Peraltro nel caso dello Ziglioli non ricorrerebbe alcuna fonte
secondaria. E’ ancora contraddittoria la motivazione laddove dapprima dà conto
della necessità di decisioni di alto livello aziendale, non delegabili, e poi afferma
la responsabilità del direttore di stabilimento Ziglioli; laddove rammenta che
nessuna informazione venne data dal vertice Montedison alla struttura (in ordine
ai rischi connessi alla presenza massiccia di amianto) e poi conclude per
l’affermazione di responsabilità di un soggetto incolpevolmente ignorante.
Contesta il ricorrente che sia fondata l’affermazione della Corte di Appello
che il direttore di stabilimento fosse un dirigente dotato di poteri di vigilanza e di
attuazione delle misure di sicurezza ed igiene nonché impeditivi.
In nessuna delle sentenze di merito vi è un richiamo ad atti idonei a
dimostrare l’effettività dei poteri in capo allo Ziglioli.
In relazione a quanto ritenuto dalla Corte di Appello circa la quantità di
amianto presente nello stabilimento, gli esponenti asseriscono che le conclusioni
alle quali essa è pervenuta non valgono per lo Ziglioli, oltre che per quanto già
esplicitato in linea generale a riguardo di tutti gli imputati, per il fatto che i
riferimenti temporali assunti dalla Corte di Appello (ordine di servizio n. 3 del
23.4.1979, vigenze delle Norme Tecniche ME150, periodo di esposizione del
lavoratore Monici: 39 ss.) conducono ad escludere la responsabilità dello
Zigliogli. Vi è quindi contraddizione della pronuncia di condanna rispetto alle
emergenze probatorie.
Con riferimento all’affermazione fatta dalla Corte di Appello di rilievi
dell’appellante non operati alla luce delle testimonianze che il Tribunale aveva
posto a base del proprio giudizio in ordine alla entità dell’esposizione dei
lavoratori dei reparti PR7 e SA1, gli esponenti sostengono che ciò non risponda
al vero, essendo state analizzate le testimonianze Goldoni e Cagliari in note di
udienze.
Con riferimento alla condotta consistente nella mancata dotazione dei
lavoratori di dispostivi di protezione individuale, gli esponenti lamentano che la
Corte di Appello non abbia colto, nella sua replica, che il rilievo difensivo

45

garanzia può contemplare anche obblighi diversi e di minore efficacia rispetto a

atteneva all’indisponibilità sul mercato di maschere idonee, rispetto al quale non
è conferente l’affermazione che la maggioranza dei testimoni aveva dichiarato
che i mezzi personali di protezione non erano utilizzati o al più consistevano in
mascherine di carta.
Si afferma che l’aver ritenuto, in dissenso con il Tribunale, che tutte le
condotte, salvo quella indicata sub a) del capo 1, abbiano natura omissiva
costituisce lesione del diritto di difesa perché “l’errore valutativo del Tribunale
ha, di fatto, provato gli odierni imputati della possibilità di far compiutamente

fattuale e al momento della verifica della colpa” .
Quanto al piano del carattere colposo delle condotte, la Corte di Appello non
ha tenuto “in debita considerazione” le conoscenze nomologiche esistenti, la
limitazione della responsabilità agli eventi che la norma cautelare mirava a
prevenire, la necessità di individuare il comportamento alternativo lecito e la
diversa prospettiva di indagine a seconda che si tratti di accertare il nesso
causale (ex post) o la colpa in senso soggettivo (ex ante).
Per gli esponenti la Corte di Appello ha taciuto in ordine alle doglianze
concernenti l’interpretazione data agli artt. 4 lett. b), 19, 20 e 21 d.p.r. n.
303/56, 4, 374, 387 d.p.r. n. 547/55 ed ha letto erroneamente le testimonianze
Pavan, Martinato, Levi.
Gli esponenti affermano che sul nesso causale tra tumore polmonare ed
esposizione all’amianto residuasse più di un ragionevole dubbio, in ragione del
carattere plurifattoriale della patologia; che a riguardo dello Ziglioli non ricorrono
quelle condizioni che la giurisprudenza di legittimità ritiene escludano la
necessità della consapevolezza, in capo a ciascun garante, del carattere colposo
dell’altrui condotte. Lo Ziglioli, peraltro rimasto nel ruolo undici mesi, non ebbe la
possibilità di eliminare le conseguenze delle altrui condotte.
Con riferimento all’attribuzione allo Ziglioli del decesso di Angelo Franzoni,
dovuto a tumore polmonare, gli esponenti asseriscono che tenuto conto dei
rilievi espressi a riguardo della cooperazione colposa e dei criteri da utilizzare per
una attribuzione ragionevole della causalità individuale “non pare davvero
possibile comprendere quali siano le ragioni che hanno condotto i Giudicanti ad
addebitare tale evento al dott. Ziglioli”.
La motivazione resa dalla Corte di Appello a riguardo della responsabilità
dello Ziglioli per morte del Calore ‘non convince’ gli esponenti: si è dato atto
dell’esiguità del ritenuto contributo di tale imputato ma la sussistenza del
contributo è rimasta comunque sfornita di prova e non è stata considerata
l’ulteriore doglianza difensiva, attinente al mancato accertamento del momento

46

valere le rispettive doglianze, soprattutto con riferimento al giudizio contro

di inizio dell’esposizione; lacuna decisiva per la ricostruzione di quanto accaduto
nel periodo indicato in contestazione.
Secondo gli esponenti la Corte di Appello ha taciuto in ordine ai rilievi che la
difesa aveva mosso alle affermazioni fatte dal Tribunale a riguardo della carriera
lavorativa del lavoratore Monici e alla attribuzione del suo decesso anche allo
Ziglioli.
Richiamando alcune decisioni di merito prodottesi in vicende giudiziarie
analoghe a quella che occupa, gli esponenti rimarcano come in esse sia stata

garanzia per un ridotto periodo, a distanza di venti o trenta anni dall’inizio
dell’attività lavorativa delle persone offese, ritenendo necessario un tempo
minimo di permanenza nel ruolo pari a due anni. Ad avviso degli esponenti
anche la sentenza Cozzini parlava di un periodo non inferiore a due anni. Se
fossero stati accertati tutti i presupposti dell’affermazione di responsabilità per i
fatti contestati lo Ziglioli non avrebbe potuto essere condannato.
Con riferimento al tema della colpa gli esponenti ritengono che il giudizio della
Corte di Appello, secondo il quale le norme violate tendevano alla protezione dal
rischio di inalazione delle fibre tanto con riferimento a malattie note che con
riferimento ad altri gravi danni alla salute ignoti al momento della elaborazione
di quella, manifesti un’attribuzione di responsabilità oggettiva, peraltro fondato
sull’evocazione dell’art. 2087 c.c. che vale solo per il datore di lavoro.
10.2. Con il secondo motivo si denuncia violazione di legge penale e vizio
della motivazione in relazione al giudizio di responsabilità per il reato di cui
all’art. 437 cod. pen.
Rammentato che il Tribunale aveva ritenuto che le condotte ascritte agli
imputati non erano state assistite dalla consapevolezza di un potere cancerogeno
delle sostanze ed aveva quindi escluso il dolo del reato, gli esponenti rilevano
che la Corte di Appello ha invece ritenuto sufficiente la consapevolezza della
destinazione finalistica dell’impianto non collocato, senza tuttavia fare specifico
riferimento alla realtà dello stabilimento di Mantova; gli esponenti danno
contenuto a tale affermazione asserendo che “su tutto ciò che veniva
rappresentato, infatti, certamente non avrebbero potuto in nessun modo incidere
i Direttori di Stabilimento e, segnatamente il dott. Ziglioli per le ragioni già sopra
ampiamente esposte circa l’assenza di qualsivoglia delega e/o ordine di servizio
riguardante la sua persona”. Per gli esponenti, la Corte di Appello ha citato la
giurisprudenza pertinente dandone una ‘lettura parziale e suggestiva’. Rimarcano
che si è in presenza di reato omissivo proprio, che quindi pretende un soggetto
attivo che sia gravato dell’obbligo di collocare gli impianti; sicché va individuato il
datore di lavoro, peraltro alla stregua del principio di effettività. Si conclude,

47

esclusa la responsabilità di quegli imputati che avevano assunto la posizione di

quindi, che sui direttori di stabilimento non gravava alcun obbligo di attivarsi,
che essi non avevano alcun potere decisionale o di spesa in ordine ad impianti,
apparecchi e segnali, che gli odierni imputati non sarebbero stati comunque in
grado di prevenire quelle determinate malattie professionali, la cui insorgenza
non era ricompresa nella previsione normativa.
Volgendosi poi a considerare l’addebito di concorso nel reato, gli esponenti
rilevano che, in considerazione dell’ampio arco temporale durante il quale
sarebbero state tenute le condotte illecite ed il breve periodo entro il quale lo

fossero rappresentati e avessero voluto contribuire a ben determinato progetto
criminoso posto in essere vent’anni prima da soggetti, peraltro, sconosciuti”;
evidenziando come il giudizio della Corte di Appello implichi che i direttori di
stabilimento avevano messo scientemente a rischio anche la propria incolumità.
Su tutte le osservazioni della difesa la Corte di Appello non avrebbe reso
replica.
Si aggiunge, a riguardo dell’evento aggravatore rappresentato dal decesso di
Francesco Negri, che avendo il Tribunale accertato che esso era stato dovuto ad
esposizioni cessate il 31.1.1983, esso non poteva essere posto a carico dello
Ziglioli.
10.3. Il terzo motivo investe il trattamento sanzionatorio, deducendo ancora
la violazione della legge penale e il vizio della motivazione.
Quanto al giudizio di equivalenza tra le circostanze attenuanti generiche e le
contestate aggravanti, gli esponenti ritengono che la Corte di Appello abbia
fissato la pena facendo riferimento – erroneamente – alla cornice edittale
prevista per l’ipotesi di cui all’art. 589, co. 2 cod. pen., come sarebbe dimostrato
dalla soluzione accordata al tema del tempo del commesso reato.
Quanto alla determinazione della pena base e degli aumenti per i reati in
concorso, gli esponenti, dopo aver riportato le censure che erano state mosse
alla motivazione del giudice di primo grado, asseriscono che in ordine ad esse la
Corte di Appello non ha colmato il vuoto motivazionale, non fornendo replica;
inoltre essa ha immotivannente modificato l’individuazione del reato più grave
fatta dal Tribunale (morte di Severino Calore, del 12.12.2001; per la Corte di
Appello morte del Monici, del 26.1.2010) ed in ciò gli esponenti ravvisano una
violazione dell’art. 597, co. 3 cod. proc. pen. e un escamotage che ha portato la
Corte di Appello a tener conto di cornici edittali maggiorate dapprima dalla legge
102/2006 e poi dalla legge 125/2008.
Rilevato che la valutazione di maggior gravità del reato in danno del Monici è
anche illogica, per la breve durata della durata in carica dello Ziglioli, gli
esponenti ritengono che la Corte di Appello abbia definito un trattamento

Ziglioli fu in carica, “appariva francamente impossibile sostenere che questi si

sanzionatorio più severo rispetto a quello comminato in primo grado, in
violazione del divieto di reformatio in peius.
Ci si duole, poi, della immotivata ed illogica equiparazione della misura degli
aumenti per i reati concorrenti; della riduzione di solo un terzo della pena base
e della misura degli aumenti.
10.4. Il quarto motivo denuncia violazione della legge penale e vizio della
motivazione in relazione all’esito del giudizio di bilanciamento tra le concorrenti
circostanze eterogenee, per essere mancata la personalizzazione di tale giudizio;

responsabilità già trattati nel ricorso proponendoli come indici dei quali si
sarebbe dovuto tener conto anche nel giudizio ex art. 69 cod. pen.
10.5. Il quinto motivo concerne la violazione di legge ed il vizio della
motivazione in relazione alla condanna al risarcimento dei danni in favore delle
parti civili e al pagamento di provvisionali. Per gli esponenti la condanna generica
al risarcimento dei danni richiede non solo l’affermazione della responsabilità
penale ma occorre che vi sia prova degli elementi costitutivi dei danni di
rilevanza civilistica che si vogliono ottenere; cosa non verificatasi nel presente
giudizio; ma sul punto la Corte di Appello non ha reso motivazione.
Quanto alle provvisionali, gli esponenti avevano contestato che in presenza di
determinazione del danno in via equitativa si possa affermare che vi è prova di
un danno non patrimoniale, ma la Corte di Appello ha replicato con una petizione
di principio.
10.6. Il sesto motivo attiene alla condanna alla rifusione delle spese legali
sostenute dalle parti civili, evocando il vizio di motivazione e la violazione della
legge penale.
11. Ricorso proposto nell’interesse esclusivo di Diaz Gianluigi, a firma
degli avv. Carlo Baccaredda Boy e Francesco Centonze.
11.1. Con il primo motivo si denuncia la violazione della legge penale ed il
vizio motivazionale in quanto la Corte territoriale ha sancito un’illegittima
equivalenza tra possesso della qualifica apicale da parte del Diaz amministratore delegato della Montepolimeri s.p.a. dal 15.12.1980 al 10.2.1982
– e titolarità di poteri e doveri in materia antinfortunistica, senza prendere in
considerazione le funzioni in concreto attribuitegli, così violando l’art. 40 cod.
pen. in relazione alla contestazione del reato di cui all’art. 589 cod. pen. Il vizio
di motivazione viene ravvisato laddove la Corte di Appello evoca l’art. 2392 c.c.,
che invece attiene alla responsabilità civilistica e solidale nei confronti della
società; laddove non chiarisce se dei fatti debbano rispondere tutti i consiglieri di
amministrazione o il solo Diaz; laddove parla di titolarità originaria degli obblighi

49

nello sviluppo del motivo si riprendono alcuni dei temi concernenti l’an della

in contrasto con quanto emergente dall’atto di nomina del Diaz, al quale è
estraneo l’ambito della sicurezza del lavoro.
11.2. Con il secondo motivo si deduce il vizio motivazionale in relazione al
giudizio di sussistenza di una colpa grave di tutti gli imputati per non aver
adeguatamente apprezzato il rischio derivante dall’aerodispersione di fibre di
amianto. Secondo gli esponenti non risponde al vero che i vertici Montedison
rimasero inerti; di qui la illogica e contraddittoria – rispetto alle evidenze
processuali – conclusione della responsabilità del Diaz.

69 e 133 cod. pen. ed il vizio della motivazione, in relazione al giudizio di
equivalenza delle concorrenti circostanze eterogenee, perché la Corte di Appello
non ha tratto dal riconoscimento di un management non pregiudizialmente
contrario all’adeguamento degli impianti le logiche conseguenze sul piano del
trattamento sanzionatorio e non ha reso motivazione sul punto; così come non
ha valutato la breve durata dell’incarico del Diaz e l’incensuratezza del
medesimo.
11.4. Il quarto motivo deduce vizio di motivazione in relazione alla mancata
concessione della sospensione condizionale della pena, pur richiesta con l’atto di
appello.

12. Memoria per il Comune di Mantova
Il 25.10.2017 è pervenuta ‘Memoria della parte civile Comune di Mantova’
nella quale si prendono in considerazione il motivo X del ricorso unitario degli
imputati, quello V del ricorso dello Ziglioli per affermarne la ripetitività e del
primo anche l’infondatezza in relazione alle statuizioni di cui alla sentenza n.
121/2016 della Corte cost.; nonché il motivo VI del ricorso dello Ziglioli,
chiedendone il complessivo rigetto.

13. Memoria per l’Inail
Il 26.10.2017 l’INAIL ha depositato memoria a firma dell’avv. Andrea Rossi
con la quale si eccepisce l’inammissibilità dei primi tre motivi dei ricorsi congiunti
degli imputati per carenza di specificità; si asserisce l’infondatezza degli stessi,
ripercorrendo in chiave adesiva le ragioni poste a base della decisione impugnata
e così concludendo per la insussistenza di qualsiasi vizio motivazionale. Quanto
al settimo motivo dei ricorsi congiunti, si ripercorre la motivazione resa dalla
Corte di Appello in punto di sussistenza della colpa (in senso soggettivo) per
dare sostegno all’affermazione della insussistenza di vizi motivazionali di una
pronuncia che ha fatto applicazione dei principi posti dalla giurisprudenza di
legittimità.

50

11.3. Con il terzo motivo si deduce erronea applicazione degli artt. 62-bis,

Con riferimento al separato ricorso Ziglioli, ai separati ricorsi Fabbri, Cirocco
e Paglia, al separato ricorso Diaz, si confutano le tesi dei ricorrenti, aderendo alle
ragioni espresse dalla Corte di Appello.
Con riferimento al separato ricorso Gatti, se ne afferma l’inammissibilità per
essere fondato su motivo non consentito in sede di legittimità, perché si
sostanzia in una pretesa di rivalutazione del materiale probatorio.
Si chiede, infine, l’accoglimento del ricorso del P.G.

Il 27.10.2017 è pervenuta ‘memoria di replica’ a firma del difensore della
parte civile Versalis s.p.a., avv. Massimo Dinoia.
Con

riferimento alle censure avanzate dagli

imputati

ricorrenti

all’affermazione di responsabilità per la morte di Francesco Negri, ritenuta
causata da esposizione a benzene, si individua quale premessa delle doglianze
degli imputati l’assunto della necessità di una “ricostruzione particolaristica
dell’esposizione, che si fondi cioè sull’utilizzo di modalità di monitoraggio
specificamente riferite al singolo lavoratore”. Da qui la critica alla c.t. a firma
Tieghi e alla sua valutazione fattane dalla Corte di Appello. Nella memoria si
contesta la premessa, osservando che data la riconosciuta insorgenza del rischio
di contrarre la leucemia mieloide in presenza di esposizione a benzene di livello
pari a 10 ppm/anni, non assume rilievo la specifica dose di benzene al quale il
Negri era esposto quotidianamente ma la circostanza che le esposizioni
complessive avevano superato la menzionata soglia. Si aggiunge che la tesi della
necessità della ricostruzione quantitativa indicata dai ricorrenti non trova
riscontro nella giurisprudenza di legittimità, la quale invece ammette la
possibilità di ricostruzioni estimative (si cita, al riguardo Cass. n. 33311/2012 e,
contestandone l’uso fatto dai ricorrenti, Cass. n. 11128/2014). Peraltro, si
aggiunge, nel presente procedimento è rappresentativa la quantità di dati di
monitoraggio disponibili e relativi proprio al reparto nel quale lavorava il Negri.
Quindi l’estensore svolge argomentazioni tese a confutare le critiche mosse
dagli imputati ricorrenti alla consulenza tecnica del dr. Tieghi, sia perché questi
ha assunto dati reali e non ha svolto mere stime, sia perché parte di quelle
censure tendono ad una rivalutazione delle prove e sono pertanto inammissibili.
Ciò nonostante esse vengono discusse e criticate nel merito.
In ordine ai rilievi mossi a riguardo della disponibilità di una legge scientifica
di copertura concernente la natura cancerogena del benzene riferita alla
leucemia nnieloide, l’estensore della memoria contesta ai ricorrenti di aver
pretermesso che gli stessi consulenti degli imputati, ad eccezione di uno, hanno
convenuto sul fatto che allo stato nella comunità scientifica vi è consenso sulla

51

14. Memoria per Versa lis s.p.a.

predetta cancerogenicità.

Quanto alle censure in merito al mancato

accertamento negativo dell’attività di altri fattori cancerogeni, l’esponente dopo
aver svolto considerazioni sulle indicazioni fornite dalla giurisprudenza di
legittimità per i casi di patologie multifattoriali, ed in specie sul ripudio di
un’impostazione che fa coincidere certezza scientifica e certezza processuale,
asserisce che l’obiezione delle difese degli imputati – di una omessa
considerazione delle censure avanzate sul tema – è inconsistente perché la Corte
di Appello si è richiamata all’approfondita valutazione del Tribunale, coerente agli

Con riferimento al tema della dose cumulativa avente efficienza causale
rispetto alla leucemia mieloide, l’estensore rimarca che i ricorrenti non hanno
sviluppato argomenti correlati alla motivazione, il cui sostegno non era nello
studio Glass et al 2003, al cui esame da parte della corte distrettuale i ricorrenti
hanno indirizzato le censure; che l’onere motivazionale non richiede di dover
replicare ad ogni singolo passaggio dell’impugnazione; che non risponde al vero
che la Corte di Appello abbia ricavato la legge di copertura dalle opinioni di un
solo consulente.
Si svolgono poi affermazioni in merito al giudizio contro-fattuale preteso dal
paradigma omissivo.
Ulteriore tema della memoria è quello delle censure avanzate dagli imputati
ricorrenti al giudizio circa la prevedibilità della pericolosità dell’esposizione dei
lavoratori al benzene, anche in ragione della previsione di limiti soglia, nella
prospettiva del rimprovero per colpa. Dopo aver rimarcato che, diversamente da
quanto enunciato, i ricorrenti censurano consolidati indirizzi del giudice di
legittimità e non le sentenze di merito, che si sono limitate a fare applicazione di
quelli, l’estensore svolge considerazioni in merito alla figura dell’agente modello
e conclude che entrambi i giudici di merito hanno comparato le conoscenze
scientifiche liberamente disponibili all’epoca con la particolare realtà aziendale di
Montedison e tratto da ciò il giudizio della prevedibilità della nocività del
benzene; anzi, aggiunge l’esponente, gli imputati erano in possesso di
conoscenze superiori, come dimostrato da talune richiamate evidenze probatorie.
Rileva l’estensore che in rapporto all’evitabilità in concreto del decesso del
Negri gli imputati ricorrenti non hanno sollevato censure, essendo state queste
indirizzate al giudizio sulla causazione delle morti da amianto.
Con riferimento alle critiche indirizzate dagli imputati ricorrenti alla
declaratoria di prescrizione del reato sub 3) in relazione all’esposizione a
benzene, l’estensore osserva che la doglianza per aver la Corte di Appello
adottato il paradigma motivazionale definito dall’art. 129, co. 2 cod. proc. pen.
non è corretta, perché nel caso di specie non è stata pronunciata ex art. 578

52

insegnamenti della S.C.

cod. proc. pen. quella condanna, anche solo generica, al risarcimento dei danni
che impone un più esteso obbligo motivazionale. Si svolgono, poi, osservazioni in
tema di materialità delle condotte, rimarcando ancora la infondatezza e
comunque la non incidenza dei rilievi difensivi, stante la particolare regola di
giudizio definita dall’art. 129 cod. proc. pen.
Altre osservazioni vengono svolte in relazione all’elemento soggettivo del
reato di cui all’art. 437 cod. pen.
Infine si ravvisa l’aspecificità dei rilievi mossi dagli imputati ricorrenti a

Versalis s.p.a. Si sostiene, che ben diversamente da quanto asserito dai
ricorrenti, sono i rilievi di questi ad essere ennesima replica di quelli proposti già
nell’udienza preliminare, avendo per converso la Corte di Appello reso
motivazione del tutto autonoma, che viene riportata e commentata; e si prende
posizione critica avverso il motivo che contesta la conferma delle statuizioni civili
a favore della predetta Versalis s.p.a.

15. Memoria per Syndial Attività Diversificate s.p.a.
Con memoria depositata il 27.10.2017 a firma dell’avv. Dario Bolognesi, la
Syndial Attività Diversificate s.p.a. ha svolto osservazioni critiche nei confronti
dei ricorsi degli imputati.
Ha rilevato la inammissibilità dei rilievi raccolti sotto il motivo X per carenza
di specificità e manifesta infondatezza, così argomentando.
Le censure in merito alla ritenuta legittimazione processuale della Syndial
A.D. s.p.a. contenute nell’atto di appello riproponevano le medesime
osservazioni affrontate e superate dal Tribunale, senza confrontarsi con le
ragioni del giudice e la Corte di Appello ha, sia pure non espressamente, ritenuto
l’inammissibilità dei motivi, come emerge da un passo della motivazione a pg.
139; tanto determina l’inammissibilità anche dei motivi sub X.1., X.2. e X.3. dei
ricorsi congiunti; inammissibilità che peraltro si ritiene derivi anche dalla
mancanza di confutazione delle ragioni espresse dalla stessa Corte di Appello.
Con specifico riguardo alla dedotta mancanza di motivazione, si rileva che le
puntuali censure che non avrebbero trovato replica sono mera reiterazione di
quanto affermato nelle memorie; la manifesta illogicità della motivazione è
insussistente risultando piuttosto errata la impostazione degli imputati ricorrenti
che pongono nel campo della legittimazione questioni che attengono alla prova
del danno; non può essere dedotto il peraltro insussistente travisamento della
prova, trattandosi di doppia conforme (i ricorrenti propongono piuttosto una loro
interpretazione dell’atto di transazione); la imprevedibilità dei danni è stata
correttamente affermata dalla Corte di Appello.

53

riguardo della parte di motivazione che attiene alla legittimazione processuale di

I motivi sub XI.1. e XI.2. che investono la condanna generica al risarcimento
dei danni sono inammissibili.
Aspecifico e quindi inammissibile è anche il motivo VIII.2, concernente la
materialità delle condotte descritte al capo 3) perché si ignorano le affermazioni
fatte dalla Corte di Appello e si formulano affermazioni generiche.
Con riferimento al preteso vizio motivazionale in relazione alla prova delle
condotte tipiche ex art. 437 cod. pen. si rileva la forma perplessa o alternativa
del motivo, che non indica i passaggi motivazionali che sarebbero

L’estensore rileva l’esistenza di una preclusione concernente le condotte che
integrano la fattispecie aggravata del comma 2 dell’art. 437 cod. pen., e la
carenza di specificità del motivo per difetto di correlazione con le argomentazioni
della sentenza impugnata.
In relazione alla doglianza secondo la quale la Corte di Appello avrebbe
dovuto, dichiarando la prescrizione per fatti in ordine ai quali era stata
pronunciata assoluzione per difetto dell’elemento soggettivo, motivare il difforme
convincimento, l’esponente condivide l’assunto della Corte di Appello di un errore
di diritto del primo giudice in merito all’oggetto del dolo del reato di cui all’art.
437 cod. pen., e ritiene corretta la conclusione cui è pervenuta la Corte di
Appello, anche in considerazione del fatto che essendosi la prescrizione verificata
prima della sentenza del Tribunale, non vi è stata dichiarazione di responsabilità
a fini civili.
Si esprime dissenso rispetto alla analoga censura mossa a riguardo delle
condotte tipiche ai sensi dell’art. 437 cod. pen. riferite all’esposizione a stirene,
acrilonitrile e dicloroetano, affermando che la finalità prevenzionistica delle
cautele si ricava dal loro essere volte ad escludere o limitare l’esposizione a
sostanze tossiche, non essendo quindi rilevante che non fosse (e non sia) nota la
cancerogenicità di tali sostanze. In merito all’accertamento della tossicità di tali
sostanze l’esponente rammenta che si è diffuso sul punto il Tribunale e che le
sentenze si integrano in un complessivo argomentare. Riportati tali assunti sul
piano dell’elemento soggettivo, si contesta che la Corte di Appello non abbia reso
motivazione al riguardo, rimarcando come non risponda al vero che con la
pronuncia di estinzione per prescrizione la Corte di Appello abbia operato una
indebita reformatio in peius perché mancante l’appello della accusa pubblica e
privata, indicando i passi degli appelli ove era stata richiesta la riforma della
pronuncia di assoluzione per il reato sub 3) della rubrica.

54

rispettivamente manifestamente illogici, mancanti o contraddittori.

CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Indicazioni preliminari all’esame dei ricorsi
Il particolare contenuto di larga parte dei ricorsi congiunti e di pressoché tutti
i ricorsi singoli, ivi compreso quello del RG., impone di soffermarsi, sia pur
brevemente, sui caratteri che necessariamente deve presentare il ricorso di
cassazione se vuole sfuggire alla sanzione della inammissibilità. In specie appare
opportuno indugiare sul connotato della specificità del motivo, previsto e
prescritto dall’art. 581 lett. c) cod. proc. pen., il quale ove assente importa, a

In questa sede appare opportuno rammentare che la aspecificità del motivo
può risultare per aspetti diversi: perché la censura costituisce mera ripetizione di
quella già sottoposta al giudice impugnato, il quale – non essendo la doglianza
inammissibile – l’abbia esaminata e quindi abbia ad essa replicato; dovendosi al
proposito tener conto che la replica va rintracciata nella complessiva trama
motivazionale, non assumendo rilievo la mancata esplicazione della valutazione
parcellare di singoli rilievi.
Può, la aspecificità del motivo, esser data dalla mancanza di pertinenza della
censura rispetto alla ratio decidendi. Ancora, si coglie l’aspecificità nel motivo
quando esso sia privo di riferimenti concreti alla peculiare vicenda oggetto di
decisione, e quindi alla scansione argomentativa del provvedimento impugnato.
In tutte queste ipotesi in definitiva l’aspecificità emerge dalla assenza di
connessione logica-argomentativa tra la censura e la decisione impugnata.
Una ricognizione della giurisprudenza di legittimità lascia emergere un
notevole affinamento della nozione di aspecificità, che andrebbe ripercorsa alla
luce della notevole casistica. Ma ciò costituirebbe un fuor d’opera nella presente
sede (ove ci si può limitare a rammentare la ricognizione operata da Sez. U, n.
8825 del 27/10/2016 – dep. 22/02/2017, Galtelli, Rv. 268823); nella quale si
avverte comunque, a conclusione di queste osservazioni preliminari, la necessità
di rappresentare la piena consapevolezza che il diritto di accesso alla tutela
giurisdizionale, garantito dell’art. 6, p. 1, della Convenzione Europea per la
salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali del 1950
(ratificata dall’Italia con la legge n. 848 del 4.8.1955), impone di abbandonare le
limitazioni apposte dalla Corte di cassazione al diritto di accesso al sindacato di
legittimità che risultino non proporzionate al fine di garantire la certezza del
diritto e la buona amministrazione della giustizia (tra le pronunce della Corte edu
si veda, tra le altre, Sez. 1, 24 aprile 2008, K. ed altri c. Lussemburgo). Tanto
implica – come scandito dalle Sezioni unite civili di questa Corte (sentenza n.
17931 del 2013, CED Cass. n. 627268) – di dover evitare gli eccessi di
formalismo, segnatamente in punto di ammissibilità o ricevibilità dei ricorsi,
..,

55

norma dell’art. 591 lett. c) cod. proc. pen., l’inammissibilità dello stesso.

consentendo per quanto possibile, la concreta esplicazione di quel diritto di
accesso ad un tribunale previsto e garantito dall’art. 6 p. 1 della Convenzione
EDU”. Ma non preclude agli Stati aderenti “la facoltà di circoscrivere, per evidenti
esigenze di opportunità selettiva, a casistiche tassative, in relazione alle ipotesi
ritenute astrattamente meritevoli di essere esaminate ai massimi livelli della
giurisdizione, le relative facoltà di impugnazione, con la conseguenza che non si
ravvisa contrasto allorquando le disposizioni risultino di chiara evidenza senza
lasciare adito a dubbi”. Quel principio, peraltro, “costituisce, nei diversi casi in cui

relativa interpretazione, che deve in siffatti ultimi casi propendere per la tesi
meno formalistica e restrittiva”.
Come ben colto nella pronuncia dalla quale si sono tratte le citazioni appena
fatte (Sez. 2, n. 25741 del 20/03/2015 – dep. 18/06/2015, Calistri, Rv. 264132),
il requisito della specificità è imposto dall’art. 581 cod. proc. pen. in termini
certamente chiari e non equivocabili; specie se si consideri che esso viene
connesso all’esplicitazione delle ragioni di diritto e di fatto sulle quali si fonda.
Orbene, nel caso dei ricorsi che ci si appresta ad esaminare, i profili di
aspecificità appena rammentati sono particolarmente frequenti. Nell’insieme – e
ferma restando l’esistenza di un nucleo di questioni che sono legittimamente
(ri)proposte, perché indirizzate alla interpretazione e alla applicazione della
legge o perché prospettate in termini consentiti per il ricorso per cassazione essi si concretano nella mera veicolazione nel grado successivo delle
argomentazioni e dei rilievi critici contenuti negli atti di appello e nelle successive
esplicazioni e precisazioni degli stessi. Né l’inserzione nel sovente pletorico
periodare di strumentali riferimenti al giudizio della Corte di Appello può fare
ombra alla struttura portante dei ricorsi, come meglio si evidenzierà nel
prosieguo.
Quanto sin qui esposto non ha la funzione di sostenere un complessivo
giudizio di inammissibilità dei ricorsi: si è già accennato ad un nucleo di motivi
meritevoli di avere accesso al campo dell’esame nel merito. Piuttosto ha lo scopo
di rendere espliciti in via generale i criteri ai quali questa Corte si atterrà per
selezionare tra le censure, non di rado affastellate, quelle che potranno essere
con breve argomentazione dichiarate inammissibili e quelle che richiederanno
una più estesa trattazione.

56

le norme si prestino a diverse accezioni ed applicazioni, un canone direttivo nella

2. I ricorsi degli imputati. Le questioni processuali. Motivi XII, XIII, XIV,
XV, XVI
2.1. La nullità del decreto di citazione per indeterminatezza della
contestazione
Si prenderanno in considerazione dapprima i ricorsi degli imputati e del
responsabile civile; l’ordine di trattazione non seguirà quello attribuito dai
ricorrenti con l’atto congiunto ma l’ordine logico-giuridico imposto dal carattere
pregiudiziale di alcune tra le questioni processuali sollevate ovvero dalla priorità

altri anche i motivi dei ricorsi separati, laddove accomunati dal contenuto della
censura. La trattazione dei restanti motivi dei ricorsi individuali verrà integrata e
sarà espressamente segnalata.
Occorre prendere le mosse dal motivo XII dei ricorsi congiunti degli imputati,
giacché ove fondato esso determinerebbe l’annullamento senza rinvio della
sentenza impugnata, con regressione del procedimento.
Il motivo è manifestamente infondato.
Il fermo indirizzo interpretativo assunto dalla giurisprudenza di legittimità in
materia di completezza della contestazione riconosce che è sufficiente che il fatto
sia contestato in modo da consentire la difesa in relazione ad ogni elemento di
accusa; e che il ricorso al rinvio agli atti del fascicolo processuale, purché si tratti
di atti intellegibili, non equivoci e conoscibili dall’imputato, non pregiudichi quella
completezza (Sez. 5, n. 10033 del 19/01/2017 – dep. 01/03/2017, Ioghà e altro,
Rv. 269455). Si è anche ulteriormente precisato che non sussiste alcuna
incertezza sull’imputazione quando questa contenga con adeguata specificità i
tratti essenziali del fatto di reato contestato in modo da consentire un completo
contraddittorio ed il pieno esercizio del diritto di difesa; ribadendosi che la
contestazione non va riferita soltanto al capo di imputazione in senso stretto, ma
anche a tutti quegli atti che, inseriti nel fascicolo processuale, pongono
l’imputato in condizione di conoscere in modo ampio l’addebito (Sez. 2, n. 2741
dell’11/12/2015 – dep. 21/01/2016, Ferrante, Rv. 265825).
Nel caso di specie le contestazioni sono particolarmente puntuali e complete,
recando l’elencazione specifica dei ruoli attribuiti a ciascuno degli imputati come
ragione della titolarità degli obblighi prevenzionistici ritenuti violati; la dettagliata
elencazione delle singole condotte integranti violazioni cautelari; la dettagliata
indicazione delle persone offese e dell’evento che aveva riguardato ciascuna di
esse. Si tratta, invero, di un dato incontrovertibile, rispetto al quale la mancata
specificazione dei valori di esposizione o del particolare elemento dell’impianto
non a norma risulta non essenziale e comunque colmata dal certo rinvenimento
dei dati negli atti del fascicolo del p.m., al quale – come attesta il richiamo

57

logica di alcuni temi rispetto ad altri; saranno considerati congiuntamente agli

operato nella contestazione medesima alla relazione tecnica Mara-Carrara erano acquisiti contributi tecnici che descrivevano in dettaglio la condotta illecita,
quale fosse la sostanza pericolosa, la sua fonte di diffusione nell’ambiente, le
modalità di lavorazione comportanti l’esposizione dei lavoratori all’agente nocivo.
Si può citare quale esempio la descrizione leggibile alla lettera c) del capo 1,
appunto tributaria di quanto scritto dai consulenti tecnici:

“non adottavano

interventi atti ad impedire, nel reparto ST9, la fuoriuscita del polimero dalla testa
e a volte anche dal corpo dell’ estrusore con formazioni di colature esterne

rimuovere le stesse e a depositarle sul pavimento del reparto per il
raffreddamento, nonché di rimuovere le masse già polimerizzate con l’uso di
scalpello e martello”.
Ed è indiscutibile – alla luce dei principi sopra rammentati – che il richiamo
all’elaborato tecnico, lungi dal dimostrare la inconoscibilità degli addebiti,
contribuisce alla completezza della contestazione.
Quanto all’evocazione in chiave critica dell’avvenuta contestazione ex art. 516
cod. proc. pen. (del cui contenuto si scriverà al paragrafo successivo), appare
evidente ad ognuno che non può essere riconosciuto alcun automatismo tra la
contestazione di un fatto diverso, ai sensi dell’art. 516 cod. proc. pen., e
l’inafferrabilità della contestazione originaria; sicché sarebbe stato onere dei
ricorrenti dimostrare che la modifica svelava nel caso concreto la oscurità
dell’addebito, tanto più che essa incideva unicamente sul novero dei lavoratori le
cui malattie-infortunio era posta in relazione causale con l’omessa collocazione di
impianti, apparecchi, segnali.
E altrettanto dicasi per il diverso avviso dei giudici territoriali circa la natura
omissiva o commissiva della condotta illecita. Come è noto, si tratta di
qualificazione che può risultare particolarmente complessa e quindi controversa,
ma che non costituisce la spia di una lacunosa descrizione del fatto. E’
patrimonio acquisito della giurisprudenza e della dottrina che, accanto a
situazioni riconducibili con sicurezza all’ambito dell’indole attiva od omissiva della
condotta, esistono molti casi di incerta collocazione, sovente risolti dalla
giurisprudenza con il richiamo all’astratta distinzione tra la violazione di un
divieto (nel caso della condotta commissiva) o di un comando (nel caso della
condotta omissiva) (cfr. Sez. 4, n. 16761 del 11/03/2010, P.G. in proc. Catalano
e altri), ovvero attraverso il ricorso al criterio che impone di cogliere il ruolo che,
nella spiegazione dell’evento, abbia avuto la condotta dell’imputato,
selezionandone l’indole commissiva od omissiva in dipendenza della maggiore
significatività o preponderanza dell’una o dell’altra (Sez. U, n. 38343 del
24/04/2014, Espenhahn e altri).

58

all’area di captazione dei sistemi di aspirazione, costringendo, così gli operai a

Il dato decisivo è che dalla mutata qualificazione non è derivata alcuna
limitazione al diritto di difesa; su questo specifico punto gli stessi ricorrenti sono
sostanzialmente silenti.
Per concludere nella trattazione del motivo v’è solo da aggiungere che,
trattandosi della denuncia di una violazione della legge processuale, esclusa
questa risulta irrilevante l’apparato argomentativo posto dal giudice a sostegno
della replica offerta agli appellanti. Invero, va ribadito il principio secondo il
quale non sono denunciabili in cassazione vizi di motivazione della sentenza

il giudice ha errato nel non condividerle, si configura il diverso motivo della
violazione di legge, mentre, se fondatamente le ha disattese, non ricorre alcuna
illegittimità della pronuncia, anche alla luce della possibilità, per la Corte di
cassazione, di correggere la motivazione del provvedimento ex art. 619 cod.
proc. pen. (Sez. 1, n. 49237 del 22/09/2016 – dep. 26/10/2017, Emnnanuele,
Rv. 271451).
2.2. La nullità della contestazione suppletiva.
Strettamente connessa alla censura appena affrontata è quella recata dal
motivo XV.
I rilievi avanzati dai ricorrenti prospettano la sussistenza di una nullità della
contestazione suppletiva per essere stata fatta in violazione delle norme
concernenti l’intervento, l’assistenza e la rappresentanza dell’imputato; tale
violazione sarebbe diversamente integrata a seconda della premessa dalla quale
avrebbe trovato origine la contestazione. Già solo la mancata identificazione
della esatta ratio decidendi e la conseguente ipoteticità delle censure avanzate
dai ricorrenti attribuiscono a queste il carattere di aspecificità che le rende
inammissibili. Occorre rammentare che ai sensi dell’art. 581, co. 1 lett. c) cod.
proc. pen., l’impugnazione deve enunciare, tra gli altri, “i motivi, con
l’indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che
sorreggono ogni richiesta”, mentre l’art. 591, co. 1, lett. c) cod. proc. pen.,
commina la sanzione dell’inammissibilità dell’impugnazione quando venga
violato, tra gli altri, il disposto dell’art. 581 cod. proc. pen.
In ogni caso il motivo è manifestamente infondato. E’ ben possibile che sul
meccanismo delle contestazioni si innestino delle nullità; ad esempio, per non
essere stato notificato l’estratto del verbale dibattimentale all’imputato
contumace o assente (Sez. 2, n. 46342 del 26/10/2016 – dep. 03/11/2016,
Furfaro, Rv. 268320); e più in generale quando l’imputato non sia stato posto in
condizioni di esercitare il diritto di difesa.
Ma la giurisprudenza di legittimità non riconosce la sussistenza di una
violazione del diritto di difesa per effetto di una particolare scansione temporale

impugnata con riferimento ad argomentazioni giuridiche delle parti, in quanto, se

o di una determinata fonte donde trae origine la contestazione suppletiva. Si
afferma che va riconosciuto al P.M. il potere di procedere nel dibattimento alla
modifica dell’imputazione o alla formulazione di nuove contestazioni senza
specifici limiti temporali o di fonte, in quanto l’imputato ha facoltà di chiedere al
giudice un termine per contrastare l’accusa, esercitando ogni prerogativa
difensiva come la richiesta di nuove prove o il diritto ad essere rimesso in termini
per chiedere riti alternativi o l’oblazione (Sez. 6, n. 18749 del 11/04/2014 – dep.
06/05/2014, B, Rv. 262614; Sez. 5, n. 8631 del 21/09/2015 – dep. 02/03/2016,

dell’imputazione e la contestazione di un reato concorrente o di una circostanza
aggravante possano essere effettuate dopo l’avvenuta apertura del dibattimento
e prima dell’espletamento dell’istruttoria dibattimentale e, quindi, anche sulla
sola base degli atti già acquisiti dal pubblico ministero nel corso delle indagini
preliminari (Sez. 2, n. 45298 del 14/10/2015 – dep. 13/11/2015, Zani, Rv.
264903; Sez. 5, n. 51248 del 05/11/2014 – dep. 10/12/2014, Cutrera, Rv.
261742; orientamento che prende il via da Sez. U, n. 4 del 28/10/1998 – dep.
11/03/1999, Barbagallo, Rv. 212757).
Pertanto non assume rilievo di per sé che la contestazione non derivi dagli
sviluppi dell’istruttoria dibattimentale o che, fondandosi sui materiali di indagine,
sia stata fatta dopo la dichiarazione di apertura del dibattimento. Quanto alla sua
estraneità tanto agli uni che agli altri, si tratta di una alternativa congettura degli
esponenti che non trova alcun appiglio nelle emergenze processuali e che in
ogni caso sarebbe recessiva rispetto al dato realmente rilevante; ovvero
l’eventuale violazione del diritto di difesa dell’imputato il quale, a fronte alla
nuova contestazione, non sia stato posto in condizione di difendersi provando.
Ma che ciò sia avvenuto non è sostenuto neppure dagli esponenti; e lo
svolgimento delle attività processuali, ampiamente rappresentato nelle sentenze
di merito, depone per l’insussistenza di una qualche indebita contrazione del
diritto di difesa.
Secondo quanto emerge dalla sentenza di primo grado all’udienza del 12
luglio 2011, dopo l’esame del teste Pigozzi, i Pubblici Ministeri modificarono
l’imputazione ai sensi degli artt. 516 e 517 cod. proc. pen., in particolare
contestando a tutti gli imputati l’omicidio colposo pluriaggravato in danno di
Zavattini Guglielmo (già indicato quale persona offesa dal reato di lesioni
personali colpose), e il delitto di lesioni personali colpose pluriaggravate in danno
di Beduschi Dino (affetto da mesotelioma pleurico) e di Rossin Carlo (affetto da
placche pleuriche). Il Giudice dispose l’inserimento delle contestazioni suppletive
nel verbale d’udienza e la conseguente notificazione dello stesso agli imputati
contumaci, con contestuale sospensione del dibattimento. All’udienza del 12

60

Scalia, Rv. 266081). Di conseguenza viene ammesso che la modifica

ottobre 2011 si costituì parte civile il Beduschi e l’INAIL estese la domanda
risarcitoria nei confronti degli imputati in relazione alle nuove contestazioni.
Mutata la persona fisica del giudice venne disposta la rinnovazione del
dibattimento e anche in quell’occasione le difese degli imputati non sollevarono
eccezioni di sorta concernenti l’avvenuta contestazione suppletiva. Anzi,
all’udienza del 22 novembre del 2011 le parti formularono le richieste istruttorie
a seguito delle nuove contestazioni elevate dalla Pubblica Accusa.
Come è agevole osservare, dopo la modifica dell’originaria imputazione gli

difesa; né lamentarono una sua lesione.
A tal ultimo riguardo, l’evocazione fatta dai ricorrenti di una nullità di ordine
generale, ex art.178, lett. c) cod. proc. pen., che dovrebbe trovare conforto in
quanto statuito nella sentenza Sez. 2, n. 24329 del 05/07/2006,
dep. 13/07/2006, Cascianelli, n.m., è manifestamente infondata, ponendo in
correlazione i requisiti del decreto che dispone il giudizio con quelli della nuova
contestazione ex art. 516 cod. proc. pen.
Quanto alla indeterminatezza delle nuove contestazioni, essa va senz’altro
esclusa, per le medesime ragioni che si sono indicate al paragrafo precedente.
2.3. La violazione di legge ed il vizio della motivazione in relazione al
rigetto delle istanze istruttorie
Parimenti pregiudiziale – e per la medesima ragione – è il motivo (XIII).
Con esso ci si duole in primo luogo del mancato accoglimento della richiesta di
emettere ordine di esibizione o provvedimento di sequestro di documentazione e
di disporre l’acquisizione di altri documenti.
Anche in questo caso il motivo presenta profili di aspecificità: nonostante i
ricorrenti lamentino la violazione di norma processuale stabilite a pena di nullità,
inutilizzabilità o decadenza essi indicano genericamente gli artt. 493, 495, co. 2,
189 e 253 cod. proc. pen., senza esplicitare le ragioni di diritto che militerebbero
per la identificabilità di una violazione sanzionata da nullità, inutilizzabilità o
decadenza. Lacuna di estremo rilievo, solo che si consideri la possibilità che la
nullità sia assoluta ed insanabile, generale o relativa, con le correlate
conseguenze sul piano della rilevabilità, della eccepibilità, della sanabilità.
In ogni caso viene lamentata la violazione del diritto di difesa; il motivo è
manifestamente infondato.
Questo Collegio ritiene di dover dare ulteriore continuità all’orientamento
secondo il quale il sindacato del giudice di legittimità nell’esame delle questioni
processuali comprende il potere di esaminare gli atti per verificare la
integrazione della violazione denunziata ma non anche quello di interpretare in
modo diverso, rispetto alla valutazione del giudice di merito, i fatti storici posti a

61

imputati ed il responsabile civile poterono esercitare pienamente il diritto di

base della questione, se non nei limiti del rilievo della mancanza o manifesta
illogicità della motivazione (Sez. 4, n. 47891 del 28/09/2004 – dep. 10/12/2004,
Mauro e altri, Rv. 230568).
Nel caso che occupa il presupposto fattuale assunto dalla Corte di Appello che si trattasse di documentazione da ricercare invece che già individuata, anche
nella sua reale esistenza – non è sindacabile da questa Corte, poiché sostenuto
da motivazione non manifestamente illogica; e posta tale premessa l’assunto dei
giudici di merito è coerente con la giurisprudenza di legittimità che ritiene

proc. pen. il rifiuto opposto dal giudice di merito di procedere ad ‘attivare’ un
mezzo di ricerca della prova (nella specie, l’ispezione dei luoghi), in quanto
questo sfugge alla disciplina dettata dall’art. 495, secondo comma, cod. proc.
pen., non essendo consentito ricomprendere nel termine “prova” – intesa come
fonte di convincimento – il “mezzo” attraverso il quale la prova stessa viene
ricercata per essere poi offerta al giudice ai fini della decisione. Le nozioni di
mezzo di prova e di mezzo di ricerca della prova – si spiega – sono fra loro
nettamente differenziate anche sotto il profilo normativo, come è dato evincere
dal fatto che tutti i “mezzi di prova” – ossia le fonti di prova, personali o reali
(testimonianze, esame delle parti, confronti, ricognizioni, esperimenti giudiziali,
perizia, documenti) – sono ricompresi nel titolo secondo del libro terzo del cod.
pen., mentre i “mezzi di ricerca della prova” (ispezioni, perquisizioni, sequestri,
intercettazioni di conversazioni o comunicazioni) trovano una loro specifica ed
autonoma disciplina nel successivo titolo terzo. Il ruolo che il vigente codice di
rito assegna al giudice gli impedisce di svolgere, di regola, attività di ricerca della
prova, essendo ciò demandato alle parti (Sez. 6, n. 6861 del 28/04/1993,
dep. 09/07/1993, Ferrovai ed altro, Rv. 195139; similmente Sez. 6, n. 2516 del
19/12/1991, dep. 11/03/1992, Principato, Rv. 189480).
Ovviamente il giudice del dibattimento, che ha il potere di assumere nuove
prove all’esito dell’istruttoria dibattimentale, non incontra limitazioni quanto
all’attivazione del relativo mezzo di ricerca, fermo restando che esso deve
esercitarsi in conformità alle regole che specificamente governano l’attività
istruttoria presa in considerazione (cfr. Sez. 4, n. 44481 del 12/07/2004 dep. 16/11/2004, Improta e altri, Rv. 229129, che ha quindi ritenuto la
legittimità del provvedimento con il quale il giudice, d’ufficio, disponga
perquisizioni domiciliari e sequestri in danno dell’imputato, in assenza di richiesta
del pubblico ministero e senza attivazione preventiva del contraddittorio tra le
parti). Ma l’angolo prospettico dal quale si scorge la rilevanza della mancata
attivazione del mezzo di ricerca della prova è solo quello del mezzo di prova.

62

insindacabile in cassazione a norma dell’art. 606, primo comma, lettera “d”, cod.

Pertanto, una eventuale censura non può colpire, ad esempio, la mancata
emissione di un ordine di esibizione ma piuttosto va indirizzata all’omesso
esercizio dei poteri officiosi ex art. 507 cod. proc. pen. ed ex art. 603 cod. proc.
pen.
Nell’uno come nell’altro caso, a fronte dell’inerzia del giudice ci si può dolere
unicamente del vizio di motivazione del diniego della richiesta della parte (Sez.
3, n. 10488 del 17/02/2016, dep. 14/03/2016, P.M. in proc. Nica e altri, Rv.
266492), fermo restando che il sindacato che il giudice di legittimità può

pronunciato dal giudice d’appello sulla richiesta di rinnovazione del dibattimento,
non può mai essere svolto sulla concreta rilevanza dell’atto o della testimonianza
da acquisire, ma deve esaurirsi nell’ambito del contenuto esplicativo del
provvedimento adottato (Sez. 3, n. 7680 del 13/01/2017, dep. 17/02/2017,
Loda Rv. 269373).
Quanto allo spazio per lamentare con il ricorso per cassazione, ex art. 606
lett. d) cod. proc. pen., la mancata assunzione di una prova decisiva, esso è
limitato all’ipotesi che si tratti di mezzo di prova di cui sia stata chiesta
l’ammissione a norma dell’art. 495, secondo comma, cod. proc. pen. (Sez. 5, n.
4672 del 24/11/2016, dep. 31/01/2017, Fiaschetti e altro, Rv. 269270).
Ciò posto, come già preannunciato, va senz’altro esclusa la fondatezza del
motivo in esame.
La Corte di Appello ha affermato, in piena coerenza con le premesse giuridiche
appena tratteggiate, che a seguito del diniego del Tribunale di procedere ad
ordinare l’esibizione o, in subordine, a disporre il sequestro di documentazione,
gli imputati avevano la sola possibilità di richiedere ai sensi dell’art. 603 cod.
proc. pen. la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale. Tale richiesta, ha
osservato la corte distrettuale, non era stata avanzata. Ha poi soggiunto, la
Corte di Appello, che, pur a ritenere – con un’interpretazione di massimo favore
per i diritti della difesa – che tale richiesta fosse contenuta in quella di annullare
le ordinanze istruttorie del primo giudice e di “assumere i relativi provvedimenti
secondo il codice di rito”, non ricorreva il presupposto della non decidibilità allo
stato degli atti. Per poi concludere, con un giudizio che colpisce alla radice la
questione posta dai ricorrenti, che neppure vi era certezza dell’esistenza della
documentazione genericamente indicata dalle difese degli imputati.
Per quanto eccentrico rispetto al tema cui è dedicato il motivo, nel medesimo
contesto i ricorrenti hanno collocato anche la denuncia dell’omessa motivazione
in ordine alla doglianza che si assume sarebbe stata avanzata al provvedimento
assunto ai sensi dell’art. 468, co. 4 cod. proc. pen. di autorizzazione del P.M. alla
citazione del prof. Tiziano Barbui quale teste a discarico rispetto alla prova della

63

esercitare in relazione alla correttezza della motivazione di un provvedimento

difesa rappresentata dalle escussioni dei consulenti Nicotera, Colombo e
Sennenzato. Al di là della mancanza di indicazioni in merito ai presupposti fattuali
necessari a verificare la ammissibilità della censura, sicchè questa Corte non è in
grado di verificare che l’eccezione al provvedimento del Tribunale fosse stata
tempestivamente avanzata e che il tema sia stato riproposto con l’appello, va
rilevato che si tratta di rilievo manifestamente infondato. Il fatto che si trattasse
di tema di prova – l’eziologia delle patologie tumorali – la cui centralità era nota
alle parti “sin dalle origini del presente procedimento” non rifluisce in alcun modo

omesso di depositare la lista dei testimoni nel termine di legge la facoltà di
chiedere la citazione a prova contraria dei testimoni, periti e consulenti tecnici
(cfr. Sez. 5, n. 41662 del 14/04/2016 – dep. 04/10/2016, Noronha Evando, Rv.
267863). Di qui l’inammissibilità originaria del motivo, che rende priva di
rilevanza anche una eventuale carenza motivazionale del giudice del gravame
(cfr., ex multis, Sez. 3, n. 53710 del 23/02/2016 – dep. 19/12/2016, C, Rv.
268705).
2.4. I vizi concernenti l’escussione del Ricci.
Il motivo XIV è manifestamente infondato.
Esso presenta due profili; per un primo si censura la nomina quale c.t. del
P.M. del dr. Paolo Ricci, che sarebbe nulla perché non può assumere tale ruolo
chi ha assunto quella di testimone; per un secondo, si censura la testimonianza
del Ricci, che essendo stato ausiliario del P.M. non avrebbe potuto assumere la
qualità di teste.
Si tratta di questioni che sono state già affrontate dal Tribunale, che le ha
ritenute infondate con ordinanze del 24 e del 31 maggio 2011 nonché del 2 luglio
2013; la Corte di Appello, dal canto suo, nel rigettare i motivi di appello che
contestavano la correttezza del giudizio del Tribunale ha svolto un’affermazione
fondamentale, ovvero che il Ricci non fu nominato dal p.m. consulente tecnico in
relazione alla (unica) perizia disposta d’ufficio dal Tribunale, quella affidata alle
cure del Prof. Betta; ma anzi il Ricci venne escusso nel dibattimento prima che
venisse disposta tale perizia, per riferire in merito all’esito della propria
consulenza tecnica. La lettura delle sentenze lascia ritenere che l’affidamento
dell’incarico al Ricci risalga alla fase delle indagini preliminari; gli esponenti
sembrano affermare che il Ricci venne nominato consulente del P.M. in corso di
giudizio. Si tratta di una circostanza priva di rilievo, posto che certamente la
nomina risale al tempo antecedente alla escussione del medesimo, poiché egli
venne sentito proprio in veste di esperto.
Sicché appare in primo luogo singolare che si lamenti la nullità di una nomina
perché successivamente l’esperto ha assunto la veste di testimone.

64

sul diritto alla prova contraria. Basti pensare che si riconosce alla parte che abbia

L’affermazione degli esponenti secondo la quale vi sarebbe una ‘ontologica’
incompatibilità tra il ruolo di testimone e quello di c.t. non è condivisibile nella
sua assolutezza.
Invero, il sistema processuale conosce alcune, definite, incompatibilità. Una
prima è prevista per il caso di perizia; il legislatore, nell’attribuire alle parti il
diritto di nominare propri esperti come modalità di esercizio del diritto alla
prova, ha escluso che taluni soggetti possano essere nominati dalle parti.
L’art. 225, co. 3 cod. proc. pen. prevede che non possa essere nominato

a), b), c), d); in particolare quest’ultima disposizione fa riferimento a “chi è stato
nominato consulente tecnico nello stesso procedimento o in un procedimento
connesso”. Ma i ricorrenti insistono nel non voler considerare l’essenziale dato puntualmente rimarcato dai giudici di merito – per il quale la norma posta dal
combinato disposto agli artt. 225, co. 3 e 222, co. 1 lett. d) si applica
unicamente al consulente tecnico nominato in forza della previsione del comma 1
dell’art. 225, per la quale “disposta la perizia, il pubblico ministero e le parti
private hanno facoltà di nominare propri consulenti tecnici in numero non
superiore, per ciascuna parte, a quello dei periti”.
Né si pone in dissonanza con quanto si sta affermando l’art. 233 cod. proc.
pen., che nel disciplinare l’ipotesi della consulenza tecnica affidata quando non è
stata disposta perizia contempla anche il caso che successivamente venga
nominato un perito, ribadendo il divieto di cui all’art. 225, co. 3 cod. proc. pen.
Quindi, anche quando la perizia venga disposta successivamente alla nomina di
un consulente tecnico fatta da taluna delle parti, non sarà a tale soggetto che la
parte, esercitando la facoltà prevista dall’art. 225, co. 1 cod. proc. pen., potrà
affidare l’incarico di consulente.
Come dalla incompatibilità del consulente già nominato a fare anche da
consulente a latere di una perizia si possa pervenire alla incompatibilità dei ruoli
di consulente e di testimone è interrogativo che la ripetuta lettura dei ricorsi
lascia senza soluzione.
In realtà, la giurisprudenza di legittimità insegna che è incompatibile con
l’incarico di consulente colui che ha assunto precedentemente la veste dì
testimone (cfr. Sez. 3, n. 37166 del 18/05/2016, dep. 07/09/2016, B. e altri,
Rv. 268310).
Quanto all’assimilazione del consulente tecnico all’ausiliario del giudice, come
rammentato tanto dal Tribunale che dalla Corte di Appello, l’orientamento che si
è consolidato nella giurisprudenza di questa Corte è che non sussiste
l’incompatibilità con l’ufficio di testimone per il consulente tecnico incaricato dal
P.M., non rivestendo costui la qualità di ausiliario dell’organo inquirente, in

65

consulente tecnico chi si trova nelle condizioni indicate nell’art. 222, co. 1 lettere

quanto è tale solo l’ausiliario in senso tecnico che appartiene al personale della
segreteria o della cancelleria dell’ufficio giudiziario e non invece un soggetto
estraneo all’amministrazione giudiziaria che si trovi a svolgere, di fatto ed
occasionalmente, determinate funzioni previste dalla legge (Sez. 5, n. 32045 del
10/06/2014, dep. 21/07/2014, Colombo e altro, Rv. 261652; Sez. 3, n. 24294
del 07/04/2010, dep. 25/06/2010, D.S.B., Rv. 247869; Sez. 3, n. 8377 del
17/01/2008, dep. 25/02/2008, Scarlassare e altro, Rv. 239282; Sez. 6, n.
33810 del 26/04/2007, dep. 04/09/2007, Ferraro e altro, Rv. 237156). In tal

richiamato dagli odierni ricorrenti: Sez. 3, n. 4526 del 26/11/2001,
dep. 06/02/2002, Er Regraui M., Rv. 221052) che avevano sostenuto
l’incompatibilità sia con l’ufficio di testimone (art.197, lett. d, cod. proc. pen.) sia
con quello di consulente tecnico dell’esperto di neuropsichiatria infantile che
abbia partecipato quale ausiliario all’assunzione delle sommarie informazioni rese
al Pubblico ministero dal minorenne offeso dal reato (cfr. Relazione dell’Ufficio
del Massimario della Corte di cassazione, n. 20131022 del 7/05/2013).
Del pari da respingere è l’interpretazione che si prospetta dell’art. 149 disp.
att. cod. proc. pen. In ogni caso, l’inosservanza del divieto posto da tale
disposizione – per il quale il teste da escutere non deve comunicare con le parti non comporta l’inutilizzabilità della testimonianza, ex art. 191 cod. proc. pen., il
quale concerne esclusivamente le prove illegittimamente acquisite. E sul
versante della nullità, va registrato l’orientamento di questa Corte per il quale la
violazione di una qualsiasi norma che detti regole per l’assunzione della prova
può comportare una irregolarità che, avuto riguardo alla sua natura e gravità,
può determinare la nullità assoluta o relativa, secondo il principio di tassatività,
ex art. 177 cod. proc. pen.; conseguenza che, tuttavia, non può derivare
dall’inosservanza del divieto di cui all’art. 149 disp. att. cod. proc. pen.,
trattandosi di norma regolamentare cui non è collegata alcuna sanzione
processuale (ex multis, Sez. 5, Sentenza n. 8367 del 26/09/2013,
dep. 21/02/2014, Calì, Rv. 259036).
Peraltro, la Corte di Appello ha puntualizzato che il Ricci venne escusso prima
dei c.t. delle parti civili e degli imputati, mentre non risultava presente, nel
tempo anteriore alla sua testimonianza, durante la deposizione di altri
dichiaranti.
2.5. La nullità dell’ordinanza che dispose la perizia a cura del Prof. Betta
Il motivo XVI è manifestamente infondato.
Ci si duole della illegittimità della disposizione della perizia, perché ne sarebbe
mancato il presupposto, costituito dalla sua assoluta necessità, con conseguente
violazione dell’art. 507 cod. proc. pen., del diritto di difesa, del principio di

66

modo sono stati disattesi e superati i due unici precedenti (uno dei quali

ragionevole durata del processo e dell’art. 508 cod. proc. pen.; ne deriverebbe
l’inutilizzabilità della perizia.
Va rilevato che l’esercizio positivo del potere da parte del giudice di disporre
l’assunzione di nuove prove a norma dell’art. 507 cod. proc. pen. pur quando
non vi sia assoluta necessità dell’acquisizione non determina alcuna
inutilizzabilità o invalidità, non prevedendo l’ordinamento processuale specifiche
sanzioni per la inosservanza della citata disposizione (e ciò persino se la
decisione del giudice non venga motivata: Sez. 2, Sentenza n. 6250 del

integrare una lesione del diritto di difesa è assunto che questa Corte, a fronte
della mera assertività della generica prospettazione difensiva, non può avallare.
Quanto ad una violazione del principio della ragionevole durata del processo,
questo può essere evocato quale parametro di costituzionalità di norme e quale
criterio interpretativo, ma non per dare corpo a pretese nullità o inutilizzabilità
processuali non espressamente individuate dal legislatore (cfr. in senso analogo,
Sez. 3, n. 47878 del 19/07/2012 Ud. (dep. 11/12/2012, Sozzi, Rv. 254067).
L’evocazione dell’art. 508 cod. proc. pen. appare priva di attinenza ai temi
posti con il motivo in esame.

3. La spiegazione causale. Motivi I e III
3.1. Il giudice, le parti e il sapere esperto
I temi di fondo posti dai motivi di ricorso che investono

l’attribuzione ai

ricorrenti degli esiti delle malattie professionali sono ormai consueti nella
giurisprudenza penale e sin anche nella letteratura giuridica dell’ultimo
decennio. Durante il quale in specie le malattie asbesto-correlate hanno fatto
irruzione nelle aule giudiziarie, sollecitando impegnative ricostruzioni non solo
sul piano probatorio ma ancor prima su quello teorico.
Sono note le ragioni. Trattandosi di malattie lungolatenti e per di più di
natura oncologica, la incompleta conoscenza del processo oncogenetico, in
generale e ancor più quello specifico della patologia che rileva, e le parallele
(ma non si può dire se sincroniche) modificazioni del contesto ambientale
entro

il quale

il

lavoratore

è stato

esposto

all’agente

nocivo

(modificazioni tanto oggettive, e si pensi alle variazioni di mansioni, all’adozione
di misure di prevenzione,

etc.;

che soggettive: l’evenienza

è quella

conosciuta come ‘successione dei garanti’) pongono rilevanti difficoltà
nell’accertamento delle responsabilità penali, che se davvero vuoi essere
ispirato al principio di personalità deve necessariamente pervenire ad
identificare la quota di contributo causale offerto da ciascuno dei soggetti ai

67

09/01/2013 Ud. (dep. 08/02/2013, Casali, Rv. 254497). Che ciò valga ad

quali è mossa contestazione all’insorgere o al progredire della malattia sino al
suo exitus.
Le progressive acquisizioni della giurisprudenza nazionale sono ormai ben
definite, come dimostra la lettura delle notevoli sentenze redatte dal
Tribunale di Mantova e dalla Corte di Appello di Brescia, qui in considerazione.
Il proscenio è dominato dalla conoscenza scientifica, alla quale si chiede
di offrire una vera e propria messe di leggi esplicative, già a partire da quelle
che permettono di accértare la causa della morte (si veda, proprio in tema di

P.G., P.C. in proc. Ferrentino e altri, Rv. 270379, in motivazione), o
l’esistenza e la misura della aerodispersione della fibra di asbesto, dei vapori
di benzene, per rimanere ai temi emersi nella presente vicenda
processuale; per non dire della stessa identificazione della regola cautelare
alla cui osservanza si sarebbe stati tenuti, risultando anch’essa operazione
che, o in quanto debitrice della migliore scienza e conoscenza o perché
traguardata sulla figura dell’agente modello, è debitrice del sapere
tecnico o scientifico consolidato.
Al netto della variabile incidenza che ogni altro tema presenta nelle
singole epifanie processuali, non v’è dubbio che nei procedimenti come
quello che ora occupa il centro dell’arena è dominato dalla causalità,
almeno nel senso che è proprio l’accertamento del nesso eziologico tra
condotta ascrivibile agli imputati ed evento in danno del lavoratore ad essere
investito dalle contrastanti prospettazioni delle parti sin dalle sue
fondamenta scientifiche.
Anche nel presente giudizio le censure degli imputati e del responsabile civile
ricorrenti si indirizzano in primo luogo alla motivazione resa dai giudici territoriali
in tema di nesso di causalità tra il mesotelioma pleurico, le placche pleuriche, il
tumore polmonare e la leucemia mieloide acuta e l’esposizione dei lavoratori agli
agenti nocivi amianto e benzene durante il tempo in cui prestarono l’attività
lavorativa presso lo stabilimento di Mantova.
Com’è noto il percorso ricostruttivo che impegna il giudice in tali casi è
fortemente determinato dalle conoscenze scientifiche acquisite a riguardo della
capacità oncogena specifica di un determinato fattore, delle modalità di azione
dello stesso, tanto sul quadrante biologico che su quello temporale.
Ed è ormai altrettanto patrimonio comune, quanto meno degli operatori del
diritto, l’insegnamento della giurisprudenza di legittimità secondo il quale nei
giudizi debitori del sapere esperto, che al giudice è precluso di farsi creatore
della legge scientifica necessaria all’accertamento (vuoi della causalità generale
che di quella individuale, per stare al campo che qui interessa). Poiché egli è

68

mesotelioma pleurico, Sez. 4, n. 5273 del 21/09/2016 – dep. 03/02/2017,

portatore di una ‘legittima ignoranza’ a riguardo delle conoscenze scientifiche,

“si

tratta di valutare l’autorità scientifica dell’esperto che trasferisce nel processo la
sua conoscenza della scienza; ma anche di comprendere, soprattutto nei casi più
problematici, se gli enunciati che vengono proposti trovano comune accettazione
nella comunità scientifica. Da questo punto di vista il giudice è effettivamente,
nel senso più alto, peritus peritorum: custode e garante della scientificità della
conoscenza fattuale espressa dal processo”.
Il giudice riceve quella che risulta essere accolta dalla comunità scientifica

dare patenti di fondatezza a questa piuttosto che a quella teoria.
L’acquisizione della legge che funge da criterio inferenziale non è però
acritica; anzi è in questo segmento dell’attività giudiziale che si condensa
l’essenza di questa.
Non essendo esplorabile in autonomia la valenza intrinseca del sapere
introdotto dall’esperto, l’attenzione si sposta sugli indici di attendibilità della
teoria: “Per valutare l’attendibilità di una teoria occorre esaminare gli studi che la
sorreggono. Le basi fattuali sui quali essi sono condotti. L’ampiezza, la rigorosità,
l’oggettività della ricerca. Il grado di sostegno che i fatti accordano alla tesi. La
discussione critica che ha accompagnato l’elaborazione dello studio, focalizzata
sia sui fatti che mettono in discussione l’ipotesi sia sulle diverse opinioni che nel
corso della discussione si sono formate. L’attitudine esplicativa dell’elaborazione
teorica. Ancora, rileva il grado di consenso che la tesi raccoglie nella comunità
scientifica. Infine, dal punto di vista del giudice, che risolve casi ed esamina
conflitti aspri, è di preminente rilievo l’identità, l’autorità indiscussa,
l’indipendenza del soggetto che gestisce la ricerca, le finalità per le quali si
muove”. Si è aggiunto che “il primo e più indiscusso strumento per determinare
il grado di affidabilità delle informazioni scientifiche che vengono utilizzate nel
processo è costituto dall’apprezzamento in ordine alla qualificazione
professionale ed all’indipendenza di giudizio dell’esperto”.
La corretta conduzione di tale verifica rifluisce sulla “logica correttezza delle
inferenze che vengono elaborate facendo leva, appunto, sulle generalizzazioni
esplicative elaborate dalla scienza”.
In ciò è anche l’indicazione del contenuto del sindacato del giudice di
legittimità, che attraverso la valutazione della correttezza logica e giuridica del
ragionamento probatorio ripercorre il vaglio operato dal giudice di merito non per
sostituirlo con altro ma per verificare che questi abbia utilizzato i menzionati
criteri di razionalità, rendendo adeguata motivazione (così, tra le più recenti,
Sez. 4, n. 12175 del 03/11/2016 – dep. 14/03/2017, P.C. in proc. Bordogna e

69

come la legge esplicativa – si dice ne sia consumatore – e non ha autorità per

altri, Rv. 270384-87, secondo un insegnamento risalente a Sez. 4, n. 43786 del
17/09/2010 – dep. 13/12/2010, Cozzini e altri, Rv. 248943).
Ma va anche puntualizzato che l’insegnamento di questo Corte implica, oltre
alle prescrizioni indirizzate al giudice, anche indicazioni in ordine al contegno
processuale delle parti ed un criterio di valutazione dei motivi di ricorso.
Come osservato da attenta dottrina, il principio dell’oltre ogni ragionevole
dubbio ha anche una dimensione pratica: da esso non discendono soltanto
indicazioni metodologiche che, indirizzate al giudice, lo ammoniscono sul come si

ciò la dimensione epistemica), ma anche prescrizioni che investono il piano
dell’azione. Ancora una volta principale destinatario è il decisore: al giudice di
appello che intenda riformare la sentenza di assoluzione dell’imputato sulla
scorta di una discorde valutazione dell’attendibilità della prova dichiarativa,
prescrive di rinnovare la stessa (cfr. Sez. U, n. 27620 del 28/04/2016 – dep.
06/07/2016, Dasgupta, Rv. 267492 e Sez. U, n. 18620 del 19/01/2017 – dep.
14/04/2017, Patalano, Rv. 269785). Ma anche per le parti si traggono direttive
concernenti il come agire.
In un processo tendenzialmente accusatorio qual è il vigente sistema
processuale l’onere di provare incombe sulle parti, con la distribuzione ben nota
che lascia gravare il maggior peso sull’accusa. La prova che le parti sono
richieste di fornire non può essere altra da quella che occorre al giudice. Dando
concretezza al discorso: se il giudice ha necessità di conoscere quale sia la tesi
scientifica maggiormente accreditata nella comunità degli studiosi, la parte che
intende appellarsi a quella tesi ha l’onere di dimostrare tale accreditamento
mentre la controparte potrà e dovrà resistere su quel medesimo terreno.
Ciò vuol dire che risultano in definitiva incongrui e di scarsa pertinenza tutti
quegli argomenti che non pongono in luce la carenza di consenso scientifico e
tendono piuttosto a dimostrare – ovviamente attraverso la ‘voce’ dell’esperto
chiamato in ausilio – la intrinseca debolezza di una determinata teoria. Non ci si
avvede, in tal modo, che si pretende di far coincidere il sapere accreditato con
l’opinione del singolo esperto attore sul proscenio processuale. Anche gli esperti
della parte che contesta la utilizzabilità di una determinata teoria quale criterio
inferenziale (o quale fonte di regola cautelare, ad esempio) devono
necessariamente contraddire sul medesimo campo della accettazione di quella
spiegazione da parte della comunità scientifica.
Questa Corte ha già avuto modo di puntualizzare, con specifico riferimento al
giudizio in tema di malattie asbesto-correlate, che “il solo serio dubbio, in seno
alla comunità scientifica, attinente un meccanismo causale rispetto all’evento è
motivo più che sufficiente per assolvere l’imputato. Viceversa, poiché la

70

■i

consegue una conoscenza processuale che a quel principio risulti informata (in

condanna richiede che la colpevolezza dell’imputato sia provata “al di là di ogni
ragionevole dubbio” il ragionamento sulla prova deve trovare il proprio aggancio
e la propria motivazione in un sapere scientifico largamente accreditato tra gli
studiosi. La generalizzazione scientifica, in altri termini, porterà alla condanna
oltre ogni ragionevole dubbio, solo qualora sia ampiamente condivisa dalla
comunità degli esperti” (Sez. 4, n. 55005 del 10/11/2017 – dep. 07/12/2017,
P.G., P.C. in proc. Pesenti e altri, Rv. 271718).
Invero, poiché l’art. 533, co. 1 cod. proc. pen. prescrive che la condanna può

ragionevole dubbio, l’affermazione di responsabilità presuppone – limitatamente
al punto in esame – che sia acquisito ‘oltre ogni ragionevole dubbio’ che la legge
di copertura sulla quale è assisa l’impostazione accusatoria sia riconosciuta dalla
comunità scientifica come quella maggiormente accreditata. Il che non richiede
di escludere l’esistenza di ogni tesi avversa o divergente; evenienza – quella
della solitudine di una teoria – invero puramente teorica e neppure pretesa dal
principio, che si connette all’idea di certezza ottimale. Ma impone ‘soltanto’ di
dare dimostrazione della marginalità – non sul piano logico ma proprio su quello
comparatistico – delle altre tesi in circolazione. Di contro, alla difesa è sufficiente
dimostrare l’esistenza di un serio dubbio in ordine alla maggior ‘fortuna’ della
teoria brandita dall’accusa; ancora una volta la dimostrazione prescinde – o
quanto meno non è data – dalla confutazione degli argomenti della teoria, a
meno che questa non rappresenti il riflesso delle motivazioni dello scarso seguito
della legge di copertura da parte della comunità scientifica. Sicchè il dubbio che
può essere sufficiente a far fallire l’accusa attiene esso stesso al ‘rango’ della
spiegazione scientifica che si vorrebbe fosse utilizzata dal giudice.
Come dovrebbe risultare palese, ciò nulla toglie al connotato garantistico del
principio in parola; a venire in considerazione non è la sufficienza del ‘serio
dubbio’ ai fini dell’eversione della tesi accusatoria ma è l’oggetto di esso.
Non sfugge certo a questa Corte che alla nitidezza dei concetti sovente non
corrisponde eguale evidenza del confine che corre tra censure che attengono al
merito della teoria e quelle che intendono evidenziare il vizio motivazionale in
ordine al sufficiente accreditamento. Ma la gravosità del compito non solleva dal
dovere di applicare con coerenza lo statuto della prova scientifica nel processo
penale.
3.2. La rilevanza causale dell’esposizione all’amianto rispetto ai decessi
determinati da mesotelioma pleurico e peritoneale
Con il primo ed il terzo motivo i ricorrenti lamentano che la Corte di Appello
abbia ritenuto dimostrata la valenza causale di tutte le esposizioni all’amianto
presso lo stabilimento di Mantova rispetto ai decessi dovuti a mesotelioma.
..

71

essere pronunciata solo quando l’imputato risulta colpevole oltre ogni

La censura si articola su più piani. Si contesta l’apparato motivazionale in
forza del quale la Corte di Appello ha ritenuto di poter assumere una legge di
spiegazione scientifica della causalità generale e quello inteso a dimostrare
l’inveramento di quella legge nei singoli casi dei lavoratori deceduti. Quanto al
primo aspetto, grande rilievo è accordato ai deficit motivazionali concernenti
l’affermazione dell’esistenza di un adeguato consenso nella comunità scientifica a
riguardo della valenza del cd. effetto acceleratore anche nel mesotelionna.
Occorre prendere le mosse dall’impostazione adottata dal Tribunale.

condivisa la teoria della dose-dipendenza sulla base di una serie di studi. Aveva
citato, come indicati dai ct. del p.m., gli studi Marinaccio et al. 2007, Robinson
M.B. 2012, Hilliard et al. 2003, Bianchi et. al. 2007, Hansen et al. 1998, Magnani
et al. 2008, Barone-Adesi et al. 2008, studi sperimentali sugli animali Wagner
e Berry nel 1969; Berry 2007, Lacourt et al., Berry et. al. 2012, Neumann et al.
2001 e 2011, Seidman, Selikoff et al. 1979, Iwatsubo et al. 1998, Jones
1980, Hobbs 1980, Bianchi et al. 1997, traendone la conclusione che “esiste
consenso unanime nella comunità scientifica nazionale e internazionale nel
ritenere che il mesotelioma maligno sia una patologia dipendente dalla dose
cumulativa di amianto alla quale la persona è stata esposta. Al crescere della
dose cumulativa aumenta nell’insieme degli esposti, in maniera proporzionale,
il numero di mesoteliomi, come conseguenza di due effetti: insorgono casi che
non sarebbero insorti, in presenza di una esposizione minore; i casi che
insorgono insorgono con tempi di latenza anticipati. Nel singolo caso i
due fenomeni non sono distinguibili”.
Pertanto la dose-dipendenza si esplicherebbe in due diversi modi: sul numero
delle occorrenze, ovvero sull’incidenza della malattia; sul tempo di latenza della
malattia. Si tratta di due aspetti non coincidenti. E dopo aver dato atto
dell’accreditamento della teoria che vuole la dose cumulativa influenzare il
numero delle malattie, il Tribunale aveva trattato anche il secondo aspetto,
affermando come sia “documentato in dibattimento che numerosi organismi
nazionali e internazionali danno ormai per assodata una relazione tra
dose/durata dell’esposizione e latenza, che viene indicata in numerosi
documenti ufficiali di consenso, linee guida, articoli scientifici”. Aveva quindi fatto
seguire l’elencazione dei testi ai quali intendeva riferirsi:
– il

Quaderno del Ministero della Salute n. 15 (maggio-giugno 2012),

intitolato

“Stato dell’arte e prospettive in materia di contrasto alle patologie

asbesto-correlate”, a firma di circa trenta esperti convocati dal Ministero per la
Salute italiano e redatto in collaborazione con altri 15 studiosi del settore, nel
quale si legge: “Sebbene alcune caratteristiche della relazione dose-risposta

72

Questo aveva ritenuto che nella comunità scientifica risulta sufficientemente

siano tuttora imperfettamente note, non vi sono, tuttavia, dubbi sull’esistenza di
una proporzionalità tra dose cumulativa e occorrenza di mesotelioma. Tale
relazione è stata supportata da rassegne della letteratura scientifica e da
revisioni sistematiche e metanalisi. L’aumento dell’incidenza di mesotelioma
dovuto a un periodo di esposizione ad asbesto è proporzionale all’ammontare di
tale esposizione e a una potenza del tempo trascorso da quando l’esposizione è
avvenuta. L’incidenza cresce con la terza/quarta potenza del tempo dalla prima
esposizione. Il tempo trascorso dall’esposizione assegna dunque un peso

Berry et al. in un recente studio di follow-up effettuato su una popolazione di
soggetti esposti ad asbesto in una miniera dell’Australia Occidentale, hanno
dimostrato come l’incidenza di mesoteliomi, pleurici e peritoneali,
presentasse una correlazione positiva con il tempo trascorso dalla prima
esposizione, raggiungendo un plateau dopo 40-50 anni e con l’entità
dell’esposizione complessiva all’asbesto. L’aumento dell’incidenza e
l’accelerazione del tempo all’evento sono fenomeni inestricabilmente connessi.
In ambito strettamente scientifico, dopo il contributo metodologico di Berry nel
2007 la discussione in merito appare definita. È importante ricordare che c’è
accordo nella comunità scientifica sulla circostanza che non sia possibile fissare
un livello soglia al di sotto del quale non vi sia rischio di mesotelioma”;

il

Rapporto della Seconda Conferenza Italiana di Consensus sul

mesotelioma pleurico maligno, tenutasi a Torino il 24 e il 25 novembre del
2011, nel quale si legge: “le fibre di amianto (AF) agiscono tramite meccanismi
diversi. I fattori principali che determinano il rischio di manifestazione del MM
comprendono il tipo e la dimensione delle fibre e il livello e il tempo di
esposizione. La nostra analisi sistematica della letteratura scientifica ha
dimostrato che il rischio di manifestazione del MM aumenta in proporzione alla
dose cumulativa e al carico polmonare di fibre”;

le

Guidelines of the European Respiratory Society and European

Society of Thoracic Surgeons for the management of malignant pleural
mesotelioma, 2010, nelle quali si legge che “è dimostrata una relazione doserisposta”;

il documento a cura della Federation Nationales des Centres de Lutte

contre le Cancer (Francia) intitolato Standars, options, reccomendations pour la
prise en charge des patients atteintes de mesotheliome malin de la pleure” del
1999, nel quale si legge che “la cancerogenicità delle fibre d”amianto dipende
dalle sue caratteristiche fisiche: in primo luogo, è stata dimostrata una relazione
dose-risposta in funzione di un indice di esposizione cumulativa che consideri i
tre parametri rappresentati da intensità, frequenza e durata dell’esposizione”;

73

maggiore alle esposizioni più remote, a parità di altre condizioni. A tale riguardo,

-

il documento dell’Asbestos Diseases Research Institute australiano

intitolato

Clinica! Practice Guidelines for the Diagnosis and Treatment of

Malignant Mesothelioma, nel quale

si legge che “è stata dimostrata una

relazione dose-risposta tra esposizione cumulative di amianto (intensità
aumentata o durata o entrambe) e mesotelioma”;

la

revisione

delle

conoscenze

commissionata

dal

Congresso

americano al National Research Council già nel 1984, la quale evidenziava che
“la malattia sembra indipendente dal fumo, mentre invece è correlata alla dose e

comitato ha concluso che i dati epidemiologici supportano l’uso di un modello
lineare, senza soglia”;

l’O.S.H.A., Federal Register, 1986 che, a proposito della relazione dose

risposta, considerava che l’evidenza per stabilire una relazione dose-risposta tra
esposizione ad amianto ed eccesso di rischio sia per il tumore del polmone che
per il mesotelioma fosse eccezionalmente forte;

le ulteriori pubblicazioni di singoli organismi nazionali (specificate e

illustrate alle pagg. 41 – 47 della memoria dei Pubblici Ministeri) in cui si fa
riferimento a una relazione tra intensità dell’esposizione e risposta in termini di
aumento del rischio di insorgenza della malattia.
Inoltre a nota 264 il Tribunale affermava che “risulta chiusa la discussione
relativa al legame tra aumento dell’incidenza e accelerazione della malattia;
principio, questo, studiato con riferimento ai tumori polmonari, ma ritenuto
pacificamente applicabile ai mesoteliomi”.
La pedante elencazione dei richiami operati dal Tribunale pone in chiaro come
essi sostengano la conclusione di una relazione tra dose e incidenza dei casi di
mesotelioma; mentre in nessuno di essi, per come riportati dal Tribunale, ad
eccezione del Quaderno del Ministero della Salute n. 15, si pone una
relazione tra dose e abbreviazione del tempo alla morte. Ed in quest’ultimo si
allude allo studio Berry 2007 come allo studio che ha dimostrato l’esistenza di un
effetto acceleratore anche nel mesotelioma.
Per incidens appare opportuno rilevare che nella disamina delle fonti citate dal
Tribunale ci si imbatte anche nel richiamo della giurisprudenza di questa Corte,
che attesterebbe l’esistenza di un ampio consenso della comunità scientifica
verso la tesi dell’effetto acceleratore. Va subito osservato, al proposito, che in
alcun modo si può ricercare nelle pronunce del giudice di legittimità la
‘validazione’ di questa o quella teoria scientifica. Il precedente giurisprudenziale
non costituisce il nomos in tema di sapere scientifico (cfr., in motivazione, Sez.
4, n. 12175 del 03/11/2016 – dep. 14/03/2017, P.C. in proc. Bordogna e altri,
Rv. 270385).

74

al tempo dalla prima esposizione (…). Per quanto riguarda la stima del rischio, il

Inoltre il Tribunale prospetta una personale interpretazione di alcuni degli
studi citati:
“lo studio sub 4 (BIANCHI et al., 2007) ha dimostrato che le latenze più
basse (20-30) anni si osservavano proprio nei lavoratori maggiormente esposti
per durata e dose, cioè nei coibentatori, che abitualmente maneggiavano
l’asbesto; tale risultato dimostra effettivamente, a parere del Tribunale, non
solo che l’aumento dell’esposizione fa crescere il numero dei casi di mesoteliomi
nel gruppo e, dunque, un mero aumento del rischio, ma anche – ed è ciò che più

un’anticipazione della comparsa della malattia e del tempo alla morte in tempi
più brevi;
– lo studio sub 5 (HANSEN et al., 1998 sui cittadini residenti a Wittenoom
(Australia), che ha evidenziato come lo stesso tasso di mortalità nella coorte
considerata venga raggiunto in tempi molto diversi nei tre gruppi con differente
esposizione cumulativa e segnatamente in tempi sensibilmente più brevi nel
gruppo maggiormente esposto e in tempi sensibilmente più lunghi nel gruppo
meno esposto dimostra, a parere del Tribunale, che la diversa esposizione
(per durata e dose) influisce in modo decisivo sulla latenza e, quindi,
sull’andamento della malattia, dovendo ritenersi che il maggior contatto col
cancerogeno acceleri il processo di cancerogenesi conducendo l’individuo esposto
alla morte in tempi più rapidi;
– lo studio sub 6 (sulla coorte dei lavoratori Eternit di Casale Monferrato)
ha evidenziato lo stesso identico fenomeno riscontrato nella coorte dei
residenti a Wittenoom, e cioè che all’aumentare dell’esposizione (rectius
della durata dell’esposizione) lo stesso livello di mortalità viene raggiunto con
un anticipo misurabile in termini di anni, con ciò dimostrandosi che una
prolungata esposizione fa correre più velocemente la malattia, nel
senso che ne anticipa l’insorgenza o ne abbrevia la latenza;
– lo studio sub 10 (BERRY et al., 2012, sui lavoratori della miniera di
Wittenoom) conferma, ancora una volta, il legame dose-risposta, poiché un
uguale tasso di mesoteliomi è raggiunto anticipatamente dai soggetti con
maggiore esposizione, sintomo questo che la malattia subisce un’accelerazione
per effetto di una prolungata esposizione al cancerogeno;
– lo studio sub 16 (BIANCHI et al., 1997): anche tale studio ha individuato
una latenza media dei coibentatori (categoria di lavoratori più esposta a fibre di
amianto) notevolmente più breve rispetto a quella degli altri gruppi
professionali”.

75

conta – che la prolungata esposizione (dose e durata) conduce a

Alla luce di quanto si è esposto al paragrafo 3.1., anche questa personale
valutazione non può valere a dimostrare l’accreditamento della tesi dell’effetto
acceleratore.
In conclusione, il Tribunale aveva fondato la tesi dell’esistenza di una
relazione tra dose ed accelerazione della malattia su quanto sostenuto nel
Quaderno n. 15, a sua volta incentrato sullo studio Berry 2007.
Orbene, gli appellanti avevano evidenziato come il Tribunale avesse sostenuto
che è dato acquisito dalla comunità scientifica la valenza dello studio Berry 2007

anticipazione della malattia) anche per il nnesotelioma (e ciò in forza
dell’applicabilità anche a tal ultima patologia del modello di distribuzione del
rischio denominato ‘distribuzione di Weibull’), ancorché tale assunto provenisse
unicamente dai consulenti tecnici del PM (Mirabelli, Merler, Magnani), mentre
tutta la letteratura scientifica internazionale non ha mai applicato o ritenuto di
poter applicare il modello di Berry al mesotelioma.
Con il motivo qui in esame si è lamentato che sul punto – oggetto dei motivi 1
e 3 dell’appello e ripreso dalle note di udienza del 20.11.2015 -, la Corte di
Appello non ha replicato.
Essa a pg. 49 ha riportato la prospettazione della difesa secondo la quale gli
stessi c.t. del p.m. avevano manifestato la non sicura applicabilità dello studio
Berry al mesiotelioma perché nel replicare alla lettera dell’epidemiologo
Zocchetti, avevano scritto: “Resta tuttavia da esplorare la loro (n.d.r.:dei modelli
di accelerazione del tempo all’evento nella analisi della mortalità o dell’incidenza
in studi di coorte) applicabilità all’analisi della mortalità non generale, ma causaspecifica …”.
Laddove la Corte di Appello ha replicato al rilievo (pg. 324 ss.), dopo aver
respinto la critica che segnalava la valenza delle conclusioni del Berry solo sul
piano della causalità generale, affermando che si trattava di un dato non in
discussione, si è soffermato sul nodo della relazione incidenza-accelerazione ed
ha riportato la posizione dei tre esperti del p.m. nel modo che segue: “…

i due

aspetti dell’andamento dell’incidenza cumulativa e dell’accelerazione della
comparsa in conseguenza di esposizione non sono scindibili (così Conferenza di
consenso sul Mesotelioma Pleurico Maligno, Risposta degli autori, Mira belli,
Merler, Magnani in Med. Lay., 2013, p. 479)”.
Di tutta evidenza la mancata esplicazione delle ragioni per le quali la Corte di
Appello ha ritenuto priva di rilievo la puntualizzazione segnalata dalla difesa e
proveniente proprio dai medesimi esperti nella citata replica. Non è dato sapere
se si è ritenuto il dato non rispondente al vero; se quella puntualizzazione è stata

76

(attinente la relazione tra aumento dell’incidenza del tumore polmonare e

poi superata nel medesimo scritto o in altra comunicazione; se e come essa sia
conciliabile con l’assunto fatto proprio dalla Corte.
Manifestamente illogica è poi la replica al secondo rilievo mosso dalle difese;
esse avevano lamentato che mentre la prima versione del Quaderno della salute
n. 15 riportava che “L’incremento della dose aumenta il rischio di sviluppare la
malattia, ma è oggetto di dibattito se influenzi la durata del periodo di induzione
della stessa”, nella seconda versione era riportata la ben diversa affermazione:
“L’aumento dell’incidenza e l’accelerazione del tempo all’evento sono fenomeni

di Berry nel 2007 la discussione in merito appare definita”.

E contestava che

questa seconda versione corrispondesse allo stato delle conoscenze condivise,
sia perché opera di nove persone e non di tutti gli autori che avevano assunto la
paternità della prima, sia perché esse erano impegnate in vari procedimenti
penali come consulenti della pubblica accusa.
A tanto la Corte di Appello ha replicato che l’affermazione del prof. Pira, di
non essere mai stato consultato, e che altrettanto valeva per gli altri autori, non
era stata suffragata da elementi di riscontro; che il Pira non aveva assunto
alcuna iniziativa ufficiale e che la seconda versione non aveva mai trovato
smentita.
Tale motivazione risulta manifestamente illogica perché pretende di trarre lo
stato delle conoscenze scientifiche consolidatosi a livello internazionale da dati
del tutto formali ed estrinseci. Laddove la Corte di Appello avrebbe dovuto
verificare, in presenza dei dubbi sollevati dalla difesa, quali nuovi elementi erano
intervenuti nel panorama di quelle conoscenze che fossero capaci di giustificare
un così palese cambio di posizione, peraltro in un arco temporale in definitiva
ristretto (prima versione maggio 2012, seconda versione anteriore al novembre
2013, data di escussione del Pira in dibattimento). Non erra la difesa quando
sostiene che in tal modo la Corte di Appello ha sostanzialmente eluso il tema;
che non era quello della attendibilità del Pira bensì quello della corrispondenza
delle affermazioni della seconda versione allo stato delle conoscenze scientifiche
condivise a livello internazionale. Ed è quindi manifestamente illogica la
conclusione della Corte di Appello, secondo la quale

“le conclusioni cui sono

pervenuti i diversi studiosi ed esperti dunque rimangono quelle riportate e
costituiscono un rilevante riscontro della condivisione e accreditamento della tesi
in ambito scientifico” , considerato che essa non ha verificato quali studi – o
revisione di studi già noti – fossero intervenuti tra il 2012 ed il 2013 che
giustificassero una così radicale modifica della prima conclusione.
Un simile approccio tradisce le indicazioni metodologiche provenienti da
questa Corte, perché il collegio distrettuale si è limitato a recepire acriticamente

77

inestricabilmente connessi. In ambito scientifico, dopo il contributo metodologico

la seconda versione (ma tanto sarebbe valso anche per la prima, se fosse stata
contestata la sua rispondenza allo stato delle conoscenze accreditate) senza
svolgere alcuna indagine in ordine alla ricorrenza degli indici di attendibilità
suggeriti da questa Corte e dal dibattito epistemologico.
La medesima lacuna è in definitiva ravvisabile anche nell’esame della
rilevanza dello studio Frost 2013. La corte territoriale ha ritenuto la
inattendibilità delle conclusioni alle quali era pervenuta la studiosa, secondo le
quali “non vi è sufficiente evidenza che a maggiore esposizione corrisponda
sulla base di obiezioni che sono state presentate come

provenienti da taluni studiosi (Consonni e Mirabelli), ma senza dare conto di
quale fosse l’accreditamento dello stesso presso la più ampia comunità
scientifica; senza neppure accennare alla attendibilità delle fonti donde
provenivano le obiezioni; addirittura lasciando sospesa la rivendicazione di
persistente validità del proprio studio fatta dalla Frost in replica a quelle critiche.
Ma non è tutto; nel tessuto argomentativo elaborato dalla Corte di Appello si
coglie anche un’ulteriore deviazione dai principi posti dal giudice di legittimità.
Per replicare al rilievo mosso dagli appellanti la Corte di Appello, all’esito di un
excursus mirato ad evidenziare il sostanziale convergere delle stesse difese sulla
teoria della dose-dipendenza del mesotelioma, è pervenuta alla seguente
conclusione: “la teoria della “dose-dipendenza”, avallata dalla difesa, secondo cui
a maggior esposizione corrisponde maggior incidenza della malattia, una volta
legata alla teoria, ritenuta maggiormente accreditata da questa Corte, della
cancero genesi multistadiale e alla natura di cancerogeno complesso dell’amianto
necessariamente implica che tutte le esposizioni aggravano sia la fase della
iniziazione sia alla fase della promozione e sono in grado di accelerare gli
eventi”.
In questa sede non è in questione l’adozione da parte della Corte di Appello
della teoria della dose-dipendenza, della cancerogenesi multistadiale e della
natura dell’amianto di cancerogeno completo, perché assunti non investiti da
specifiche censure da parte dei ricorrenti, che al proposito si sono limitati a
generiche contestazioni. Quel che rileva è che, saldando insieme i tre fenomeni,
la corte distrettuale ha creato una spiegazione causale il cui fondamento non è
né esplicato né giustificato; giustificazione tanto più necessaria alla luce della
centralità attribuita dagli stessi giudici allo studio Berry 2007, con la connessa
rilevanza del dubbio concernente la estensibilità delle sue conclusioni al
mesotelioma.
Concludendo sul punto: la Corte di Appello era stata chiamata a verificare se
davvero esistesse un diffuso consenso in merito all’effetto acceleratore, tenendo

78

minore latenza”

presente le critiche che erano state indirizzate al richiamo operato al Quaderno
n. 15 e allo studio Berry 2007.
Il compito è stato sostanzialmente eluso perché la corte distrettuale non ha
operato un accertamento della rispondenza allo stato dell’arte di quanto ha
inteso trarre da quei documenti.
Eppure si tratta di uno snodo decisivo. Specie nei casi nei quali la fase
dell’iniziazione è particolarmente risalente, è proprio dall’esistenza di una
relazione esposizione-progressione della patologia (nei termini più volte

comportamenti tenuti da ciascuno o alcuni degli imputati. Segmento del percorso
ricostruttivo di tale decisività che una irrisolta ambiguità o una incertezza in
ordine all’effettivo riconoscimento di quella legge è in grado di fondare il
ragionevole dubbio il cui mancato superamento impone una decisione
assolutoria, ai sensi dell’art. 533, co. 1 cod. proc. pen.
La regola di giudizio incentrata sull’oltre ogni ragionevole dubbio va applicata
tenendo presente l’intero compendio probatorio che, nel suo insieme, non deve
lasciare in campo ragionevoli ricostruzioni alternative a quella accusatoria. E’
quindi possibile – ed è anzi l’evenienza ordinaria – che taluna delle acquisizioni
parziali sia suscettibile di interpretazione non esclusiva, ferma restando la
necessità che l’elemento di prova sia certo nella sua esistenza materiale. E’
parimenti chiaro che tra i diversi elementi di prova alcuni assumono un
particolare rilievo ai fini del conclusivo accertamento; è per l’appunto il caso della
cd. legge dell’effetto acceleratore.
3.3. La causalità individuale nei casi di mesotelioma. Motivo III
Trattando della natura multistadio del meccanismo di cancerogenesi, il
Tribunale aveva richiamato le indicazioni provenienti dalla comunità scientifica,
per la quale il complessivo processo si suddivide in tre fasi: l’iniziazione, la
promozione e la progressione.

“Nella fase di iniziazione” –

rammentava il

Tribunale riportando quanto appreso dagli esperti – “una o più cellule staminali,
a seguito del contatto col cancerogeno, subiscono una o più mutazioni,
divenendo cellule iniziate: queste cellule sfuggono parzialmente ai meccanismi di
controllo e regolazione del ciclo replica tivo cellulare; esse, da un lato,
acquisiscono un vantaggio proliferativo (o di crescita) rispetto alle cellule non
iniziate, dall’altro trasmettono alle cellule figlie le alterazioni di cui sono
portatrici.
Nella successiva fase della promozione l’accelerata replicazione delle cellule
iniziate e della loro intera linea cellulare dà luogo all’espansione clonale,
risultando così un’aumentata popolazione di cellule-clone che hanno già acquisito
alcune delle alterazioni genetiche nel percorso verso la malignità.

79

precisati) che si possono trarre conclusioni in merito alla incidenza causale dei

L’agente cancerogeno è in grado di spiegare i suoi effetti su entrambe le
due fasi considerate (che rappresentano la fase dell’induzione).
Infine, durante la fase della progressione, il processo proliferativo diventa in
grado di progredire in maniera irregolare, disordinata e autonoma, senza,
cioè, la necessità di ulteriori stimoli provenienti dal contatto col cancerogeno:
questa è la fase in cui si può parlare più propriamente di insorgenza della
neoplasia, sebbene, perché la malattia possa essere dia gnosticabile, sia
necessario attendere un periodo di progressione più o meno lungo,

evidenti (infatti, in via convenzionale, un tumore è considerato evidente quando
raggiunge almeno un centimetro di diametro e un grammo di peso; in questo
stadio dell’evoluzione, la neoplasia è già composta da circa un miliardo di cellule
neo formate).
La fase di progressione, intesa, quindi, nel senso di periodo intercorrente tra
il momento in cui il processo neoplastico diventa autonomo al momento
dell’evidenza clinica della neoplasia ha una durata che si attesta sui dieci anni
(potendo essere più breve nel caso del tumore al polmone, rispetto al
mesotelioma). Per tale ragione, i dieci anni precedenti al decesso per neoplasia,
anche se caratterizzati da ulteriore esposizione al cancerogeno, vengono
ragionevolmente esclusi in termini causali o concausali” (così a pg. 357).
Il Tribunale poi operava alcune puntualizzazioni intorno al concetto di latenza
e alla sua durata, con specifico riferimento al mesotelioma.
Affermava che “per latenza di una neoplasia si intende l’intervallo di tempo
intercorrente tra il completamento del processo di trasformazione maligna nella
sua cellula capostipite e l’evidenza clinica della malattia. Per i tumori da amianto,
come del resto per tutte le altre malattie neoplastiche causate da agenti esogeni,
il momento esatto in cui si verifica il completamento del processo di
cancero genesi non è (né può essere) riconoscibile. È, infatti, possibile
misurare esclusivamente il tempo trascorso dall’inizio dell’esposizione al
cancerogeno (talora corrispondente, convenzionalmente, con l’inizio dell’attività
lavorativa in cui sia noto l’utilizzo del cancerogeno) che, quindi, include anche la
fase di iniziazione (o induzione) della neoplasia. La definizione più appropriata di
tale periodo sarebbe “induzione-latenza”, ma nell’uso comune esso viene
denominato semplicemente “latenza”; con il termine “latenza biologica” o
“latenza vera” viene, invece, indicato l’intervallo sopra indicato, che intercorre
tra completamento del processo di trasformazione ed evidenza clinica; infine,
con il termine “latenza clinica” si indica l’intervallo di tempo intercorrente tra la
diagnosi e il decesso.

80

indispensabile affinché il tumore raggiunga dimensioni che siano clinicamente

Nelle neoplasie in generale, si ritiene che per raggiungere lo stadio di
evidenza clinica …, sia necessaria una latenza biologica di circa tre anni nei tipi
più aggressivi, ovvero di circa 8-12 anni negli altri casi.
Tenuto conto della velocità di sviluppo dopo la diagnosi, anche ai
mesoteliomi si ritengono ragionevolmente applicabili tali stime” (pg. 377).
Dunque, il Tribunale individuava un periodo di induzione-latenza (o latenza
tout court), un periodo di latenza vera ed un periodo di latenza clinica.
Una pagina più avanti aggiungeva che la media del periodo di ‘induzione-

anni, “anche se sono riportati in alcuni lavori scientifici rari casi di mesotelioma
con latenze inferiori (10-15 anni)”.

Si tratta, chiosava il primo giudice, di

“acquisizioni scientifiche … (che) non sono state oggetto di serio contrasto tra le
parti e tra i rispettivi consulenti (salvo gli aspetti più critici di cui si è detto), i
quali si sono mostrati sostanzialmente concordi sulla pressoché totalità delle
questioni esaminate” (pg. 378).
Può rilevarsi come il Tribunale mostri una certa ambiguità terminologica,
parlando dapprima di iniziazione come di una delle due fasi dell’induzione
(l’altra essendo la promozione) e poi utilizzando iniziazione ed induzione come
sinonimi. Eppure si comprende che risulta indicato con la locuzione induzionelatenza il periodo che va dall’inizio dell’esposizione (che convenzionalmente si
fa coincidere con l’inizio del processo patogenetico) al momento in cui si ha il
completamento del processo di trasformazione maligna della cellula
capostitipte; dopo il quale ha luogo il periodo di latenza vera, ovvero quel
periodo che il Tribunale definisce come “l’intervallo di tempo intercorrente tra il
completamento del processo di trasformazione maligna nella sua cellula
capostipite e l’evidenza clinica della malattia”.
Poste tali premesse occorre portare l’attenzione sulle connotazioni
temporali. Per il Tribunale la durata media della ‘induzione-latenza’ è
nell’ordine di 35-40 anni, in un range che va da 20 a 70 anni, anche se sono
riportati in alcuni lavori scientifici rari casi di mesotelioma con latenze inferiori
(10-15 anni); mentre la latenza biologica (o latenza vera) sarebbe di circa tre
anni nei tipi più aggressivi e di circa 8-12 anni negli altri casi, ai quali riconduce
il mesotelioma.
Ciò significa – e in un passo precedente lo osservava anche il Tribunale – che
non è nota la durata della fase di iniziazione e pertanto è sconosciuta e non
conoscibile – allo stato – la durata della fase di promozione.
Nonostante fosse questo il quadro tracciato, il Tribunale non ne ha tenuto
conto, perché quando ha indagato la causalità individuale ha fatto perno
essenzialmente sulla teoria della dose-dipendenza. Così, ad esempio, nel caso

81

latenza’ viene stimata nell’ordine di 35-40 anni, in un range che va da 20 a 70

del Ballesini: “la natura dose-dipendente del mesotelioma (secondo una legge
di copertura di carattere universale) consente di ritenere che tutte le
esposizioni verificatesi in detto periodo (quello dal 23 luglio 1973 al 23 maggio
1980: ndr) siano state causalmente rilevanti per l’insorgenza o l’accelerazione
della malattia: ogni singola esposizione avvenuta in detto periodo, infatti, ha
avuto come effetto quello di accelerare la comparsa del mesotelioma, nel caso
in cui essa non fosse ancora insorta, ovvero di accelerare il suo andamento in
caso di malattia già insorta, non rilevando l’esatto momento di insorgenza della

27/08/2012)”. In queste parole è totalmente assente la considerazione della
questione della esistenza di stadi diversi del processo; che viene solo
adombrata nella rapida considerazione della durata della induzione-latenza:

“la

latenza (quale periodo intercorrente tra inizio dell’esposizione in Montedison,
convenzionalmente coincidente con l’inizio dell’attività all’interno del reparto
ST9, e manifestazione clinica della patologia) ha avuto durata relativamente
breve, pari a circa 20 anni – decisamente inferiore alle latenze medie”.
Il ragionamento condotto dal Tribunale ha una sua intrinseca coerenza: la
dose-dipendenza viene intesa come fenomeno che incide sull’evoluzione della
malattia, si intuisce (anche) abbreviando il tempo alla morte; è un fenomeno
che si realizza immancabilmente: il giudice di primo grado la qualifica
esplicitamente come legge universale. In questa prospettiva il solo dato che
assume rilievo finisce per essere quello della latenza vera: tutte le esposizioni
che si sono verificate prima degli ultimi dieci (otto?, dodici?) anni di vita del
lavoratore sono causalmente efficienti.
Ma l’impianto costruito dalla Corte di Appello è significativamente diverso.
Sollecitato dalle difese degli imputati che rimarcavano il duplice profilo della
dose-dipendenza, che può intendersi sia come correlazione tra dose
(cumulativa) ed incidenza di malattia sia come correlazione tra dose e durata
della latenza, il giudice di secondo grado ha convenuto sulla distinguibilità dei
profili ed ha affermato il carattere probabilistico della legge epidemiologica
dell’effetto acceleratore, sostenendo che non è possibile individuare i singoli
esposti per i quali esso opera: “…

i casi non equivalgono a soggetti

individuabili, per cui, tra i vari soggetti che si ammaleranno in un certo arco
temporale dalla prima esposizione, potranno esservi casi in cui la latenza non è
stata accelerata dalla esposizione …”. Da una simile puntualizzazione (ancora a
pg. 322 la corte territoriale spiega che si tratta di una legge statistica) deriva,
nel caso in cui la questione sia quella di individuare tra i garanti succedutisi a
quale di essi debba essere rimproverato di aver contribuito all’abbreviazione

82

stessa (Cass. pen., Sez. 4, Sentenza n. 33311 del 24/05/2012 Ud. (dep.

della latenza, la necessità di accertare: a) per quali lavoratori si sia prodotto
l’effetto acceleratore; b) in quale arco temporale.
Ed invero, in tema di utilizzo di leggi statistiche, e con specifico riferimento
alle patologie asbesto-correlate, questa Corte ha precisato che anche quando
non sia in discussione che l’amianto sia causa di mesotelioma, che esiste una
correlazione tra l’entità dell’esposizione ed il rischio di ammalarsi e persino
quando si assume che ogni esposizione ricadente nel periodo di induzione ha
incidenza sul processo cancerogenetico, deve essere tenuto presente che il

sufficiente a risolvere il problema causale quando durante il periodo di
esposizione rilevante sia necessario distinguere sub-periodi in dipendenza
dell’avvicendarsi di diversi garanti, perché in tal caso è necessario poter
affermare che proprio nel sub-periodo in considerazione si è determinata
(l’insorgenza o) la ulteriore evoluzione del processo morboso. Tanto chiama in
causa innanzitutto la natura – universale o probabilistica – della legge di
spiegazione causale utilizzata. Ove si tratti di legge probabilistica, poiché l’effetto
acceleratore non si verifica in tutti i casi, il giudice è tenuto ad individuare i segni
fattuali che permettono di affermare che in ciascuno dei differenti periodi definiti dall’avvicendarsi degli imputati nel ruolo di garante – si è prodotto
l’effetto in via teorica possibile.
In ordine al modello di spiegazione causale da adottarsi ove la legge utilizzata
abbia natura probabilistica ed in particolare quando si tratti della legge
sull’effetto acceleratore, la più volte menzionata sentenza Cozzini ha affermato:
“il sapere generalizzante probabilistico (in senso statistico) trasmette tal quale
nella conclusione del ragionamento il coefficiente percentualistico che
caratterizza la legge: se la probabilità di sopravvivere all’infarto è dell’85%, il
singolo paziente sarà teoricamente portatore, in prima approssimazione, di una
tale probabilità di salvezza. Le particolarità del caso potranno poi,
eventualmente, modificare la prognosi in rapporto alla condizione del singolo,
concreto malato. Subentra, in tale secondo passaggio, un momento valutativo,
“vago”, articolato alla luce della base induttiva, cioè delle peculiarità del caso
concreto, che si esprimerà in termini di probabilità logica: espressione che
designa (anche questo deve essere ripetuto) non un dato numerico ma un
apprezzamento conclusivo, un giudizio dotato di particolare affidabilità, di
speciale credibilità razionale”.
Con specifico riferimento al tema che qui occupa, la Corte ha ulteriormente
precisato: “ove la legge relativa all’effetto acceleratore fosse solo probabilistica
…, ciò significherebbe che lo stesso effetto si determinerebbe solo in una
determinata percentuale dei casi e comunque non immancabilmente. Dunque,

83

postulato della incidenza di ciascuna esposizione (ovvero dose inalata) non è

traducendo tale informazione probabilistica nell’inferenza deduttiva del caso
concreto si perverrebbe alla conclusione che il lavoratore aveva solo la
probabilità (statistica) di subire l’accelerazione dell’evoluzione del processo
carcinogenetico; con l’ulteriore conseguenza che agli imputati che hanno operato
in azienda dopo l’iniziazione non potrebbe essere mossa l’imputazione causale
condizionalistica che, come è noto, richiede un certo ruolo eziologico della
condotta rispetto all’evento”. A meno che “le contingenze del caso concreto siano
appunto se possibile copiose e comunque significative; e, per le loro peculiari

del sapere utilizzato nell’inferenza deduttiva. … Si vuol dire che, in ipotesi
astratta, il carattere probabilistico della legge potrebbe condurre alla
dimostrazione del nesso condizionalistico solo ove fossero note informazioni
cronologiche e fosse provato, ad esempio, che il processo patogenetico si è
sviluppato in un periodo significativamente più breve rispetto a quello richiesto
nei casi in cui all’iniziazione non segua un’ulteriore esposizione. Analogamente
potrebbe argomentarsi ove fossero noti i fattori che nell’esposizione protratta
accelerano il processo ed essi fossero presenti nella concreta vicenda
processuale”.
Forte è quindi il richiamo all’accertamento dell’effettivo inverarsi dell’effetto
acceleratore.
Su questo versante la Corte di Appello si è sottratta al compito. Si trattava di
accertare se la legge statistica dell’abbreviazione della latenza si era verificata
nei singoli casi all’esame; quindi di accertare se per ciascun periodo di
esposizione presso Montedison dei lavoratori Ballesini, Beduschi, Calore, Cusini,
Donzellini, Lana, Monici e Rossin vi fossero le tracce di un’abbreviazione della
latenza. La Corte di Appello ha ritenuto di svolgere il tema affidandosi ad un
criterio di credibilità razionale, che nella specie risulta un mero artificio verbale,
vuoto com’è di una significativa base fattuale.
Occorre rammentarlo ancora: sono necessarie, almeno, informazioni
cronologiche ed occorre poter affermare che il processo patogenetico si è
sviluppato in un periodo significativamente più breve rispetto a quello richiesto
nei casi in cui all’iniziazione non segua un’ulteriore esposizione; devono essere
noti i fattori che nell’esposizione protratta accelerano il processo ed essi devono
essere presenti nella concreta vicenda processuale.
Ed invece la Corte di Appello si è limitata a porre in relazione tra loro
l’esistenza di un’esposizione all’amianto nel periodo di interesse per gli imputati
ai quali è ascritto il delitto, il ‘rispetto’ della durata del periodo di latenza vera e
la durata della latenza convenzionale. Esattamente come il Tribunale, che però
partiva dalla premessa ben diversa del carattere universale della teoria della

84

caratterizzazioni, riescano a risolvere il dubbio insito nel carattere probabilistico

dose-dipendenza (peraltro senza distinguere tra dipendenza del numero delle
occorrenze e dipendenza della durata del tempo alla morte).
Né viene in soccorso l’affermazione che la Corte di Appello opera a pg. 328,
quando si interroga sulle modalità di accertamento della causalità individuale:
“In definitiva la legge sarà smentita nel momento in cui emergano nell’ambito
del giudizio concreto, elementi che consentano di affermare che vi sono ragioni o
situazioni alternative che indicano che il singolo decorso causale possa essere
stato diverso da quello emergente dalla regola statistica/epidemiologica”.

La

applica come se si trattasse di accertare se un determinato fattore nocivo sia
stato causa della malattia di uno specifico soggetto, mentre si tratta di accertare
se la malattia di questi sia progredita in un definito periodo di esposizione.
E’ sufficiente esaminare i dati che la corte distrettuale ha ritenuto salienti
nella prospettiva dell’accertamento della causalità individuale: sono ancora e solo
il periodo di esposizione e la durata della latenza vera, ai quali viene associato il
giudizio imperniato sulla ‘credibilità razionale’.
Per il Ballesini è stato ritenuto un periodo di esposizione compreso tra il 1973
ed il 1980; gli imputati chiamati a rispondere dell’omicidio colposo sono il Gatti
ed il Cirocco, che tra il 1976 ed il 1980 ricoprirono rispettivamente i ruoli di
datore di lavoro e di dirigente. Orbene, la corte distrettuale si è limitata ad
affermare che “per escludersi la penale responsabilità dei due imputati dovrebbe
ipotizzarsi che la fase dell’induzione/promozione si fosse già “consumata
interamente” nel marzo 1976, e che le esposizioni dal marzo 1976 al 23 maggio
1980 non abbiano avuto efficacia causale alcuna. Ciò, per quanto sopra
osservato, non ha alcuna credibilità razionale”. Non vi è traccia della indagine
sull’inveramento della legge di copertura di carattere statistico.
Anche per il Cusini la Corte di Appello si è limitata a considerare il periodo di
esposizione (1970-1978), il periodo di latenza convenzionale (1970-1999) e la
coerenza del periodo di latenza vera, senza dare alcuna indicazione delle ragioni
per le quali ha ritenuto che l’effetto acceleratore si fosse concretamente prodotto
sia nel periodo in cui il Mazzanti fu datore di lavoro che in quello in cui operarono
il Gatti ed il Cirocco.
Quanto al Lana, la Corte di Appello identifica quale complessivo periodo di
esposizione quello tra il 1961 ed il 1972; il Mazzanti, chiamato a rispondere
dell’omicidio, fu datore di lavoro dal 1970 al 1072. Anche in questo caso non
sono chiarite le ragioni per le quali si è ritenuto che la legge statistica abbia
operato nel tempo in cui il Mazzanti ricoprì il ruolo.
Il Beduschi è stato ritenuto esposto (esclusivamente presso Montedison) dal
1958 al 1981; anche in tal caso la Corte di Appello non ha spiegato su quali basi

85

corte distrettuale allude al criterio della esclusione delle cause alternative; ma lo

ha ritenuto che si fosse prodotto l’effetto acceleratore nel periodo in cui fu datore
di lavoro il Mazzanti e in quello relativo al Gatti ed al Cirocco, nonché in quello
concernente il Fabbri. Ma in particolare per questo lavoratore la Corte territoriale
ha fatto applicazione della congettura concernente la risposta soggettiva della
quale si scriverà a breve.
Per il Donzellini la Corte di Appello identifica un primo periodo di esposizione,
dal 1958 al 1960, ed un secondo, dal 1974 al 1984; in questo secondo si
succedettero il Gatti, con il Cirocco, il Morrione ed il Fabbri.

limitata ad asserire la credibilità razionale della rilevanza di ogni periodo di
esposizione.
Coglie nel segno la censura difensiva, di un utilizzo della legge statistica come
se si trattasse di una legge universale.
Non solo; ma a fronte di periodi di latenza particolarmente ampi in
associazione a maggiore esposizione – dato che contrasta non già con la legge
generale ma con l’ipotesi di un suo inveramento nel caso concreto – la Corte di
Appello ha utilizzato una chiave di spiegazione priva di dignità scientifica;
ovvero, che “se, rispetto alla media degli ugualmente esposti, un lavoratore si
ammala dopo, se “resiste di più”, ciò non mina la validità della legge di copertura
individuata per ricostruire la causalità generale perché si potrebbe comunque
osservare che, se l’esposizione fosse stata minore di quella assunta, quel
soggetto specifico si sarebbe ammalato ancora dopo rispetto a quanto
concretamente avvenuto. Infatti, è prospettabile che, se la latenza in un singolo
caso è stata più lunga rispetto a quella di un compagno pari o meno esposto, in
assenza di ulteriore esposizione il soggetto si sarebbe ammalato in un tempo
ancora successivo o non si sarebbe ammalato affatto. Quella morte a una certa
data, seppure a latenza più lunga rispetto ad altri, dipende sempre da una serie
di esposizioni successive, e non comporta la negazione della regola generale,
poiché il singolo individuo esposto può essersi ammalato “prima” non rispetto
alla media, ma rispetto al suo “personale lungo termine”.
Su quali fondamenta la corte poggi tali affermazioni non è possibile
apprendere dalla lettura della sentenza; e poiché la Corte di Appello fa ricorso a
parametri non misurabili né conoscibili, abbandona il tracciato della spiegazione
razionale. L’insegnamento di questa Corte è della necessità di un continuo
trascorrere dalle ipotesi ricostruttive ai fatti, con un atteggiamento incline a
ricercare non già la conferma della tesi ma piuttosto il suo punto di crisi. In ciò il
richiamo alla necessità di mantenere costante la dialettica tra ipotesi e fatti.
La Corte di Appello si è limitata ad una dialettica meramente retorica.

86

Anche per il Calore si sono succeduti plurimi garanti; e la corte territoriale si è

I ricorrenti si sono anche doluti, con il motivo 111.2., della affermazione per la
quale il periodo di progressione (ovvero di latenza vera), quello che va dal
completamento del processo patogenetico alla sua evidenza clinica, avrebbe una
durata di dieci anni. La critica si fa forte essenzialmente di un argomento logico:
poiché gli stessi giudici ritengono che il momento di completamento della
cancerogenesi è ignoto ed inconoscibile, non può affermarsi che è conosciuto il
periodo che segue a tale momento.
Lo specifico rilievo non coglie il segno. Da un canto risulta palese che

epidemiologiche e non da osservazioni dirette del processo biologico. Non vi è
quindi in essa la pretesa di definire con esattezza il momento in cui cessa la fase
della induzione (iniziazione+promozione) ed inizia quella della
progressione/latenza vera, per dirla con le parole dei giudici del processo. Sicché
i ricorrenti avrebbero dovuto almeno esprimere che la precisa datazione del
momento di inizio della latenza vera era fattore decisivo ai fini del giudizio di
responsabilità per uno o più di loro. Infatti è chiaro che quando si danno tempi
tra la fine dell’esposizione e il decesso (che si è scritto seguire in genere di pochi
mesi la diagnosi clinica) ben superiori a quel termine (Ballesini: ventitre anni;
Donzellini e Lana: ventidue anni; Cusini: quindici anni; Monici: quattordici anni),
la questione ha rilievo solo astratto.
Dall’altro la critica si muove su un piano eccentrico rispetto al nodo proposto
dalla prova scientifica. Il Tribunale e la Corte di Appello hanno sostenuto che
nella comunità scientifica è condivisa la tesi di una durata del periodo di latenza
vera del mesotelioma di circa dieci anni: gli argomenti utilizzati dai ricorrenti non
confutano siffatta asserzione.
In realtà, le difese intendono contestare che possa fondatamente sostenersi
l’efficienza causale di tutte le esposizioni precedenti agli ultimi dieci anni,
calcolati a ritroso dal momento della diagnosi della malattia. Anche tale censura
non può valere l’annullamento della decisione, per la fondamentale ragione che
essa coglie un passaggio motivazionale puramente retorico.
Come dovrebbe essere chiaro alla luce di quanto si è già osservato,
nell’economia della motivazione resa dalla Corte di Appello il postulato essenziale
è dato dalla interpretazione acquisita della teoria della dose-dipendenza; da essa
si è tratta la decisiva ragione per ritenere che tutte le esposizioni non ricadenti
nel periodo di latenza vera siano causalmente efficienti perché abbreviano il
tempo alla morte. E, come si accennato appena ora, tutte le esposizioni
cessarono ben prima di quello che viene ritenuto il periodo di latenza vera.
Tuttavia realmente sul punto indicato dai ricorrenti si rinviene un evidente
vizio logico della sentenza impugnata.

87

l’indicazione della durata del periodo di latenza vera trae origine da rilevazioni

Occorre ancora una volta rammentare che il Tribunale aveva espressamente
affermato la natura convenzionale del momento in cui si fa cadere il momento di
inizio del processo neoplastico (l’inizio dell’esposizione all’agente nocivo) e
l’inconoscibilità di quello in cui esso termina, per lasciare corso alla latenza vera.
A ciò deve aggiungersi la considerazione della pacifica ricezione operata dai
giudici e dalle parti della tesi secondo la quale il mesotelioma non richiede
esposizioni che si attestino su determinate soglie (di dosi cumulative) perché la
malattia può insorgere anche a seguito di esposizioni basse o bassissime.

induzione-latenza abbia una durata ben determinata, che indica in dieci anni.
Nel replicare alle difese che avevano asserito il carattere meramente
deduttivo della attribuzione della durata di dieci anni alla latenza vera la Corte di
Appello conviene che si tratta di una deduzione ma aggiunge che si tratta di una
deduzione corretta perché “nelle coorti esaminate non si sono registrati casi di
mesotelioma in soggetti esposti all’amianto da meno di dieci anni; tutti i casi
registrati riguardano soggetti la cui prima esposizione al cancerogeno è
antecedente di più di dieci anni rispetto alla manifestazione clinica: se ne deduce
correttamente che il tempo minimo di latenza è di 10 anni e che esposizioni
successive, che si collocano nei dieci anni antecedenti alla manifestazione della
malattia, non hanno rilevanza alcuna”. La giustapposizione tra ‘tempo minimo di
latenza’ e ‘esposizioni successive’ fa intendere che la Corte di Appello abbia
proprio voluto indicare in dieci anni la durata del periodo di induzione-latenza:
non esibendo però le basi scientifiche che le permettono di andare in contrario
avviso rispetto a quanto sostenuto dal Tribunale.

3.4. La rilevanza causale dell’esposizione all’amianto rispetto ai decessi
determinati da tumore polmonare. Motivo II
Con riferimento alla motivazione che sostiene le affermazioni di responsabilità
per gli omicidi derivati da carcinoma polmonare, i ricorrenti hanno rivolto
censura in primo luogo alla ritenuta esistenza di una esposizione all’asbesto che,
per aver raggiunto determinate concentrazioni/durata, è stata causalmente
efficiente.
Appare opportuno puntualizzare che il rilievo non sembra coinvolgere quanto
dalla Corte di Appello ritenuto a riguardo degli omicidi derivati da mesotelioma.
In effetti, con il primo e secondo motivo di appello gli imputati ed il responsabile
civile avevano affermato la necessità che fosse provato, sia per il nnesotelionna
che per il carcinoma polmonare, il quantum dell’esposizione e che nel caso di
specie tale prova non fosse stata acquisita, per l’assenza di misurazioni e di
stime attendibili di esposizione. La Corte di Appello ha replicato, nei termini di cui

88

Orbene, a pg. 316 e s. la Corte di Appello sembra affermare che il periodo di

si scriverà a breve, pervenendo alla complessiva conclusione dell’avvenuto
accertamento della non occasionale esposizione degli addetti alle fibre
aerodisperse.
Conclusione che, per quanto concerne il mesotelioma, va necessariamente
letta unitamente all’affermazione già svolta dal Tribunale – e richiamata dalla
Corte di Appello – secondo la quale “per l’insorgenza del mesotelioma si ritiene
sia sufficiente l’esposizione anche a basse o a bassissime dosi di amianto,
essendovi condivisione tra gli studiosi anche in ordine all’assenza di una soglia di

condotto al divieto generalizzato di utilizzo dell’amianto nei paesi occidentali, sin
dalla fine degli anni ottanta/inizi degli anni novanta)’ .
Su tale specifico punto i ricorrenti non elevano alcun rilievo; sicché resta
insuperato quanto statuito in argomento dalla Corte di Appello.
Con riferimento al carcinoma polmonare, va considerato in primo luogo che il
Tribunale aveva confutato la tesi difensiva che, richiamando a conforto il
Consensus Report di Helsinky del 1997, asseriva essere necessaria a cagionare
la malattia una esposizione pari almeno a 25 fibre/mi anno. Il primo giudice
aveva evidenziato come tale soglia fosse stata individuata come quella in
presenza della quale il rischio di ammalarsi di carcinoma polmonare aumenta di
due volte, ferma restando che per la comunità scientifica sono rilevanti anche le
esposizioni quantitativamente inferiori: “… non esiste una soglia al di sotto della
quale il rischio di insorgenza di carcinoma polmonare da amianto sia nullo”. Il
Tribunale issava tali conclusioni sugli studi citati dal c.t. del P.M.
Dal canto suo, la Corte di Appello ha preso in esame l’assunto riproposto dagli
imputati e dal responsabile civile, per il quale l’aumento del rischio relativo di
contrarre un tumore polmonare per gli esposti ad amianto si verifica solo per
esposizioni elevate, ossia per esposizioni pari o superiori a 25 ff/ml anni, e che
costituisce “patrimonio scientifico consolidato” che il raddoppio del rischio di
tumore polmonare è conseguenza (solo) di esposizioni ad asbesto di tale
intensità.
Per replicare al rilievo la Corte distrettuale è tornata ad esaminare i contenuti
del citato Report, evidenziando come da esso si ricavi che è acquisizione
ricevuta dalla comunità scientifica che “1 anno di alta esposizione equivale a 510 anni di moderata esposizione; entrambe le situazioni comportano il raddoppio
del rischio”; che anche le esposizioni cumulative sotto le 25 fibre-anni vengono
associate a un rischio aumentato di tumore del polmone, seppure in misura
minore del doppio, mentre solo esposizioni “estremamente basse” non
consentono di quantificare l’aumento del rischio

89

(“a livelli molto bassi di

esposizione al di sotto della quale il rischio si azzera (circostanza questa che ha

esposizione il rischio di tumore del polmone sembra essere basso in modo
indeterminabile”).
Ora, non essendo posta dalle difese in discussione la idoneità del Consensus
ad esprimere le conoscenze scientifiche consolidate, è evidente che con la
migliore esplicazione delle indicazioni da quello provenienti la Corte di Appello ha
correttamente assolto all’onere motivazionale, concernente l’individuazione della
quantità delle esposizioni che secondo la legge di copertura risultano, in astratto,
idonee a cagionare il carcinoma polmonare.

il quale l’entità dell’esposizione di ciascun lavoratore non può essere accertata
‘per testi’, respingendolo.
Orbene, che l’esistenza e più ancora l’entità dell’esposizione possa essere
dimostrata anche attraverso la prova testimoniale è fuor di dubbio. Sul piano
generale è noto che il vigente sistema processuale non conosce ipotesi di prova
legale; anche nei settori nei quali risultano indicazioni normative per uno
speciale rilievo di valori soglia e peculiari previsioni per il relativo accertamento,
viene escluso che la prova possa essere data esclusivamente secondo tali
metodiche. In tema di accertamento dello stato di ebbrezza da assunzione di
sostanze alcoliche è ius receptum che l’esame strumentale non costituisce una
prova legale e che l’accertamento della concentrazione alcolica può avvenire in
base ad elementi sintomatici per tutte le ipotesi di reato previste dall’art. 186
cod. strada (cfr. ex multis, Sez. 4, n. 26562 del 26/05/2015 ,dep. 24/06/2015,
Bertoldo, Rv. 263876). In relazione al reato di cui all’art. 137, comma 5, d.lgs.
n. 152 del 2006, concernente il superamento dei limiti di emissione per lo scarico
di acque reflue recapitati in pubblica fognatura, si insegna che le indicazioni sulle
metodiche di prelievo e campionamento del refluo, contenute nell’allegato 5 alla
Parte II del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (campione medio prelevato nell’arco di
tre ore), non costituiscono un criterio legale di valutazione della prova e possono
essere derogate, anche con campionamento istantaneo, in presenza di particolari
esigenze individuate dall’organo di controllo, delle quali deve essere data
motivazione (Sez. 3, n. 30135 del 05/04/2017, dep. 15/06/2017, Boschi, Rv.
270325). Non è precluso neppure l’esame visivo, ancorchè esso non sia da solo
sufficiente, richiedendo di essere affiancato dal campionamento (cfr. Sez. 3, n.
12471 del 15/12/2011, dep. 03/04/2012, Bocini, Rv. 252226). Anche laddove la
normativa extrapenale prevede specifiche presunzioni legali (come l’ordinamento
tributario), il giudice penale resta tenuto alla valutazione dei sottostanti dati di
fatto, da considerare unitamente ad elementi di riscontro che diano certezza
dell’esistenza della condotta criminosa (Sez. 3, n. 30890 del 23/06/2015
Ud. (dep. 16/07/2015, Cappellini e altro, Rv. 264251).

90

La Corte di Appello ha poi preso in esame l’ulteriore rilievo difensivo, secondo

Escluso pertanto che possa anche solo ipotizzarsi una qualche violazione di
legge (i ricorrenti richiamano la violazione degli artt. 40 e 41 cod. pen.), per non
aver il giudice utilizzato dati registrati attraverso misurazioni, campionamenti e
quant’altro, gli assunti della Corte di Appello vanno vagliati secondo i consueti
canoni, onde accertare se la motivazione sia omessa, contraddittoria rispetto alle
emergenze processuali o manifestamente illogica.
Orbene, dopo aver convenuto sulla indisponibilità di un qualche
campionamento (ha spiegato perché non potesse farsi riferimento alle misure

motivatamente escluso che in assenza di ‘stime particolaristiche’ non possa darsi
dimostrazione dell’esistenza di esposizioni idonee a causare il tumore polmonare.
A dimostrazione di ciò il Collegio distrettuale ha sviluppato una dettagliata
ricostruzione delle condizioni degli ambienti di lavoro, convenendo con il
Tribunale sul sicuro massivo utilizzo dell’amianto all’interno dello stabilimento e
segnatamente nei reparti SA1, ST9, PR7, CS, DL, DIS, CR, CER Laboratori, ST8ST10; ha con ampia e coerente argomentazione disatteso la tesi difensiva della
presenza di quantità di amianto inferiore a quella ritenuta dal primo giudice,
richiamando anche una pluralità di testimonianze, dalle quali ha tratto il
convincimento che nello stabilimento, negli anni di interesse, vi fosse stata una
consistente presenza di fibre di amianto, o nei materiali isolanti, o nelle finiture
isolanti, o nelle coperte, o nei dispositivi personali di protezione, o negli
apparecchi (trecce, corde, nastri, manufatti tessili, cartoni isolanti, coppelle,
guarnizioni, fettucce per baderne ed altro); che da tali materiali poteva
verificarsi la liberazione in aria di fibre di amianto per le lavorazioni su di essi o
per consumo o degrado; che erano state totalmente assenti nel periodo di
interesse cautele volte ad evitare o almeno a ridurre l’aerodispersione delle fibre
ovvero evitare o ridurre il numero dei lavoratori esposti alle stesse.
Il percorso tracciato dalla Corte di Appello è sostanzialmente ignorato dai
ricorrenti, i quali hanno nuovamente posto la questione teorica della
ammissibilità del ricorso alla ‘prova per testi’ per l’accertamento prova
dell’esistenza di esposizioni ‘sopra soglia’, pur in assenza di ‘stime
particolaristiche’.
Il motivo è quindi manifestamente infondato.
Va poi escluso che ricorra una manifesta illogicità nell’affermare la valenza
anche di esposizioni a bassi dosi e l’accertare elevati livelli di esposizione
all’amianto: all’inverso, tale procedere è del tutto coerente, poiché (lo ha detto
a chiare lettere la Corte di Appello richiamando quanto versato in atti dagli
esperti) esiste una relazione lineare tra dose e (rischio di) malattia; ragion per

91

effettuate negli anni ’90, in sede di bonifica), la Corte di Appello ha

cui la dimostrazione di elevati livelli di esposizione rende ancor più ragionevole
l’affermazione del nesso causale.
Circa l’accertamento dell’esposizione individuale, i rilievi della difesa poggiano
ancora una volta sul presupposto della necessità di una ‘stima particolaristica’,
che la Corte di Appello, come già esposto, ha con motivazione non censurabile
escluso sia la sola utile ai fini dell’accertamento dei fatti che le sono stati
sottoposti, dando poi coerente seguito a tale affermazione con l’esame delle
particolari condizioni di lavoro di ciascuno dei lavoratori il cui decesso era ascritto

3.5. La causalità individuale nei casi di tumore polmonare: le cause
alternative all’esposizione all’asbesto. Motivo IV e V
Il motivo IV attiene all’accertamento della inoperatività di cause alternative
all’amianto nella produzione del tumore polmonare. Assumono i ricorrenti che la
Corte di Appello ha omesso tale accertamento, non avendo considerato il
possibile ruolo di fattori di natura ormonale, virale, familiare o genetico nonché
quello del tabagismo.
Il tema è quindi quello delle patologie multifattoriali, da tenersi distinte dalle
malattie insorgenti e/o ingravescenti in ragione dell’azione sinergica di più fattori
patogeni; si è invece nel distinto campo delle patologie che possono essere
causate da fattori diversi ed alternativi tra loro.
L’accertamento del nesso causale in tali casi propone un assetto coincidente
con quello valevole in via generale. Poiché non può essere escluso l’utilizzo di
leggi scientifiche probabilistiche, dopo aver rinvenuto una legge di copertura sul
piano della causalità generale è ancora necessario rinvenire la prova che quella
legge abbia operato nel caso concreto; il che significa escludere l’operatività di
quei fattori alternativi ai quali il compendio probatorio abbia dato una reale
concretezza nel caso specifico.
La ‘regola dell’esclusione’, in presenza di patologie multifattoriali, impone che
la malattia possa essere attribuita alla causa indiziata solo dopo che sia stato
escluso che abbia avuto un ruolo eziologico il fattore alternativo. Il che va
accertato – ovviamente – tenendo presente che la natura causale di un
determinato antecedente non è esclusa dalla esistenza di una concausa (art. 41
cod. pen.). E’ pertanto opportuno distinguere – come si è fatto in precedenza tra fattori interferenti che spiegano una efficienza sinergica, in corrispondenza
dell’insorgenza della malattia e/o della sua ingravescenza, da quelli in grado di
operare in assoluta autonomia, per i quali sembra appropriato parlare di fattori
alternativi. In un caso può legittimamente parlarsi di incidenza concausale, con
f,

92

agli imputati.

gli effetti che sono noti quanto all’ascrizione del fatto (ferma restando la
necessità di pervenire alla concreta prova del ruolo concausale, che non può
essere affermato in astratto ma va verificato in concreto). Nel secondo caso
l’evocazione del tema delle concause è del tutto fuori luogo e segnala
immediatamente la debolezza dell’impianto motivazionale (si veda, in termini
analoghi, Sez. 4, n. 37762 del 21/06/2013 – dep. 13/09/2013, Battistella e altri,
Rv. 257113).
L’argomento delle patologie multifattoriali è stato affrontato più volte da

hanno affrontato il dubbio in ordine alla relazione tra adenocarcinoma di un
lavoratore esposto all’inalazione di fibre di amianto e il tabagismo del medesimo
(Sez. 4, n. 11197 del 21/12/2011 – dep. 22/03/2012, Chino e altri, Rv. 252153);
il caso di esposizione del lavoratore al cromo esavalente, nella ipotizzata
riconducibilità della malattia a fattori diversi (Sez. 4, n. 37762 del 21/06/2013 dep. 13/09/2013, Battistella e altri, Rv. 257113); la vicenda di un lavoratore
ammalatosi di carcinoma non a piccole cellule del polmone, esposto al rischio di
inalazione delle fibre di lana di vetro e però dedito al tabagismo (Sez. 4, n. 4489
del 17/10/2012 – dep. 29/01/2013, Melucci, n.m.); quella di un lavoratore
portatore di una epicondilite, patologia che può essere causata dalle vibrazioni
prodotte dalle attrezzature di lavoro (in uso all’ammalato) ma anche da altri
fattori pur ricorrenti nel caso di specie (Sez. 4, n. 13138 del 09/03/2016 – dep.
01/04/2016, Capello, Rv. 266362).
Orbene, i principi formulati dalla Corte indicano al giudice di merito un chiaro
percorso ricostruttivo, a partire dalla prescrizione di non ricercare il legame
eziologico, necessario per la tipicità del fatto, sulla base di una nozione di
concausalità meramente medica: “infatti, in tal caso, le conoscenze scientifiche
vanno ricondotte nell’alveo di categorie giuridiche ed in particolare di una causa
condizionalistica necessaria”. Ciò implica che, per poter affermare la causalità
della condotta ascritta all’imputato, rispetto alla patologia sofferta dal lavoratore,
è necessario dimostrare che questa non ha avuto un’esclusiva origine nel diverso
fattore astrattamente idoneo e che l’esposizione al fattore di rischio di matrice
lavorativa è stata una condizione necessaria per l’insorgere o per una
significativa accelerazione della patologia. Infatti il rapporto causale va riferito
non solo al verificarsi dell’evento prodottosi, ma anche e soprattutto alla natura
e ai tempi dell’offesa, sì che dovrà riconoscersi il rapporto eziologico non solo nei
casi in cui sia provato che la condotta omessa avrebbe evitato il prodursi
dell’evento verificatosi, ma anche nei casi in cui sia provato che l’evento si
sarebbe verificato in tempi significativamente più lontani ovvero quando, alla
condotta colposa omissiva o commissiva, sia ricollegabile un’accelerazione dei
r)

93

questa sezione. Per limitarsi alle pronunce più recenti possono citarsi quelle che

tempi di latenza di una malattia provocata da altra causa (Cass. Sez. 4, sent. n.
11197 del 21/12/2011, Chino e altri, Rv. 252153; Cass. Sez. 4, sent. n. 40924
del 02/10/2008, Catalano, Rv. 241335).
Ora, se in generale l’affermazione di una relazione causale tra esposizione al
fattore di rischio e la malattia manifestasi richiede che quella possa essere
affermata con “un alto o elevato grado di credibilità razionale”, secondo la nota
formulazione della sentenza Franzese, nel caso di malattia multifattoriale
quell’elevato grado non potrà mai dirsi raggiunto prima di e a prescindere da

all’entità dell’esposizione al rischio professionale, tanto in rapporto all’entità degli
agenti fisici dispersi nell’area che in rapporto al tempo di esposizione, tenuto
altresì conto dell’uso di eventuali dispositivi personali di protezione; dati che
devono poi essere necessariamente correlati alle conoscenze scientifiche
disponibili (Sez. 4, n. 4489 del 17/10/2012 – dep. 29/01/2013, Melucci, n.m.).
Ovviamente, tanto vale anche in rapporto al fattore causale ‘alternativo’;
anche di esso vanne ricercate le tracce nella concreta vicenda. Mai dimenticando,
però, che trattandosi di fenomeni spiegati da leggi probabilistiche, oltre e più che
agli indici di inveramento della causa che riconduce al contesto lavorativo, va
apprezzato il compendio dei segni che rimandano al fattore alternativo. In altri
termini, più che le conferme vengono in aiuto la ricerca e la soluzione delle
ragioni di crisi dell’assunto da dimostrare.
In questa direzione non possono non assumere rilievo le conoscenze
scientifiche acquisite a riguardo del fattore alternativo; occorre quindi fare
attenzione a non ricadere, questa volta percorrendo il versante della ‘esclusione
della causa alternativa’ in quei vizi metodologici che anche in questa sede si sono
rammentati, se non altro in implicito (cfr. paragrafo 3.1.). In particolare, occorre
evitare di risolvere il tema con affermazioni sostanzialmente immotivate,
siccome non confortate dall’esposizione delle loro fondamenta scientifiche.
In forza dei principi appena riproposti, per affermare la causalità della
condotta del datore di lavoro, nell’insorgenza del tumore polmonare del
lavoratore, occorre dimostrare che esso non abbia avuto esclusiva origine
dall’azione del diverso fattore in astratto idoneo a provocare la patologia.
Nel caso di specie, non sembra cogliere la Corte di Appello che le leggi
evocate indicano che l’esposizione all’amianto e il tabagismo inducono un
numero di tumori polmonari significativamente maggiore di quello che investe la
popolazione dei non esposti; non che per ogni esposizione professionale o che
per ogni fumatore vi è insorgenza del tumore. Di qui la necessità, logicamente
preliminare all’utilizzo della teoria dell’effetto sinergico, di accertare che nel caso
di specie, ferma restando la possibilità concreta che abbia agito l’amianto, non

94

un’approfondita analisi di un quadro fattuale il più nutrito possibile di dati relativi

abbia agito, da solo, il fumo (ovviamente, secondo il consueto canone della
ragionevole certezza). Al contrario, nel caso che occupa la Corte di Appello ha
assunto il concetto di sinergia come se da esso discendesse la superfluità della
dimostrazione che ciascuno dei fattori abbia realmente operato in concreto;
quindi, come se le leggi scientifiche che attribuiscono all’asbesto e al fumo di
tabacco capacità oncogena non fossero probabilistiche ma universali.
Tanto osservato sul piano generale, va però certamente escluso che la
motivazione resa dalla Corte di Appello mostri vizi censurabili in questa sede

Campo. Secondo l’accertamento condotto nei gradi di merito – e non contestato
dai ricorrenti – questi non era fumatore; sicché il ragionamento condotto dalla
Corte di Appello non mostra alcun profilo critico; le censure risultano infondate.
Si tratta di reato estinto per prescrizione venuta a maturare nelle more di questo
giudizio di legittimità (sul tema si tornerà nell’esame del ricorso del P.G.); ne
discende l’annullamento della sentenza impugnata, limitatamente al reato in
parola, senza rinvio agli effetti penali ed il rigetto dei ricorsi agli effetti civili.
Analogamente, la valutazione operata dalla Corte di Appello quanto
all’omicidio in danno del Bonfante non appare manifestamente illogica, in
considerazione dei dati di fatti acquisiti al giudizio (il lavoratore aveva smesso di
fumare trenta anni prima del manifestarsi della malattia e lo stesso consumo di
tabacco era stato ridotto, risultando un consumo di circa 5-6 sigarette al giorno).
L’esistenza stessa di un fattore alternativo appare, in questo caso, meramente
congetturale. Non risultando estinto il reato, i ricorsi vanno rigettati.
A diverse conclusioni deve pervenirsi a riguardo delle statuizioni concernenti
l’omicidio in danno del Franzoni. Secondo quanto rammenta la Corte di Appello,
questi è risultato esposto all’amianto dal 1975 al 1996 ed era stato fumatore
sino al 1997, con un consumo di circa 10-15 sigarette pro die. La Corte di
Appello ha replicato ai rilievi difensivi evidenziando la sicura quotidiana
esposizione del lavoratore all’amianto, la classificabilità dello stesso quale
‘fumatore medio’, la contrazione del periodo di consumo del tabacco al 1992,
sulla scorta di quanto asserito dal c.t. del P.M. dr. Trinco, nonché il lasso di
tempo intercorso tra il superamento del tabagismo e la diagnosi di carcinoma
polmonare (2002). Da ciò il giudice di secondo grado ha tratto il convincimento
che il tumore polmonare del Franzoni non abbia avuto ‘esclusiva origine’ dal
prolungato fumo di sigarette.
Si tratta di un giudizio che non è esito della dimostrazione, sia pure in chiave
di elevata credibilità razionale, che nel caso di specie non ebbe ad agire
unicamente il fumo di tabacco. Non emerge la ricerca degli indici di una
operatività di tale possibile causa ed anzi l’accenno a quelli censiti

95

quanto all’affermazione di responsabilità per l’omicidio colposo in danno del

dall’accertamento processuale è azzerato dall’apodittica asserzione secondo la
quale la patologia non aveva avuto ‘un’esclusiva origine’ nel prolungato fumo di
sigarette; dando per dimostrato ciò che doveva essere accertato, omettendo di
approfondire la portata esplicativa di quanto di pertinente pure era stato
individuato.
Trattandosi di reato ad oggi non prescritto, ne deriva l’annullamento della
sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Brescia
in relazione alle statuizioni concernenti l’omicidio in danno del Franzoni;

del Fabbri, del Paglia e dello Ziglioli.

4. I decessi provocati da leucemia mieloide acuta.
4.1. La struttura della presente motivazione
In relazione al capo 1 della contestazione, la Corte di Appello ha dovuto
occuparsi unicamente degli omicidi in danno di Negri Francesco e di Cavicchioli
Arienzo.
A riguardo del primo il Tribunale aveva pronunciato l’affermazione di
responsabilità nei confronti del Gatti, del Diaz, del Morrione, del Cirocco e del
Fabbri, ai quali aveva inflitto le pene ritenute eque e che aveva condannato al
risarcimento dei danni in favore delle parti civili; mentre aveva mandato assolti il
Mazzanti, il Porta, il Mattiussi, il Paglia e lo Zigliolí per non aver commesso il
fatto.
Le statuizioni erano state impugnate dagli imputati condannati, che
chiedevano di essere mandati assolti, nonché dal P.M. e dal P.G. ma unicamente
in relazione alla esclusione della sussistenza della colpa con previsione di cui
all’art. 61, n. 3 cod. pen.
La Corte di Appello, rilevato che il reato si era estinto per prescrizione dopo la
sentenza di primo grado, sulla constatazione della persistenza di alcune delle
statuizioni civili date dal Tribunale, ha dichiarato non doversi procedere nei
confronti degli imputati già condannati per essere estinto il reato ma, rigettati gli
appelli della pubblica accusa, ha confermato dette statuizioni, secondo la
previsione dell’art. 578 cod. proc. pen.
Ne consegue che il ricorso degli imputati, in relazione a tale reato, va
scrutinato, per il versante degli effetti penali, unicamente per verificare se la
Corte di Appello sia pervenuta alla decisione sulla scorta di vizi che, ove assenti,
l’avrebbero indotta a pronunciare una sentenza di assoluzione nel merito, ai
sensi dell’art. 129 cod. proc. pen. Mentre, ai fini della decisione
sull’impugnazione agli effetti dei capi della sentenza che concernano gli interessi
civili, ancora una volta per il disposto dell’art. 578 cod. proc. pen., va operata la

96

l’annullamento investe le posizioni del Gatti, del Morrione, del Diaz, del Cirocco,

compiuta disamina dei motivi di impugnazione (cfr. ex multis, Sez. 6, n. 18889
del 28/02/2017 – dep. 19/04/2017, Tomasi, Rv. 269890).
In relazione all’omicidio del Cavicchioli, per il quale già il Tribunale aveva
pronunciato sentenza di non doversi procedere nei confronti del Mazzanti, del
Gatti, del Morrione, del Rotti, del Diaz, del Cirocco e del Fabbri perché il reato si
era estinto per prescrizione ancor prima del deposito della richiesta di rinvio a
giudizio, la Corte di Appello, a fronte della richiesta dei predetti imputati di
essere mandati assolti e del gravame del P.G., che contestava il giudizio di

degli imputati e quindi ha rigettato tutti gli appelli.
Pertanto, in relazione a tali statuizioni il criterio di analisi della sentenza
impugnata sarà quello funzionale alla verifica di eventuali vizi del giudizio di non
evidenza della prova dell’innocenza degli imputati.
4.2. La spiegazione causale della leucemia mieloide acuta. Motivo VI.
La dichiarazione di responsabilità degli imputati per il decesso del Negri, sia
pure ai soli effetti civili, viene aggredita per più versanti: quello della
individuazione della legge scientifica di governo della causalità generale; quello
dell’accertamento di una esposizione del Negri idonea a cagionare la malattia
(motivo II); quello dell’accertamento della causalità individuale (motivo VI);
infine quello dell’accertamento della colpa (motivo VII).
Appare opportuna una rapida ricognizione delle affermazioni salienti dei
giudici di merito.
Dopo aver puntualizzato che la correlazione tra esposizione a benzene e
leucemia mieloide acuta (che lo stesso consulente delle difese a ve va
giudicato “convincente”) è patrimonio ormai acquisito alla comunità
scientifica, discutendosi soltanto in ordine all’entità dell’esposizione avente
idoneità lesiva, ed aver dato concretezza all’affermazione con il richiamo alla
serie di studi indicati dal c.t. dr. Dragani e a quelli citati anche dal Prof.
Semenzato, nonché alla consonante indicazione proveniente dagli stessi
consulenti tecnici delle difese, il Tribunale era pervenuto alla conclusione che
nella comunità scientifica si è realizzato un adeguato consenso in merito alla
tesi che il benzene è dotato di idoneità lesiva quando l’esposizione cumulativa è
pari o superiore a 10 ppm-anni.
Sembra opportuno riportare quanto il Tribunale ha rammentato del
contributo del Dragani, per dare conto dell’ampiezza degli studi ai quali
l’esperto ha associato l’affermazione di un consolidato consenso della comunità
scientifica in merito alla capacità oncogena specifica del benzene.
Secondo il consulente, tale capacità, indicata già dagli anni 30-40 del
secolo scorso e dimostrata in maniera convincente tra gli anni 60-70, è stata

97

estinzione, ha ritenuto che non vi fosse l’evidenza della prova dell’innocenza

ulteriormente confermata dai risultati di una revisione della letteratura
scientifica volta a caratterizzare il rischio dei vari sottotipi istologici di
leucemia in relazione alle esposizioni a benzene. In particolare, l’analisi di 9
studi di coorte e di 13 studi caso-controllo ha indicato che i rischi di
leucemia mieloide acuta sono elevati e statisticamente significativi in
quasi tutti gli studi. Inoltre, rapporti significativi tra i livelli di esposizione a
benzene ed un eccesso di rischio di leucemia sono stati osservati nei vari tipi di
studio e, in particolare, negli studi di coorte ben condotti. Ha quindi fatto

Volume 100F delle Monografie (anno 2012), per la quale “vi è evidenza
sufficiente della cancerogenicità del benzene per l’uomo. Il benzene provoca la
leucemia mieloide acuta/leucemia acuta non-linfocitica”. Siffatta valutazione
IARC, ha precisato il Dragani, è stata basata sui risultati di numerosi studi
epidemiologici, svolti da diversi gruppi di ricerca in diverse nazioni.
Il Tribunale non ha poi mancato di ricordare che in merito alla relazione
benzene-LMA le indicazioni offerte dagli esperti degli imputati erano
convergenti. Il prof. Lotti aveva affermato che è nota

“una forte evidenza

di associazione tra la leucemia mieloide acuta e l’esposizione al benzene”
nell’uomo; il prof. La Vecchia in sede dibattimentale aveva affermato:

“non

abbiamo difficoltà a riconoscere che l’esposizione occupazionale a livelli elevati
di benzene è la causa riconosciuta di leucemia mieloide acuta; che in corti di
lavoratori in passato esposti a elevati dosi, in particolare nelle manifatture
delle scarpe, nella gomma e nella stampa, è stato osservato un rischio
aumentato considerevolmente …”;

lo stesso Prof. Semenzato, nella sua

relazione, aveva ribadito che “le uniche malattie per cui c’è unanime consenso
nell’ammettere un’associazione fra esposizione a benzene e neoplasie del
sistema emolinfopoietico sono la leucemia acuta mieloblastica (per
esposizione ad alte dosi di benzene) e le sindromi mielodisplastiche
(per esposizione anche a relativamente basse dosi di benzene)”.

Infine, il

primo giudice ha citato la memoria tecnica dei consulenti tecnici delle difese
Lotti-Semenzato-La Vecchia-Moretto, dell’8 luglio 2014, depositata il 12 luglio
2014, nella quale si riconosce che “è evidente che IARC conclude con certezza
solo per la leucemia mieloide acuta”.
Con indubitabile coerenza il Tribunale ha concluso che “nella comunità
scientifica è, quindi, sostanzialmente pacifico che l’esposizione a (elevate)
quantità di benzene provochi la leucemia mieloide acuta”.
Quanto all’identificazione dei valori corrispondenti alle ‘elevate quantità’
idonee a causare la malattia, il Tribunale ha preso atto delle diverse indicazioni
provenienti rispettivamente dall’accusa e dalle difese degli imputati e del

98

richiamo anche alla recentissima valutazione della IARC, contenuta nel

responsabile civile (per la prima l’esposizione dotata di idoneità lesiva si attesta
su valori pari o superiori a 10 ppm-anni, mentre per le seconde occorrono
esposizioni pari ad almeno 40 ppm-anni) ed ha quindi esaminato le emergenze
processuali onde accertare quale fosse la tesi maggiormente accreditata presso
la comunità scientifica.
Ha pertanto considerato che la rappresentazione dello stato dell’arte proposta
dal Dragani faceva perno sullo studio condotto dall’Istituto Nazionale del Cancro
(NCI) degli Stati Uniti, in collaborazione con l’Accademia Cinese della Medicina

una coorte di 74.828 lavoratori esposti a benzene e di 35.805 lavoratori non
esposti, che avevano lavorato in 672 fabbriche dislocate in 12 città cinesi. I
lavoratori erano stati impiegati dal 1972 al 1987, e il loro periodo di follow-up
era stato di circa 12 anni; avevano lavorato in varie reparti, svolgendo diverse
mansioni; nell’ambiente di lavoro il benzene era utilizzato come solvente per
vernici, colle, e altri prodotti. Tale studio aveva registrato che il rischio per tutte
le neoplasie indagate aumenta significativamente anche a livelli medi di
esposizione a benzene inferiori ai 10 ppm e a livelli cumulativi di esposizione
inferiori a 40 ppm-anni. Ulteriori pilastri erano rappresentati dallo studio Glass et
al. del 2003, riguardante una coorte australiana di esposti a benzene in
un’industria petrolifera; lo studio aveva constatato eccessi di rischio di leucemia
a livelli di esposizione cumulativa a benzene sensibilmente più bassi di quelli
indicati negli studi precedenti, e in particolare a livelli di esposizione cumulativa
superiori a 2 ppm-anni; e dallo studio Vlaanderen et al. nel 2010 (Flexible metaregression to assess the shape of the benzene-leukemia exposure-response
curve. Environ Health Perspect), che aveva svolto una meta-analisi dei risultati
di nove studi diversi, concludendo per un aumento di rischio di leucemia a livelli
di esposizione cumulativa a benzene pari a circa 10 ppm- anni.
Il Tribunale ha quindi esaminato l’accreditamento presso la comunità
scientifica della tesi delle difese, secondo le indicazioni provenienti soprattutto
dal c.t. Prof. La Vecchia. Questi aveva evocato i risultati dello studio effettuato
da Rinsky et al. nel 1987 su un gruppo di lavoratori di un impianto che
produceva pellicole di gomma (Pliofilm) in Ohio, il quale non aveva evidenziato
alcun eccesso di rischio per esposizioni fino a 40 ppm-anni (ad avviso del
Tribunale lo studio Swaen et al. 2005, pur citato dal consulente, non aveva
fornito indicazioni in ordine all’entità dell’esposizione dotata di efficacia lesiva).
Operata la ricognizione degli studi disponibili, il Tribunale ha concluso che
nella comunità scientifica risulta sostenuta da maggior consenso la tesi di una
idoneità lesiva di esposizioni cumulative pari o superiori a 10 ppm-anni, non
omettendo di svolgere una verifica della rispondenza ai canoni di scientificità

99

Preventiva (CAPM), volto a valutare l’incidenza delle malattie ematologiche in

degli studi dai quali proveniva tale indicazione. Ha infatti considerato l’ampiezza
dei dati elaborati, evidenziando come in particolare lo studio Vlaanderen et al.
2010 avesse valutato sei studi di coorte comprendenti 88.509 individui e 92 casi,
nonchè tre studi di coorte comprendenti 574 controlli e 137 casi (tra i quali lo
stesso studio sui lavoratori Pliofilm); l’autorevolezza e l’indipendenza degli
autori, rilevando come essi provenissero da importanti istituzioni pubbliche
(l’Università di Utrecht e il National Cancer Institute statunitense), fossero
studiosi di competenza riconosciuta a livello internazionale, con numerose

producono o commerciano prodotti contenenti benzene. Per il primo giudice
non rappresenta invece ‘lo stato dell’arte’ lo studio sui lavoratori della Pliofilm, in
quanto svolto su una coorte molto piccola, tale per i parametri assunti dagli
stessi esperti della difesa.
Con l’atto di appello si era contestata esclusivamente tal ultima conclusione
del Tribunale, rilevando che studi recenti dimostrano che bassi dosi di benzene
inducono la sindrome mielodisplastica, non riscontrata tra i lavoratori del
Petrolchimico di Mantova; svolgendo rilievi critici a riguardo dello studio Glass et
al., per essere basato su una singola coorte di lavoratori del petrolio australiani,
per essere privo di misurazioni in quanto fondato su stime, per la scarsa
significatività statistica dei dati.
Il giudice del gravame ha replicato sostanzialmente ribadendo alcune delle
osservazioni operate dal Tribunale: gli studi indicati dalla difesa si riducono
essenzialmente allo studio Rinsky et al. 1987, sui lavoratori della Pliofilm; ben
più significativi, per epoca, ampiezza e specificità di dati gli studi segnalati
dall’accusa. La corte distrettuale ha dato concretezza a tali affermazioni
rappresentando come lo studio Glass et al. fosse stato condotto su una coorte
che comprendeva originariamente 10979 uomini e 626 donne che avevano
lavorato nell’industria petrolifera operante sull’intero territorio australiano e che
era stata ampliata negli anni successivi, finendo per partecipare al c.d. Health
Watch Study circa il 95% dei lavoratori della industria petrolifera australiana per
più di cinque anni e rimarcando come attualmente tale coorte comprenda oltre
18.000 soggetti. Per contro la coorte Pliofilm, secondo lo studio Rinsky et al. nel
1987, comprendeva 1165 uomini, che avevano lavorato per lo più per periodi
inferiori all’anno. Ha anche citato Jelle Vlaanderen + al (The Impact of Saturable
Metabolism on Exposure–Response Relations in 2 Studies of Benzene-Induced
Leukemia, pubblicato nel luglio 2011 su American Journal of Epidemiology) il
quale aveva messo a confronto le conclusioni dei due studi -Pliofilrn e Health
Watch-, ritenendo che gli esiti degli stessi non siano sovrapponibili, per la

100

pubblicazioni scientifiche ed estranei a conflitti di interesse con industrie che

diversità delle attività esaminate, la diversità dei tempi di esposizione dei
lavoratori, la differenza del numero di misurazioni di esposizione utilizzate.
La Corte di Appello non ha poi mancato di replicare a tutti gli ulteriori rilievi,
puntualizzando che molti di essi avevano già trovato risposta da parte del primo
giudice.
Così definito il quadro delle argomentazioni utilizzate dai giudici di merito per
individuare la legge di spiegazione scientifica che chiarisce la relazione causale
tra benzene e LMA, va rilevato come i ricorrenti, con una esposizione

arbitraria selezione delle risultanze istruttorie (i materiali non utilizzati sarebbero
consistiti nella consulenza del Prof. Semenzato, esperto della difesa, secondo la
quale le leucemie, ancor oggi, sono nella maggior parte dei casi a causa ignota)
e senza motivazione, la Corte di Appello sia giunta a ritenere la leucemia
mieloide una ‘malattia da benzene’, nonostante lo stesso Tribunale avesse
elencato una pluralità di ulteriori possibili agenti patogeni (ereditarietà, anomalie
cromosomiche, sindromi mielodisplastiche, radiazioni, esposizioni ad agenti
chimici come fumo, assunzione di determinati farmaci e virus). Quindi
convengano senz’altro sulla idoneità cancerogena del benzene – rammentando
che gli stessi consulenti tecnici della difesa asserivano l’esistenza di evidenze
epidemiologiche della associazione benzene-leucemia mieloide acuta -, purchè al
di sopra di una certa dose di esposizione cumulativa.
Con il che confermano, i ricorrenti, quanto affermato dalla stessa Corte di
Appello – eppure contestato con il ricorso -, ovvero che il contrasto tra gli
esperti delle opposte parti si era limitato alla sola quantificazione della dose di
esposizione dotata di idoneità lesiva.
Non casualmente i ricorrenti ripiegano sulla asserzione dell’inesistenza di
cognizioni scientifiche – vi sarebbero solo congetture – in merito alla efficacia
specifico-patogena di esposizioni sotto la soglia di 40 ppm-anni. La questione che
così viene nuovamente proposta è quella dello stato delle conoscenze scientifiche
a riguardo della misura della dose cumulativa in grado di far insorgere la
neoplasia. Essa, oltre a consistere nella assertiva e non argomentata critica alle
conoscenze derivate dalla epidemiologia, perché fondate “su semplici stime in
ordine a possibili aumenti di rischio”, si alimenta della ritenuta pretermissione da
parte della Corte di Appello di alcuni rilievi mossi con l’appello: lo studio Glass
2003 era stato aggiornato e non si era evidenziato alcun eccesso di mortalità
per leucemia mieloide acuta; l’insieme degli studi sui lavoratori dell’industria del
petrolio mostrava analoga assenza di eccesso di rischio.
Quindi la Corte di Appello avrebbe fatto perno su un unico studio (appunto
Glass 2003, peraltro criticato dai cc.tt . della difesa) che mostrava eccesso di

101

intrinsecamente contraddittoria, dapprima lamentino che in forza di una

morbilità, senza considerare le altre evidenze. E non avrebbe considerato che lo
studio epidemiologico sulla coorte dei lavoratori dello stabilimento di Mantova
confermava l’assenza di eccesso di tumori del sistema emolinfopoietico e di
leucemie.
Inoltre, poiché il Tribunale non aveva replicato ai motivi di appello che
criticavano lo studio Vlaanderen 2010 perché fondato su dati concernenti le alte
esposizioni e quindi non valevole per i casi di basse esposizioni, nel limitarsi a
richiamare la pronuncia di primo grado la Corte di Appello avrebbe omesso la

Orbene, come già si è precisato al paragrafo 3.1., risultano incongrui e di
scarsa pertinenza tutti gli argomenti difensivi che, a riguardo delle tesi
scientifiche adottate dal decisore, non pongono in luce la carenza di consenso
scientifico ma tendono a dimostrare la intrinseca debolezza della teoria. La
pretesa è quella di far coincidere il sapere accreditato con l’opinione del singolo
esperto, le cui critiche dovrebbero dimostrare la non attendibilità della legge
esplicativa.
Fatta questa premessa, risulta agevole rilevare che la più parte dei rilievi
mossi dai ricorrenti a riguardo della legge scientifica che correla in unione
eziologica definiti livelli di esposizione a benzene e LMA sono aspecifici. Lo sono
perché in una certa quota sostanzialmente meramente ripetitivi di quelli che,
sottoposti al giudice impugnato, hanno ottenuto da questi una non manifesta
illogica replica. Lo sono perché, in altra parte, non risultano correlati alla ratio
decidendi.
Nel dettaglio. Quanto alla pretesa mancata considerazione da parte della
Corte di Appello degli aggiornamenti allo studio Glass et al. 2003, va rilevato che
essi non sono indicati specificamente, mentre la Corte di Appello mostra di aver
contezza e quindi di aver valutato la circostanza che la dr.ssa Glass seguì gli
studi caso controllo eseguiti a partire dal 1988 sulla coorte dei lavoratori
dell’industria petrolifera, aggiornando via via i dati (nota 31 di pg. 205). I
ricorrenti menzionano studi che dimostrano la mancanza di eccesso di mortalità
ma essi non vengono indicati. Per contro, la Corte di Appello ha preso in esame
quelli che erano stati indicati dai c.t. delle difese (studio Rinsky et al. 1987 sulla
Pliofilm; studio Swaen et al. 2005; studio Rushton et al. 2014 – però
concernente la relazione tra basse dosi di benzene e sindrome mielodisplastica)
ed ha con motivazione non manifestamente illogica ritenuto che gli stessi non
rappresentano la scienza condivisa sul tema.
Quanto al fatto che la Corte di Appello non abbia replicato alla censura che
individuava un punto critico dello studio Vlaanderen 2010 nel fatto che non
poggiasse su dati reali concernenti basse esposizioni, va osservato che a pg. 206

102

motivazione sul punto.

si legge una nota che, pur riferita alle critiche mosse allo studio Glass 2003,
riporta le seguenti notizie: “”il più recente Health Watch Study è stato condotto
nell’industria petrolifera dove i lavoratori generalmente esposti per più anni a
relativamente basse concentrazioni di benzene (di rado superiori ai 5 ppm),
laddove il più risalente studio Plio film fu condotto in un’industria chimica con i
lavoratori sperimentarono maggiori esposizioni di benzene (60 ppm) ma per un
periodo di tempo più breve. Lo Health Watch Study ha evidenziato rischi relativi
molto più elevati per leucemia rispetto a quelli dello studio Plio film per le

cumulative più basse rispetto a quelle dello studio Plio film “. E’ sempre la Corte
di Appello a riportare, a pg. 205, che lo studio Glass 2003 riguardò la coorte
australiana presa in considerazione dallo Healt Watch Study; e che lo studio
Vlaanderen prese in esame tanto lo studio sui lavoratori Pliofilm che quello Glass
2003. Come a dire che non è vera la premessa di fatto della difesa, secondo il
quale tal ultimo studio si rifece a dati reali concernenti solo le esposizioni ad alte
dosi.
Nel resto si tratta di affermazioni assertive che introducono dati fattuali non
confermati dall’accertamento operato dai giudici di merito.
In conclusione, le sentenze assumono un dato scientifico (efficienza patogena
delle dosi cumulative pari o superiori a 1Oppm/a) sulla base dell’accertamento
della scienza condivisa, operato attraverso la verifica della imparzialità degli
autori degli studi, la loro specificità rispetto alla situazione della quale si occupa il
processo, l’ampiezza della base dati.
La difesa avrebbe dovuto replicare sul medesimo terreno, mentre si è limitata
a prospettare l’esistenza di motivi di dubbio della intrinseca validità degli studi
proposti dall’accusa, facendo leva sui rilievi formulati dai soli consulenti di parte.
4.3. La prova dell’esposizione del Negri al benzene. Motivo 11.1-11.2.2.
I ricorrenti contestano che sia ammissibile, come ritenuto dalla Corte di
Appello, accertare l’entità della esposizione all’agente nocivo su base indiziaria.
Anche in quest’ambito la difesa giustappone il concetto di esposizione
particolaristica a quello di esposizione provata in via indiziaria, richiamando a
sostegno anche la giurisprudenza di legittimità. Si tratta di una unilaterale
lettura delle affermazioni fatte da questa Corte.
Nelle sentenze citate (la n. 37762/2013, la n. 4489/2012 e la n. 11128/2014)
si richiama alla necessità di un accertamento dell’esposizione del singolo
lavoratore, evitando di accontentarsi di dati che si riferiscono all’intera coorte dei
lavoratori o a gruppi di essi. Ma si tratta di una indicazione che riguarda l’oggetto
della prova e non la struttura della stessa. Posto che il giudizio deve tendere ad
accertare nel modo più esatto possibile quale è stata l’esposizione del lavoratore

103

esposizioni cumulative, sebbene lo Health Watch Study riguardasse esposizioni

persona offesa del reato contestato, quell’accertamento non può che realizzarsi
alla luce delle ordinarie regole probatorie, le quali non escludono se non le prove
vietate dalla legge e ammettono che un fatto possa essere ritenuto sulla scorta
di indizi gravi precisi e concordanti.
Pertanto è da escludere che esposizione particolaristica possa significare
esposizione necessariamente misurata; ai fini dell’accertamento l’esposizione può
essere misurata con apposita strumentazione o ricostruita in via indiziaria. La
difficoltà di tal ultima prova per casi in cui vi è necessità di conoscere specifiche

Nel caso di specie quella posta dalle difese è peraltro una questione priva di
rilievo.
A riguardo della esposizione del Negri la Corte di Appello ha rammentato che
erano disponibili misurazioni e campionamenti fatti tra il 1979 ed il 1982 eseguiti
in gran parte mediante dosimetri personali degli operatori esterni del reparto
ST3 (e il Negri era tra questi); che per i periodi non coperti dalle misurazioni (il
Negri vi lavorò dal gennaio 1974 al gennaio 1983) potevano ritenersi validi quelli
stessi dati perché le condizioni del reparto era persino peggiorate per i livelli di
produttività raggiunti e la mancata gestione del problema da parte dell’azienda
(cfr. pg . 211). Non vi è stata quindi alcuna attività di stima dei valori avulsa da
dati realmente misurati; ma i dati raccolti sul campo sono stati motivatamente
riferiti a periodi per i quali non vi erano state misurazioni.
Ne consegue l’inidoneità a dimostrare carenze decisive dell’impianto
motivazionale dell’affermazione della difesa secondo la quale la corte territoriale
non avrebbe individuato alcun campionamento effettuato con dosimetri personali
con specifico riferimento a Negri: la Corte di Appello ha indicato che vi erano
stati campionamenti per gli operatori esterni e Negri era un operatore esterno;
che ciò nonostante non valessero per lui le misurazioni avrebbe dovuto essere
affermazione dei ricorrenti, da documentarsi adeguatamente (e, al riguardo, si
dirà a breve dei rilievi difensivi attinenti alle mansioni del Negri).
Quanto al ricorso alle risultanze dell’indagine eseguita dal Tieghi, la censura
– che neppure si confronta con l’uso che la Corte di Appello ha fatto di esse (ha
spiegato che è stata l’esposizione per l’intero periodo omogeneo ad essere
calcolata attraverso la media aritmetica di tutti i valori ottenuti dall’indagine
ambientale) – assume come premessa ancora una volta la indispensabilità delle
misurazioni per il singolo lavoratore, peraltro senza tener conto di quanto sopra
puntualizzato a riguardo dell’esistenza di esse.
I ricorrenti affermano che la Corte di Appello non ha risposto alle censure
sull’attendibilità dello studio Tieghi; nell’esplicare il rilievo si fa richiamo alla
consulenza del prof. Nano, donde sono state tratte le ragioni di critica. La Corte

104

quantità nulla toglie alla astratta percorribilità del percorso indiziario.

di Appello ha replicato sul punto a pg. 211, spiegando che i cc.tt . Gino e Nano
avevano fatto riferimento al reparto ST20, mentre per il Negri veniva in
considerazione il reparto ST3.
Ma la critica di fondo è quella che segnala una manifesta illogicità della
sentenza laddove ha applicato in maniera impropria ed errata il metodo proposto
dal c.t. Tuttavia tale vizio viene argomentato sulla scorta della contestazione di
alcuni dati fattuali assunti dalla sentenza, per la quale il Negri non era stato un
quadrista (che aveva una postazione di lavoro isolata e non raggiunta dai vapori

mediante i monitoraggi erano state certamente peggiori rispetto a quelle del
tempo successivo.
Come attesta il continuo richiamo a dati di fatto, il motivo sottende la richiesta
a questa Corte di formulare una autonoma e divergente valutazione dei materiali
di prova. La Corte di Appello ha motivato in modo non manifestamente illogico a
riguardo delle mansioni del Negri nel periodo in considerazione, parlando
esplicitamente di quelle svolte anche presso il reparto ST40, peraltro sempre
come operatore esterno (cfr. pg . 189), così replicando alla difesa che asseriva come ancora nella presente sede – che il Negri aveva svolto le mansioni di
quadrista presso tale reparto. I ricorrenti non hanno lamentato il travisamento
della prova (peraltro possibile negli stretti limiti individuati per il caso di cd.
doppia conforme) e peraltro non dubitano che il lavoratore avesse svolto, nel
reparto in questione, anche le mansioni di operatore esterno.
In conclusione, le censure sono infondate.
4.4. La causalità individuale in rapporto alla morte del Negri
La seconda questione posta dai ricorrenti nell’orizzonte che si sta percorrendo
concerne il rapporto di causalità a riguardo della malattia del Negri.
Orbene, con riferimento ai fattori diversi dal tabagismo, il Tribunale aveva
preso in considerazione tutti quelli segnalati come possibili oncogeni specifici,
dando analitica spiegazione delle ragioni per le quali nel caso del Negri dovesse
essere processualmente escluso che avesse operato uno di essi. In sintesi,
nessuna emergenza processuale dava concretezza all’ipotesi di una azione
causale indotta da fattore diverso dal benzene. Nel far ciò il Tribunale aveva
anche dato conto della modesta abitudine al fumo del lavoratore, riferita dalla
moglie del Negri.
Anche a riguardo della LMA i ricorrenti hanno posto il tema della
multifattorialità, unito a quello della natura di legge con coefficiente
probabilistico bassissimo (e quindi bisognevole della prova della sicura non
ricorrenza di fattori causali alternativi), lamentando che la Corte di Appello non
abbia considerato i fattori alternativi diversi dal fumo; e che riguardo a

105

di benzene) e le condizioni di esposizione nel tempo anteriore a quello indagato

quest’ultimo, la corte territoriale non avrebbe potuto affermare che si
confrontavano un cancerogeno certo (il benzene) e un modesto fattore di rischio
(il fumo), posto che non c’è certezza sulla cancerogenicità del benzene, in ogni
caso riconoscibile solo a dosi elevate, non ricorrenti nel caso del Negri, mentre
non può dirsi modesta l’abitudine al fumo di 15/20 sigarette pro-die.
Orbene, in primo luogo va rilevato che l’affermazione del bassissimo
coefficiente probabilistico della legge di spiegazione causale concernente la
correlazione causale tra benzene e LMA è esclusiva degli esponenti, non

In ogni caso, la sottolineatura enfatizza oltre modo un dato che, già nella
sentenza Franzese e ancor più nella giurisprudenza successiva, non assume
rilievo se non per vincolare il giudice ad un ancor più approfondito esame delle
concrete circostanze del caso, in quello sforzo di corroborazione processuale
dell’ipotesi che è passaggio essenziale di quel percorso metodologico del quale si
è già scritto anche in questa sede.
Peraltro, l’evocazione di altri fattori, causa della LMA, riposa su un contributo
offerto dal c.t. della difesa Semenzato, riportato dalla sentenza di primo grado.
Ma che una di tali cause (diverse dal fumo) possa aver agito nel caso concreto
non è mai stato affermato: in sostanza, la difesa pone il problema della
riconducibilità della malattia a fattori diversi dall’esposizione professionale al
benzene in termini del tutto astratti. Si è già rammentato che il giudice ha
l’obbligo di considerare solo i fattori alternativi che acquistino concreta
pertinenza alla luce degli elementi processuali.
Quanto al fattore tabagismo, la Corte di Appello ha svolto la seguente
affermazione (pg. 213):
“La leucemia mieloide acuta è una neoplasia relativamente rara, tanto che si
registrano circa 2000 casi in un anno in Italia: a fronte di una esposizione
cumulativa rilevante a cancerogeno certo (benzene) e in assenza di dati
dell’incidenza del tumore in questione per il solo rischio fumo, vi è un
elevatissimo grado di credibilità logica che la malattia sia stata originata dalla
certa e protratta esposizione a benzene sul luogo di lavoro (laddove è emerso in
maniera pacifica che per gli esposti a benzene i rischi di leucemia mieloide acuta
“sono elevati e statisticamente significativi”) piuttosto che non dal fumo —
modesto- di sigaretta”.
Merita speciale considerazione che nel passaggio sopra riportato la Corte di
Appello abbia evidenziato l’indisponibilità di dati circa l’incidenza della LMA per il
solo rischio fumo; e che essa abbia chiarito che la caratterizzazione come
‘modesta’ dell’abitudine al fumo del Negri deriva dalla classificazione indicata dal

106

rispecchiandosi in analogo giudizio dei giudici di merito.

perito Betta per la valutazione dell’abitudine al fumo degli operai morti di
mesotelioma o carcinoma polmonare.
Appare evidente che la Corte di Appello abbia sostanzialmente escluso che nel
processo sia stata acquisita la conoscenza delle condizioni alle quali è possibile
riconoscere efficienza causale al fumo; d’altronde lo stesso Tribunale ha dedicato
al dato un fuggevole e generico cenno, quando ha elencato i diversi possibili
fattori di rischio di insorgenza della LMA (per altro riferendosi più in generale
alle leucemie acute). Né sul punto le difese hanno dato dimostrazione contraria

Ne deriva che anche in relazione a tale fattore di rischio è mancata la
dimostrazione processuale della concretezza dell’ipotesi di una sua operatività
nel caso del Negri; sicché il mero richiamo operato dalla corte distrettuale alla
lieve forma del tabagismo della persona offesa risulta sufficientemente
esplicativo della evanescenza dell’ipotesi di azione di siffatto agente.
Ne discende la infondatezza dei motivi sin qui esaminati, da intendersi trattati
in relazione ad entrambi gli omicidi ricondotti all’esposizione al benzene.

5. Le posizioni di garanzia. I ricorsi individuali.
5.1. Generalità
Per un compiuto inquadramento occorre considerare in primo luogo che,
nonostante le scelte lessicali e ricostruttive manifestate con la contestazione, i
reati ascritti agli imputati hanno struttura di reati commissivi, incentrati sulla
esposizione di lavoratori alle fibre di amianto aereodisperse e ai vapori di
benzene; la componente omissiva esaltata dalle imputazioni in realtà attiene alla
connotazione colposa della condotta, essendo costituita dalla mancata adozione
delle misure prevenzionalí imposte dalla legge

(“la condotta attribuibile ai

responsabili dell’azienda è, nel suo nucleo significativo, attiva; giacché
l’esposizione all’agente lesivo in modo improprio è frutto di una determinazione
di tipo organizzativo che ha evidentemente un rilievo condizionante, giacché se il
lavoratore non fosse stato addetto a quella pericolosa lavorazione l’evento non si
sarebbe verificato”: Sez. 4, n. 43786 del 17/09/2010 – dep. 13/12/2010, Cozzini
e altri, Rv. 248943).
Un simile rilievo non ha valore meramente teorico, perché indirizza
l’accertamento giudiziario, sia per il versante del soggetto attivo che per quello
del nesso di causalità. Per il primo aspetto la puntualizzazione svela che non si
tratta di ricercare la posizione di garanzia (nozione che viene in considerazione
nell’ambito dei reati omissivi impropri) ma di accertare chi abbia tenuto la
condotta attiva. E’ però parimenti vero che, nell’ambito di un’organizzazione
complessa, qual’era quella delle società che nel tempo furono proprietarie dello

107

nei gradi di merito o argomentato nei ricorsi.

stabilimento petrolchimico di Mantova, anche questa generalmente più semplice
ricerca deve fare i conti con l’articolazione concreta della compagine, per
identificare, al di là dei ruoli formalmente ricoperti, a chi debba imputarsi la
decisione di esporre i lavoratori all’agente patogeno nelle condizioni date; e chi,
avendo residui compiti di controllo, non li abbia svolti. Si ripropone, quindi, la
questione dell’accertamento dei poteri; ma in una logica significativamente
differente. Come sottolineato dalle S.U., in contesti organizzativi caratterizzati
dalla complessità “l’individuazione della responsabilità penale passa non di rado

organizzativa all’interno di ciascuna istituzione. Dunque, rilevano da un lato le
categorie giuridiche, i modelli di agente, dall’altro i concreti ruoli esercitati da
ciascuno…’. Occorre “… individuare concretamente la figura istituzionale che può
essere razionalmente chiamata a governare il rischio medesimo e la persona
fisica che incarna concretamente quel ruolo”; tenendo presente l’intricata trama
delle connessioni che rende di non agevole conseguimento la precisa definizione
dell’area di competenza di ciascuno dei gestori del rischio (Sez. U, n. 38343 del
24/04/2014 – dep. 18/09/2014, P.G., R.C., Espenhahn e altri, Rv. 261107). Si
tratta di un insegnamento costantemente ribadito dalla giurisprudenza
successiva, che richiama il giudice alla necessità individuare le responsabilità
penali all’interno di organizzazioni complesse, non in forza di automatismi che
riconducano all’organo di vertice la responsabilità per l’inosservanza della
normativa di sicurezza, ma sulla base della ricostruzione dell’effettivo contesto
organizzativo e delle condizioni in cui detto organo ha dovuto operare (ex multis,
Sez. 4, n. 13858 del 24/02/2015 – dep. 01/04/2015, Rota e altro, Rv. 263286).
Su questo specifico versante l’accertamento condotto dalla Corte di Appello
appare esente da censure.
5.2. I rilievi concernenti le singole posizioni.
In primo luogo va rilevato che i motivi che investono il tema non attengono al
Mattiussi e al Morrione, che già in sede di appello non ebbero a devolvere il
punto al giudice di secondo grado.
Tutti gli ulteriori ricorrenti lamentano che i giudici di merito si siano limitati a
registrare la qualifica assunta – di amministratore delegato o di direttore dello
stabilimento – senza accertare l’effettiva titolarità di poteri di gestione e di
controllo implicanti gli obblighi prevenzionistici ritenuti violati e causalmente
efficienti rispetto ai decessi per i quali è intervenuto l’accertamento di
responsabilità. Il rilievo ha sullo sfondo, da un canto, la sottolineatura della
complessità della struttura del gruppo Montedison, con la previsione di cinque
diversi amministratori delegati, dall’altro la limitatezza dei poteri del direttore di
stabilimento.

108

attraverso una accurata analisi delle diverse sfere di competenza gestionale ed

Su questi temi di carattere generale i giudici di merito hanno innanzitutto
definito il quadro dei principi di diritto cui attenersi. Hanno richiamato la
giurisprudenza di legittimità; quella che individua in tutti i componenti del
consiglio di amministrazione i soggetti titolari degli obblighi prevenzionistici
datoriali e quella per la quale “in presenza di strutture aziendali complesse, la
delega di funzioni esclude la riferibilità di eventi lesivi ai deleganti se sono il
frutto di occasionali disfunzioni; quando invece sono determinate da difetti
strutturali aziendali e del processo produttivo, permane la responsabilità dei

(Sez. 4, n. 38991 del 10/06/2010 – dep. 04/11/2010, Quaglierini e altri, Rv.
248849, in motivazione).
Quindi la Corte di Appello ha spiegato perché si fosse in presenza di violazioni
strutturali delle prescrizioni prevenzionistiche, coinvolgenti direttamente i poteri
di “alto livello aziendale”, ovvero l’amministratore delegato, e per quali ragioni
anche i direttori di stabilimento fossero titolari di doveri prevenzionistici, nella
specie inadempiuti.
Ricorso Mazzanti. Con specifico riferimento alla posizione del Mazzanti, la
Corte di Appello ha rammentato che il complesso delle attività facenti capo alla
Montedison (esercitate in un centinaio di stabilimenti) erano raccolte in tre
Raggruppamenti: tessile, distribuzione e varie, chimico. Il Mazzanti, tra il 1970 e
il 1972 fu amministratore delegato di Montedison per il Raggruppamento
Chimico; in tale veste egli si occupava di gestire tutte le attività svolte in tale
comparto nei vari stabilimenti, tra cui quello di Mantova. Queste affermazioni
sono state sostenute dal riferimento a specifica documentazione: i verbali
dell’assemblea Montedison, i verbali del consiglio di amministrazione Montedison
del 1 luglio 1971 e del 25.5.1972, la procura del 22.10.1971.
A fronte di siffatta motivazione, il ricorrente non contesta che si trattasse di
violazioni prevenzionistiche strutturali e la ricostruzione del ruolo che egli
assunse in concreto ma si limita ad evocare genericamente la esistenza di
diverse Divisioni.
Il ricorso è infondato.
Ricorso Gatti.

Con riferimento alla posizione del Gatti, amministratore

delegato per il Coordinamento gestione chimica, la Corte di Appello ha spiegato
che la tesi difensiva, di una sostanziale assenza di poteri gestionali all’interno
degli stabilimenti, per essergli stata affidata un’attività di mero coordinamento
delle attività delle diverse divisioni operative, risulta contraddetta da quanto
emerge dalla documentazione acquisita agli atti. Da essa si evince, secondo la
corte distrettuale, che il Gatti aveva emanato una nutrita serie di disposizioni
concernenti l’attribuzione di ruoli e di compiti a figure aziendali sottordinate;

109

vertici aziendali e quindi di tutti i componenti del consiglio di amministrazione”

interventi espressivi del potere di decisione ultima, essendo delegati ad altri
poteri di direzione ed attuazione.
Il ricorrente assume che la Corte di Appello è incorsa nel travisamento della
prova; si tratta in realtà della mera contestazione della valutazione che dei
documenti ha fatto il giudice di merito; motivo non consentito in sede di
legittimità.
Ricorso Diaz.

Questi assunse la carica di amministratore delegato di

Montepolimeri s.p.a. il 15.12.1980 e in tale qualità conferì ampi poteri al Fabbri,

alla formale qualità di A.D. si associò l’effettivo esercizio di primari poteri di
gestione (ovvero poteri datoriali) che investivano direttamente le attività svolte
presso lo stabilimento mantovano.
Il ricorrente, con il primo dei motivi, muove da una premessa del tutto errata,
ovvero che gli dovesse essere espressamente conferita la titolarità dei poteri in
materia di sicurezza del lavoro per poter essere chiamato a rispondere secondo
la prospettazione accusatoria. Non coglie, il ricorrente, che il datore di lavoro,
quale è l’amministratore delegato, è in via originaria titolare di quei poteri-doveri
(cfr., tra le ultime, Sez. 4, n. 8118 del 01/02/2017 – dep. 20/02/2017, Ottavi,
Rv. 269133); e quando sia dimostrata l’effettività dei poteri egli deve essere
chiamato a rispondere delle violazioni alle norme in materia di prevenzione degli
infortuni e di igiene del lavoro (secondo la terminologia valevole ratione
tennporis).
Il motivo è quindi infondato.
Ricorsi Fabbri, Cirocco e Paglia. Come è noto, ai fini dell’applicazione delle
disposizioni prevenzionistiche, i direttori di stabilimento possono assumere a
seconda dell’ampiezza dei poteri loro conferiti la qualità di datore di lavoro o
quella di dirigenti [cfr. art. 2 lett. b) d.lgs. n. 81/2008]. Sotto la vigenza dei
decreti presidenziali degli anni 1955-1956 e sino all’entrata in vigore del d.lgs. n.
626/1996 non era rinvenibile una definizione legale di datore di lavoro e di
dirigente; ma non si dubitava che il direttore di stabilimento fosse da qualificarsi
almeno come un dirigente. Questa veste è stata attribuita anche nel presente
giudizio ai direttori di stabilimento Fabbri, Cirocco, Paglia.
Essi, con il primo dei motivi dei rispettivi ricorsi, lamentano che la Corte di
Appello sia giunta all’affermazione di responsabilità sulla scorta della mera
titolarità della qualifica, senza indagare la concreta realtà societaria e senza
verificare l’effettiva titolarità di poteri di spesa necessari ad assumere quei
provvedimenti che sarebbero stati imposti dalle norme prevenzionistiche ed il
conferimento di poteri in materia di sicurezza ed igiene del lavoro.
I motivi sono infondati.

110

direttore dello stabilimento. In tal modo la Corte di Appello ha dimostrato che

In via di principio deve osservarsi che già in forza degli artt. 4 d.p.r. n.
547/1955 e 4 d.p.r. n. 303/1956, che qui rilevano ratione temporis, il dirigente
era costituito garante a titolo originario (cfr., tra una moltitudine di pronunce,
Sez. 4, n. 462 del 06/03/1968 – dep. 25/06/1968, Grimaldi, Rv. 108441; Sez. 4,
n. 1849 del 15/11/1968 – dep. 20/02/1969, Pazienti, Rv. 110347; Sez. 6, n.
7678 del 18/02/1976 – dep. 10/07/1976, Mori, Rv. 890450). In altri termini, la
titolarità di poteri di direzione delle attività ricadenti nel campo di applicazione
dei predetti decreti implicava ex se quella degli obblighi prevenzionistici che la

affermazione fatta dalla Corte di Appello.
Pertanto è palesemente destituita di fondamento l’affermazione dei ricorrenti
della necessità dell’espresso conferimento al direttore di stabilimento di poteri in
materia di sicurezza del lavoro e quella della significatività della attribuzione ad
altra figura (il Vice direttore servizi) di compiti in materia prevenzionistica
nonché del conferimento alla Funzione Tecnica Direzionale dei compiti di
vigilanza sui subordinati. Sarebbe stato necessario dimostrare – ovviamente nei
gradi di merito – l’esistenza di una valida delega delle funzioni prevenzionistiche
facenti capo a titolo originario sul direttore di stabilimento; mentre i compiti di
vigilanza caratterizzano la diversa figura prevenzionistica del preposto.
Quanto al Fabbri, la Corte di Appello ha dato conto dei poteri in concreto
posseduti nell’ambito dell’esame delle disposizioni aziendali che avevano
riguardato la figura del direttore di stabilimento; la puntualizzazione si salda con
l’esplicazione più dettagliata fatta dal Tribunale. Questo ha precisato che
dall’istruttoria dibattimentale era emerso che il direttore di stabilimento, posto al
vertice dell’organizzazione locale, aveva il compito di

“provvedere (…) alla

conduzione dello Stabilimento, curando l’utilizzazione ottimale delle risorse
disponibili”,

dovendo rispondere direttamente al Direttore Generale della

Divisione non solo dei risultati tecnico-economici dello stabilimento, ma anche
della “sicurezza del lavoro e della salvaguardia dell’ambiente” (v. ordine di
servizio n. 198/1972). Inoltre i direttori di stabilimento (come emerso dagli atti
di conferimento di procura) avevano anche un importante potere di spesa da
esercitarsi con firma singola, potendo stipulare contratti di acquisto di beni
mobili, dal contenuto economico per ogni singolo atto negoziale concluso fino a
10 milioni di lire (e, a partire da una certa data, fino a 20 milioni), ovvero
stipulare contratti di vendita di beni mobili senza limite di valore, nonché
stipulare contratti di noleggio, trasporto, appalto, comodato, somministrazione,
opera e/o aventi per oggetto prestazioni di servizi in genere, dal contenuto
economico per ogni singolo atto fino a 50 milioni di lire, nonché, ancora,
svolgere numerosissime altre attività, fra cui anche concludere e

111

legislazione poneva in capo al dirigente. Corretta è quindi la coerente

risolvere

(in rappresentanza dei datori di lavoro) contratti individuali di lavoro

di impiegati, intermedi e operai.
Del tutto conseguente la conclusione: i direttori di stabilimento non avevano
compiti meramente esecutivi ma, al contrario, godevano di poteri di firma, di
rappresentanza, di organizzazione, gestione e conduzione dello stabilimento,
potendo compiere tutti gli atti di ordinaria amministrazione funzionali alle
predette attività.
Generica e non assistita dalle condizioni richieste dalla giurisprudenza di

opera una mera contestazione della valutazione della prova, senza davvero
cogliere taluno dei vizi censurabili in questa sede. Priva di qualsivoglia rilevanza
è l’evocazione della figura dell’institore, atteso che – trattando di responsabilità
derivanti dalla violazione della normativa prevenzionistica – ogni centro di
imputazione di poteri deve essere ricondotto ad una delle figure di garanti
definite da tale normativa. Priva di aderenza al tessuto motivazionale è l’accusa
di aver fatto applicazione di assetti normativi introdotti solo con il d.lgs. n.
81/2008, come si è anche in questa sede dimostrato; mentre costituisce un
assunto ermeneutico contrastato dalla consolidata giurisprudenza di legittimità
che obblighi di segnalazione o di blocco delle attività pericolose presuppongono il
pericolo immediato per i lavoratori (per l’irrilevanza dell’evidenza del pericolo già
Sez. 5, n. 97 del 24/01/1969 – dep. 27/05/1969, Zecca, Rv. 111486). Quanto
alla rilevanza che può assumere la presenza di altri ruoli aziendali aventi compiti
in materia prevenzionistica, valga quanto appena esposto per gli ulteriori
ricorrenti.
In conclusione, il primo motivo del ricorso Fabbri e del ricorso Cirocco e
Paglia sono manifestamente infondati.
Lo è anche il secondo motivo del ricorso di questi ultimi, con il quale si
lamenta che la Corte di Appello abbia ignorato le prove offerte dagli appellanti
per dimostrare la non configurabilità di una loro posizione di garanzia.
In linea generale va rammentato che il giudice del gravame di merito non è
tenuto a compiere un’analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a
prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo
invece sufficiente che, anche attraverso una loro valutazione globale, spieghi, in
modo logico e adeguato, le ragioni del suo convincimento, dimostrando di aver
tenuto presente ogni fatto decisivo. In tal caso debbono considerarsi
implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente
confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata (cfr. Sez. 6,
n. 49970 del 19/10/2012, Muià ed altri Rv.254107). Come è stato
perspicuamente osservato, la motivazione della sentenza di appello è del tutto

1I2

legittimità la censura di travisamento della prova; ma più in generale il ricorrente

congrua se il giudice d’appello abbia confutato gli argomenti che costituiscono
l'”ossatura” dello schema difensivo dell’appellante, e non una per una tutte le
deduzioni difensive della parte, ben potendo, in tale opera, richiamare alcuni
passaggi dell’iter argomentativo della decisione di primo grado, quando appaia
evidente che tali motivazioni corrispondano anche alla propria soluzione delle
questioni prospettate dalla parte. E’ stato anche sottolineato di recente da
questa Corte che in tema di ricorso in cassazione ai sensi dell’art. 606, comma
primo lett. e) cod. proc. pen., la denunzia di minime incongruenze

ritenga tali da determinare una diversa decisione, ma che non siano
inequivocabilmente munite di un chiaro carattere di decisività, non possono dar
luogo all’annullamento della sentenza, posto che non costituisce vizio della
motivazione qualunque omissione valutativa che riguardi singoli dati estrapolati
dal contesto, ma è solo l’esame del complesso probatorio entro il quale ogni
elemento sia contestualizzato che consente di verificare la consistenza e la
decisività degli elementi medesimi oppure la loro ininfluenza ai fini della
compattezza logica dell’impianto argomentativo della motivazione (Sez. 2, n.
9242 dell’8/2/2013, Reggio, rv. 254988). A ciò aggiungasi che in presenza di
una “doppia conforme”, in cui le motivazioni della pronuncia di primo grado e di
quella di appello, fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato
organico ed inscindibile, occorre in ogni caso fare riferimento ad esso per
giudicare della congruità della motivazione. Ciò tanto più ove, come in casi qual
è quello che ci occupa, i giudici dell’appello abbiano esaminato le censure con
criteri omogenei a quelli usati dal giudice di primo grado e con frequenti
riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai passaggi logico-giuridici della
decisione, di guisa che le motivazioni delle sentenze dei due gradi di merito
costituiscano una sola entità (si veda, per tutte Sez. 2 n. 34891 del 16/05/2013,
Vecchia, Rv. 256096; Sez. 3, n. 13926 del 1/12/2011, dep. il 2012, Valerio, Rv.
252615; Sez. 1, n. 1309 del 22/11/1993 – dep. 04/02/1994, Albergamo ed altri,
Rv. 197250).
Nel caso che occupa la Corte di Appello ha nuovamente rimarcato la portata
dimostrativa della documentazione che attiene specificamente all’operato del
Cirocco e del Paglia (laddove la difesa richiama documenti che concernono per lo
più l’articolazione complessiva del gruppo Montedison), in tal modo mostrando di
considerare non acconcia allo scopo degli appellanti la documentazione da questa
invocata.
Per il Cirocco è stato considerato l’ordine di servizio n. 3 del 23 aprile 1979,
emanato dal direttore dello stabilimento dal quale risulta che, tra le funzioni della
“unificazione materiali”, struttura della funzione manutenzione, vi fosse proprio

113

argomentative o l’omessa esposizione di elementi di valutazione, che il ricorrente

quella di curare il riutilizzo in ogni suo forma, nell’ambito dello stabilimento e di
altre unità della divisione e del gruppo, dei materiali disponibili presso i
magazzini materiali tecnici, e presso gli impianti disinvestiti. La Corte di Appello
ne ha dedotto che la indicazione data dalla direzione dello stabilimento era quella
di utilizzare i materiali presenti nei magazzini (fino al loro esaurimento) e di
quelli provenienti dal disinvestimento di impianti. E’ stata valutata la nota 1
febbraio 1979 della Direzione di stabilimento, a firma del Cirocco, concernente
“lavori di sistemazione impianti in conto esercizio/lavori minori” nella quale il

riferimento alle spese relative, dava disposizioni ai responsabili delle funzioni di
stabilimento in ordine ad un sistema di controllo costi, con la prescrizione che
fossero sospese le attività “nel momento stesso in cui viene a configurarsi un
superamento della spesa, avvisando immediatamente la direzione”. Ed ancora, è
stato richiamato l’ordine di servizio n. 7 del 1976 e quello n. 19 del 1977 con cui
il Cirocco aveva provveduto alla ristrutturazione del PAS, individuandone i
componenti e le funzioni; nonché una serie di altri ordini con i quali il direttore di
stabilimento procedeva alla riorganizzazione dei reparti e ne nominava i rispettivi
responsabili.
Anche per la posizione del Paglia sono stati richiamati documenti dei quali era
stato autore l’imputato medesimo e che dimostravano l’effettivo esercizio dei
poteri dirigenziali: segnatamente l’ordine di servizio n. 3 del 1985, con il quale
venivano ripartiti incarichi connessi alla ‘demolizione alienazione di impianti C.R.’
con rilascio di delega a “definire le prescrizioni di sicurezza controllandone la
corretta applicazione”.
Anche il secondo motivo del ricorso individuale Cirocco e Paglia risulta quindi
infondato.

6. Il ricorso Ziglioli.
Il ricorso individuale proposto nell’interesse dello Ziglioli richiede di essere
esaminato partitamente perché reca una pluralità di censure, solo in parte
comuni agli altri ricorsi delle difese.
6.1. Il primo motivo ha un contenuto composito, non limitato alla critica del
riconoscimento di obblighi prevenzionistici. In primo luogo va registrato il palese
fraintendimento della motivazione impugnata, nella quale il richiamo degli artt.
2043 e 2087 c.c. viene fatto solo allorquando si riportano principi di diritto fissati
da questa Corte e peraltro a riguardo del datore di lavoro. Anche per lo Ziglioli i
giudici di merito hanno rinvenuto la fonte dei relativi obblighi nella effettiva
titolarità di poteri che lo caratterizzavano quale dirigente, ai sensi degli artt. 4
d.p.r. 345/1955 e 4 d.p.r. n. 303/1956. Le contestazioni fatte alle affermazioni

114

direttore di stabilimento, preso atto degli sforamenti dei consuntivi con

dei giudici di merito risultano meramente assertive è ad esse è estranea la
identificazione di taluno dei vizi di cui all’art. 606 cod. proc. pen.; l’effettività
della titolarità dei poteri è stata ribadita con coerenza rispetto alle prove
acquisite e senza alcuna illogicità (men che meno manifesta) e la censura che ha
mosso sul punto il ricorrente è generica, non essendo stata neppure allegata la
sopravvenienza di modifiche dei poteri che, si è visto, erano stati assegnati ai
direttori di stabilimento (si veda, sul punto, il paragrafo 5 della Sezione III della
sentenza di primo grado).

Fabbri, con il quale lo Ziglioli condivide l’essere stato direttore dello stabilimento
di Mantova, merita di essere evidenziata la censura che imputa alla Corte di
Appello di aver reso una motivazione contraddittoria perché dapprima si afferma
la necessità di decisioni di alto livello aziendale, non delegabili, e che nessuna
informazione venne data dal vertice Montedison alle strutture (in ordine ai rischi
connessi alla presenza massiccia di amianto) e poi si afferma la responsabilità
del direttore di stabilimento.
Si tratta di rilievi manifestamente infondati. Occorre considerare, da un canto,
l’articolazione dei compiti prevenzionistici tra la posizione datoriale e quella
dirigenziale; dall’altro l’identità delle condotte pretese dal dirigente. Per il primo
aspetto è noto che le decisioni strategiche, o strutturali se così si preferisce,
fanno capo al datore di lavoro; solo questi può decidere il modo di essere
dell’organizzazione produttiva. Ma ciò non esclude un ruolo fattivo del dirigente,
che è chiamato non solo ad attuare le direttive impartite dal vertice ma anche a
compiere quanto gli è consentito dai poteri di gestione che gli sono attribuiti. Qui
vengono in considerazione le condotte rimproverate, che non attengono alla
scelta di utilizzare o meno l’amianto quale materiale coibentante o il benzene
quale materiale di produzione; ma alla mancata adozione di misure che, pur
potendo essere disposte, sarebbero state in grado quanto meno di ridurre
l’esposizione dei lavoratori agli agenti nocivi.
Quanto al richiamo dell’assenza di un flusso informativo tra la funzione di
vertice e il direttore di stabilimento, i ricorrenti alludono ad un passo della
motivazione nel quale, per indicare la condotta illecita del Mazzanti, la Corte di
Appello rimarca come alcuna informazione risultasse inviata dal vertice
Montedison alle strutture “in ordine ai rischi connessi alla presenza massiccia di
amianto, laddove tale informazione e formazione avrebbe avuto la conseguenza
di allettare tutta la catena sotto ordinata circa la necessità di valutare le
procedure in atto, i rischi connessi e la indispensabilità di un capillare controllo
circa l’uso di dpi, la necessità di disfarsi immediatamente di materiali
ammalorati, da sostituire immediatamente, anche a fronte di eventuali rilevanti

115

Tuttavia, anche per la comunanza con i ricorsi del Cirocco, del Paglia e del

costi, di rimuovere polveri e residui delle operazioni, di circoscrivere le zone
operative, insomma di apprestare tutte le cautele consentite dalla tecnologia per
evitare o ridurre le esposizioni indiscriminate e continue alla sostanza”.
Al riguardo va osservato che anche in capo ai dirigenti sussistono obblighi di
acquisizione delle conoscenze che possono pretendersi dal relativo agente
modello; siffatto obbligo deriva dal dovere di attuare le misure di sicurezza
richieste dalla normativa prevenzionistica; sicché rimarcare l’inerzia informativa
della funzione apicale non significa escludere che il dirigente avesse il dovere di

‘massiccia’ esposizione all’amianto ed adottare i conseguenti provvedimenti;
quelli descritti con commendevole precisione dai giudici di merito. Proprio con
riferimento all’art. 4 d.p.r. n. 547/1955 questa Corte ebbe a puntualizzare che i
dirigenti si avvalgono delle conoscenze tecniche per le quali ricoprono l’incarico e che quindi devono possedere nel limite della esigibilità – per adempiere ai
doveri di vigilare, per quanto possibile, sulla regolarità antinfortunistica delle
lavorazioni, di dare istruzioni – di ordine tecnico e di normale prudenza – affinché
tali lavorazioni possano svolgersi nel migliore dei modi; di organizzare la
produzione con una ulteriore distribuzione di compiti tra i dipendenti in misura
tale da impedire la violazione della normativa (cfr. Sez. 4, n. 1345 del
01/07/1992 – dep. 15/02/1993, Boano ed altro, Rv. 193034).
6.2. Il rilievo secondo il quale le dimensioni dell’esposizione dei lavoratori
all’amianto, ricostruite dai giudici di merito per periodi anteriori a quello in cui lo
Ziglioli ricoprì il ruolo, non valgono per quest’ultimo attinge il merito; in ogni
caso è sufficiente rilevare che a pg. 232 la Corte di Appello, nel dar conto della
massiccia presenza di amianto nelle caldaie B4 e B5 fa riferimento a
campionamenti eseguiti rispettivamente nel 1992 e nel 1993-1995; quindi ben
oltre il periodo che coinvolge lo Ziglioli (21.3.1988-15.2.1989).
6.3. Il rilievo che attiene alla considerazione delle testimonianze Goldoni e
Cagliari risulta aspecifico, perché non evidenzia la decisività del preteso errore
della Corte di Appello.
6.4. La censura che addebita alla Corte di Appello di non aver correttamente
inteso il senso del rilievo che investiva il tema della omessa dotazione di d.p.i. è
manifestamente infondata. A pg. 250 la Corte di Appello dà atto che la difesa
aveva obiettato che le maschere in commercio all’epoca erano inidonee ad
evitare l’evento ed ha replicato a pg. 354 e 355, osservando come in realtà le
condotte ascritte fossero ben ulteriori e come l’uso delle maschere fosse un
mezzo di protezione individuale e non collettivo. Risulta quindi palese che la
corte distrettuale ha ritenuto il rilievo privo di decisività; e su questo essenziale
aspetto il ricorrente non ha interloquito.

116

rendersi edotto in merito alle implicazioni per la salute dei lavoratori della

6.5. Il motivo che connette il mutamento di inquadramento della condotta
contestata (da commissiva ad omissiva) e il diritto di difesa è meramente
assertivo, non essendo nutrito di riferimenti a specifici pregiudizi patiti dalla
difesa.
6.6. Il rilievo che attiene al giudizio attinente la colpa sarà trattato nel
contesto dell’esame delle relative censure dei ricorsi congiunti.
6.7. In ordine allo spettro preventivo degli artt. 4 lett. b), 19, 20 e 21 d.p.r. n.
303/56, 4, 374, 387 d.p.r. n. 547/55 si rinvia a quanto si dirà in tema di colpa.

della cooperazione colposa si pongono affermazioni che guardano alla base
fattuale del giudizio espresso dai giudici di merito; si tratta quindi di censure non
consentite in sede di legittimità.
6.9. Esulano dal novero dei vizi indicati dall’art. 606 cod. proc. pen. anche i
rilievi che attengono all’attribuzione allo Ziglioli dei decessi del Franzoni e del
Calore (fermo restando quanto si è ritenuto sul piano più generale in ordine a tali
reati).
6.10. Manifestamente infondata è la censura che si rivolge alla motivazione
concernente l’omicidio in danno del Monici. Non risponde al vero che la Corte di
Appello abbia ignorato la deduzione difensiva che segnalava l’esser stato il
lavoratore addetto alla SAP per un considerevole periodo e comunque in quello
che coinvolge lo Ziglioli. Infatti, la Corte di Appello asserisce esplicitamente che il
Monici lavorò sempre nel reparto caldaie SA1, poi denominato SAP (pg. 343).
Che il Monici avesse assunto le diverse mansioni di operaio, non addetto alle
caldaie, è affermazione del ricorrente che non si nutre della denuncia di un
travisamento di prova per omissione e della dimostrazione della deducibilità di
siffatto vizio pur in presenza di una ‘doppia conforme’.
6.11. L’evocazione della sentenza Cozzini per sostenere l’affermazione che
sarebbe necessaria la permanenza nella posizione di garanzia di almeno due anni
per poter essere chiamati a rispondere dei fatti che qui occupano è inidonea a
dare fondamento alla censura. La quale, in sostanza, pone il tema della durata di
un’esposizione che possa avere una qualche incidenza causale sulla malattia.
Sotto questo profilo essa trova replica in quanto si è già esposto a proposito dei
vizi della motivazione che concerne i decessi cagionati da mesotelionna e da
tumore polmonare.
6.12. Il secondo motivo, che attiene alle statuizioni concernenti il capo 3, è
inammissibile. La Corte di Appello ha dichiarato estinti per prescrizione i reati
residuati dalle pronunce assolutorie e non sono state date o ribadite statuizioni
civili. Sicché il ricorrente avrebbe dovuto dare dimostrazione dell’interesse
concreto che sostiene l’impugnazione; interesse che, almeno per parte della

1I7

6.8. In merito alla fondazione della responsabilità dello Ziglioli sull’istituto

giurisprudenza di legittimità, può essere ravvisato anche quando tenda ad
evitare conseguenze extrapenali pregiudizievoli o ad assicurarsi effetti penali più
favorevoli che l’ordinamento faccia dipendere dalla pronuncia domandata (Sez.
6, n. 35989 del 01/07/2015 – dep. 04/09/2015, Vittorini, Rv. 265604), ma che
quando non è di immediata evidenza va quanto meno allegato dal ricorrente.
Tanto vale in particolare per la doglianza che si porta alla assoluzione dello
Ziglioli – per non aver commesso il fatto – in relazione agli omicidi in danno del
Negri; non è nelle capacità di questa Corte comprendere quale sia lo scopo che si

considerato che il Negri aveva cessato la propria attività lavorativa prima che lo
Ziglioli assumesse il ruolo.
Quindi la prima causa di inammissibilità è la carenza di interesse ad
impugnare.
L’inammissibilità discende comunque anche dalla genericità del motivo.
Genericità che è data dalla modalità di redazione del motivo, che riporta per
larghissima parte quanto era stato scritto avverso la sentenza di primo grado,
con l’accessorio di formule di critica della decisione di appello, alla quale si
imputa per lo più di non aver affrontato ‘compiutamente’ i profili sollevati dalla
difesa. Ma che consegue anche al fatto che, dovendo il ricorso dimostrare
l’esistenza delle condizioni per una pronuncia assolutoria nel merito, ai sensi
dell’art. 129 cod. proc. pen., esso avrebbe dovuto indicare gli elementi che
sostanziano l’evidenza della prova dell’innocenza (cfr. Sez. 3, n. 19442 del
19/03/2014 – dep. 12/05/2014, Ferrante, Rv. 259418).
6.13. Il terzo ed il quarto motivo attengono al trattamento sanzionatorio latu
sensu inteso e valgono per essi quanto si dirà a proposito degli analoghi motivi
proposti dagli altri ricorrenti.
6.14. Parimenti comune sarà la trattazione dei motivi che attingono le
statuizioni civili e la condanna al pagamento delle spese di giudizio.

7. La colpa. Motivo VII dei ricorsi congiunti e ricorso Ziglioli.
7.1. Il settimo motivo dei ricorsi congiunti, così come alcuni dei rilievi mossi
con il ricorso individuale dello Ziglioli, raccoglie censure che si indirizzano ad
ambiti concettuali ben diversi tra loro.
In primo luogo si critica l’identificazione delle regole cautelari la cui violazione
integra la condotta colposa. Si sostiene che gli artt. 20 e 21 d.p.r. n. 303/1956
erano volti ad evitare l’inalazione di polveri, onde evitare molestie ai lavoratori, e
non l’inalazione di fibre potenzialmente cancerogene; che le conoscenze
scientifiche e tecnologiche del tempo al quale risalgono le condotte ascritte non
indicavano la cancerogenicità dell’amianto; che i valori soglia in allora conosciuti

118

persegue con la posizione della critica alla corte distrettuale di non aver

dimostravano che il comportamento cautelare non era quello di eliminare
l’aerodispersione ma piuttosto quello di contenerla entro definiti limiti
quantitativi.
Orbene, va chiarito che il punto di ricaduta di simili argomentazioni
nell’ambito dell’accertamento giudiziale è rappresentato dalla prevedibilità
dell’evento, quale canone che permette, unitamente a quello della evitabilità
dell’evento, di identificare la regola cautelare che, perché riconosciuta già al
tempo in cui il garante era stato chiamato ad operare prudenzialmente, permette

‘violazione di regola cautelare’ la condotta all’esame. Si è quindi nell’ambito
dell’accertamento della colpa in senso oggettivo. Gli artt. 20 e 21, pertanto,
vengono ‘interpellati’ per comprendere se essi ponevano una regola cautelare
che vietasse di esporre i lavoratori al pericolo di inalazione di fibre di amianto (e,
a seconda delle posizioni, se la regola avesse un contenuto ancora più specifico,
correlativamente alla soluzione accordata al problema della descrizione
dell’evento prevedibile).
Come questa Corte ha avuto modo di puntualizzare in un recente precedente
(Sez. 4, n. 12175 del 03/11/2016 – dep. 14/03/2017, P.C. in proc. Bordogna e
altri, Rv. 270385, in motivazione), in tale ambito non sono rilevanti le cognizioni
del singolo e in particolar modo del soggetto la cui condotta è in esame perché la
regola cautelare vale per chiunque si trovi nella situazione che attiva il dovere di
diligenza; essa sarà quella fissata, a seconda dei casi, dalla migliore scienza ed
esperienza del tempo ovvero tenendo presente l’homo ejusdem professionis et
condicionis (cfr. per esplicazioni, Sez. 4, n. 16761 del 11/03/2010 – dep.
03/05/2010, P.G. in proc. Catalano e altri, Rv. 247015).
Anche il successivo passaggio, dedicato alla verifica dell’essere l’evento
verificatosi ‘concretizzazione del rischio’, attiene alla regola ‘oggettiva’; é questa
che si interroga per comprendere se l’evento prodottosi cada nel cono proiettato
dalla sua funzione preventiva. E anche da questa prospettiva non è il punto di
vista di un particolare soggetto a venire in considerazione – lo scopo preventivo
conosciuto dal singolo -, ma la funzione preventiva che la regola è
oggettivamente in grado di assolvere.
Alla luce di simili precisazioni risulta evidente che i ricorrenti tendono a
sovrapporre piani che devono essere tenuti distinti: correttamente si pone il
tema della prevedibilità da parte dell’agente modello di pericoli connessi solo ad
esposizioni ‘sopra soglia’; ma poi si parla di legittimo affidamento degli imputati
per esposizioni ‘sotto soglia’.
Orbene, precisato che le norme alle quali hanno fatto richiamo i giudici di
merito esplorando il versante della colpa in senso oggettivo sono gli artt. 19, 20

119

di definire il comportamento doveroso e, conseguentemente, di apprezzare come

e 21 del d.p.r. 303/56 (fermo restando che agli imputati è stato addebitata
anche la violazione degli artt. 4, 374, 387 d.p.r. 547/55, oltre che la colpa
generica), la Corte di Appello si è fatta carico delle obiezioni difensive
rammentando come la giurisprudenza sia granitica nell’affermare che tali regole
cautelari hanno ad oggetto non la tutela da fastidi derivanti dall’esposizione a
polveri, ma la tutela della salute sui luoghi di lavoro e che le norme che
impongono al datore di lavoro di impedire o di ridurre la diffusione delle polveri
sono dirette ad evitare eventi lesivi connessi a malattie dell’apparato respiratorio

amianto era scientificamente nota fin dal 1930 e, nel 1943, l’asbestosi è stata
qualificata malattia professionale coperta d’assicurazione obbligatoria, con il che
deve ritenersi che le regole esistenti e altre non scritte imponevano ai datori di
lavoro di dotare i lavoratori di strumenti idonei ad abbattere la circolazione delle
polveri), ma anche il carcinoma polmonare ed il mesotelioma, in quanto derivanti
causalmente dalla inalazione dell’amianto.
Le affermazioni della Corte di Appello sono corrette. Si tratta di temi che la
giurisprudenza di questa Corte ha già affrontato, con insegnamenti ai quali il
giudice di merito si è mantenuto coerente. La delimitazione dell’ambito di
applicazione della norma a polveri moleste o fastidiose è stata esclusa perché
l’obbligo di ridurre l’esposizione “per quanto è possibile” è imposto
indipendentemente dalla natura tossica o nociva della sostanza (Sez. 4, n. 4675
del 17/05/2006 – dep. 06/02/2007, P.G. in proc. Bartalini e altri, in
motivazione). In altra occasione si è ribadito che la regola cautelare di cui all’art.
21 d.p.r. n. 303 del 1956 non mira a prevenire unicamente l’inalazione di polveri
moleste (di qualunque natura), ma anche a prevenire le malattie che possono
conseguire all’inalazione (Sez. 4, n. 38991 del 10/06/2010 – dep. 04/11/2010,
Quaglierini e altri, Rv. 248852;). Sino ad uno degli arresti più recenti, dal quale
proviene il principio secondo cui la regola cautelare di cui all’art. 21 d.P.R. n. 303
del 1956 esprime un giudizio di pericolosità dell’esposizione dei lavoratori a
qualunque tipo di polveri, prescindendo dalla loro specie e consistenza, essendo
essa volta a prevenire non solo l’inalazione di tali polveri, ma anche le malattie
che ne possono conseguire (Sez. 4, n. 5273 del 21/09/2016 – dep. 03/02/2017,
P.G., P.C. in proc. Ferrentino e altri, Rv. 270379). Anche ad avviso di questo
Collegio il tenore della norma (“polveri di qualunque specie”) non permette di
operare distinzioni tra tipi di polveri; si tratta di una norma che incorpora un
giudizio di pericolosità dell’esposizione dei lavoratori a qualunque polvere. Non è
nemmeno condivisibile che essa trovi applicazione solo in presenza di
‘esposizioni molto consistenti’ o di definite concentrazioni di fibre di amianto.
Come si è scritto, la disciplina intendeva eliminare del tutto l’esposizione del

120

e, dunque, non solo l’asbestosi (la correlazione tra asbestosi e la esposizione ad

lavoratore all’agente fisico, ove possibile. E nel caso che occupa non è neppure
dubitato che venne omesso qualunque provvedimento per fronteggiare il rischio
connesso all’amianto.
7.2. Gli ulteriori rilievi attengono alla colpa in senso soggettivo: in relazione ai
singoli imputati si assume che essi potevano fare legittimo affidamento sulla
innocuità delle polluzioni rispettose dei valori limite previsti dalla normativa
vigente; che non può essere rimproverato loro di non aver ridotto le esposizioni
nocive perché non è dimostrato il superamento dei valori limite; che gli imputati

Come è agevole rilevare, si pone con ciò il tema della prevedibilità da parte
dell’agente concreto. Quindi è dell’agente concreto che vanno valutate le reali
condizioni di operatività, per comprendere se la violazione cautelare, ormai
presupposto acquisito, anche nella sua efficienza causale, sia del tutto scusabile
(perché non esigibile in concreto un comportamento pur dovuto); e ove non lo
sia, per ponderare la misura del rimprovero, a seconda che emerga una colpa
lieve, una colpa ‘media’, una colpa grave o gravissima (sul punto, le chiare
indicazioni contenute in Sez. 4, n. 16237 del 29/01/2013, dep. 09/04/2013,
Cantore, Rv. 255105).
Il quesito non è più, quindi,

se le norme

prescrivevano di evitare

l’aerodispersione dell’amianto; ma è se di tale regola e degli effetti della sua
violazione, la cui esistenza è stata acquisita, l’imputato avesse una ignoranza
scusabile e se (passando al piano della prevenibilità) egli avesse la concreta
possibilità di fare quanto sarebbe stato di sicuro effetto preventivo.
La Corte di Appello ha rammentato gli assunti difensivi:

“solo nel 1972 si è

quindi (per la prima volta) affermata l’esistenza di un possibile legame tra i
tumori del polmone e l’asbesto, e tuttavia senza poter stabilire ed affermare la
sussistenza sicuro di un nesso causale”; l’associazione tra asbesto e mesotelioma
della pleura è sì presente nella letteratura medica dagli anni 1960 (Wagner,
1960; Selikoff et al, 1964), ma gli studi epidemiologici sui quali è stato possibile
definire le relazioni dose-durata-rischio sono stati pubblicati tra la seconda metà
degli anni 1970 e la prima metà degli anni 1980; i dati relativi ad esposizioni
“non massive” (quale è stata quella presso il Petrolchimico di Mantova) e relativi
a lavoratori venuti semplicemente a contatto con l’asbesto sono ben più recenti pubblicati tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso -; non vi era stata
prevedibilità da parte degli imputati del rischio carcinoma
polmonare/mesotelioma a seguito di esposizione ad asbesto, tanto che dalla
previsione di valori di limite soglia (TIV) avrebbe fatto sorgere, in capo agli
operatori del settore, “il legittimo affidamento nell’innocuità delle esposizioni che
si collocano al di sotto dei limiti medesimi”.

121

non potevano conoscere a quali condizioni poteva insorgere il mesotelioma.

La replica della Corte di Appello si è incentrata sull’accertata anteriorità delle
conoscenze circa la cancerogenicità dell’amianto rispetto ai periodi nei quali i
diversi imputati ebbero la responsabilità delle attività dello stabilimento di
Mantova; sulla inconferenza del richiamo ai valori soglia, perché nella specie non
era in questione la rilevanza di un comportamento cautelare limitatosi al
contenimento delle esposizioni entro quei limiti, essendo mancata qualsivoglia
azione di contenimento delle polluzioni, fermo restando che in relazione al
mesotelioma pleurico neppure si poneva il tema della soglia di esposizione.

Appello aveva già affrontato con motivazione consapevole dei principi posti dalla
giurisprudenza di legittimità, ad essi uniformandosi coerentemente e senza
incorrere in contraddittorietà rispetto alle emergenze processuali o in manifesta
illogicità. Valga quindi quanto si è premesso in via generale nel paragrafo 1 della
presente parte valutativa.
Deve solo aggiungersi che nessuno tra i ricorrenti ha evidenziato condizioni
incidenti sulla personale prevedibilità e prevenibilità dell’evento (salvo le
circostanze che si sono già esaminate nella prospettiva della titolarità di
posizione di obbligo). E la pretesa che debba essere esplicitato l’accertamento
della prevedibilità/prevenibilità di ciascuno degli eventi da parte di ciascuno degli
imputati non ha alcun fondamento se, come nel caso che occupa, le diverse
vicende incentrate sul singolo fatto reato risultino per ogni aspetto
sostanzialmente omogenee.
In conclusione, i motivi sono infondati.

8. Le censure concernenti il capo 3. Motivo VIII dei ricorsi congiunti.
In primo luogo è utile ribadire che mentre il Tribunale aveva ritenuto la
sussistenza delle condotte descritte al capo 3, salvo che per quelle appresso
indicate, ma aveva mandato assolti tutti gli imputati dal delitto di cui all’art. 437
cod. pen. perché il fatto non costituisce reato (e conseguentemente non aveva
pronunciato condanna al risarcimento dei danni), la Corte di Appello ha escluso
la sussistenza della materialità del reato in relazione alle condotte attinenti
l’amianto, ha ribadito il giudizio di insussistenza della materialità del reato in
relazione alle condotte descritte alle lettere a), c) c-bis, w, x, x-bis, y nonché k
ed I del capo 1, solo correggendo la formula utilizzata dal primo giudice in quella
della insussistenza del fatto; ha mantenuta ferma l’assoluzione per le condotte di
cui alle lettere p, q, r, t, z-octies, z-nonies e z-decies; ha confermato
l’assoluzione perchè il fatto non costituisce reato in relazione alle condotte sub
lettere b, d, e, f, f-bis, m, n, o, u, v-sexies e z-sexies (relative a stirene,
acrilonitrile, dicloroetano, apirolo); ha poi accolto l’appello del P.M. e del P.G.

122

Come è agevole osservare, con i ricorsi si sono ripetuti i rilievi che la Corte di

nonché quelli delle parti civili, ritenendo sussistente l’elemento soggettivo del
reato in relazione alle condotte attinenti al benzene (lettere g, h, h-bis, i, j, v, vbis, v-ter, v-quater, v-quinques, v-septies, v-octies, e da z a z-quinques)
pervenendo alla dichiarazione di estinzione del reato (anche nella sua forma
aggravata, ritenuta in relazione alla malattia del Negri) perché estinto per
prescrizione verificatasi sin dal tempo anteriore alla pronuncia della sentenza di
primo grado; con l’accessorio effetto di non adottare pronuncia di condanna al
risarcimento dei danni in favore delle parti civili appellanti, perché non emessa in

La ricognizione delle statuizioni rese dalla Corte di Appello a riguardo del
delitto sub capo 3 conduce a dare evidenza al consolidato principio secondo il
quale in sede di legittimità non è consentito il controllo della motivazione della
sentenza impugnata allorchè sussista una causa estintiva del reato, e ciò sia
quando detta causa sia sopraggiunta nelle more del giudizio in Cassazione, sia
quando sia stata dichiarata con lo stesso provvedimento nei cui confronti è
proposta l’impugnazione (Sez. 5, n. 588 del 04/10/2013 – dep. 09/01/2014,
Zambonini, Rv. 258670; sulla scia di Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009 – dep.
15/09/2009, Tettamanti, Rv. 244275), e ciò perché il giudice del rinvio avrebbe
comunque l’obbligo di procedere immediatamente alla declaratoria della causa
estintiva. Tanto vale, e per le medesime ragioni, anche per le nullità di ordine
generale, salvo che l’operatività della causa di estinzione del reato presupponga
specifici accertamenti e valutazioni riservati al giudice di merito, nel qual caso
assumerebbe rilievo pregiudiziale la nullità, in quanto funzionale alla necessaria
rinnovazione del relativo giudizio (Sez. 2, n. 2545 del 16/10/2014 – dep.
21/01/2015, Riotto, Rv. 262277; Sez. 6, n. 23594 del 19/03/2013 – dep.
30/05/2013, Luongo, Rv. 256625).
In tali casi il ricorrente può dolersi unicamente del non essere stata
pronunciata l’assoluzione nel merito. Ma in tal caso, come si è già scritto a
riguardo del ricorso Ziglioli, deve essere dimostrato l’errore che non ha
consentito al giudice impugnato di constatare l’evidenza della innocenza
dell’imputato.
Nel caso che occupa, da un canto i ricorsi percorrono un diverso itinerario, del
tutto divergente dalla prospettiva che sottopone ad analisi i vizi che hanno fatto
velo all’evidenza della prova di innocenza; dall’altro, come emerge in modo
palese dall’intero excursus che si è compiuto sin qui, va senz’altro escluso che “le
circostanze idonee ad escludere l’esistenza del fatto, la commissione del
medesimo da parte dell’imputato e la sua rilevanza penale emergano dagli atti in
modo assolutamente non contestabile, così che la valutazione che il giudice deve
compiere al riguardo appartenga più al concetto di ‘constatazione’, ossia di

123

primo grado sentenza di condanna degli imputati.

percezione ‘ictu oculi’, che a quello di ‘apprezzamento’ e sia quindi incompatibile
con qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento” (Sez. U, n. 35490
del 28/05/2009 – dep. 15/09/2009, Tettamanti, Rv. 244274).
Il motivo VIII risulta quindi inammissibile.

9. Le censure alle statuizioni concernenti il trattamento sanzionatorio.
Motivo IX dei ricorsi congiunti, motivi 3 e 4 del ricorso individuale
Ziglioli, motivi 3 e 4 del ricorso individuale Diaz.

Appello ha da un canto dato conto degli elementi che indicano una loro ridotta
misura di responsabilità e dall’altro determinato la pena base in misura superiore
al minimo edittale; utilizzando, quale giustificazione di una pena più severa il
trattamento sanzionatorio individuato in situazioni analoghe. Inoltre il Diaz si è
doluto della omessa motivazione in ordine al diniego della sospensione
condizionale della pena.
L’esame dei citati motivi risulta superfluo, giacché le statuizioni che vengono
date con la presente decisione importano la necessità che venga celebrato nei
confronti di tutti gli imputati un nuovo giudizio in sede penale, avente ad oggetto
le affermazioni di responsabilità per taluni dei reati in ordine ai quali è stata
pronunciata condanna. Ciò renderebbe puramente astratta ogni considerazione
sulla motivazione resa dalla Corte di Appello in tema di trattamento
sanzionatorio, da doversi riformulare alla luce del rinnovato esame.

10.

La legittimazione ad agire delle parti civili Syndial s.p.a., Polimeri

Europa s.p.a., Regione Lombardia, Provincia di Mantova, Comune di
Mantova e Medicina difensiva. Motivo X dei ricorsi congiunti.
Con il motivo X si è contestata la motivazione con la quale è stata ribadita la
legittimazione processuale di Syndial Attività Diversificate s.p.a., della Polimeri
Europa s.p.a. (ora Versalis S.p.a.), del Comune di Mantova, della Provincia di
Mantova, della Regione Lombardia e di Medicina Democratica.
10.1. Quanto a Syndial A.D., si contesta in primo luogo il giudizio di
aspecificità dell’appello per essere esso meramente ripetitivo dei rilievi proposti
al Tribunale; in secondo luogo si afferma sussistere un vizio nella motivazione
con la quale la Corte di Appello ha espresso il giudizio per il quale nell’atto di
transazione novativa tra Eni s.p.a.- Enichem s.p.a. ed Edison s.p.a. del 6.3.2003
non erano riconnpresi i danni conseguenti alle violazioni antinfortunistiche perché
non prevedibili al momento del contratto. La contestazione poggia su un asserito
travisamento del contenuto dell’atto di transazione; su una omessa motivazione
in ordine alla lamentata carenza di legittimazione di Syndial A.D. rispetto al

124

Con i motivi sopra indicati tutti gli imputati hanno lamentato che la Corte di

danno conseguente ai ‘costi sostenuti per rimuovere e bonificare i manufatti
contenenti amianto’; su una contraddizione corrente tra la indicazione di
elementi deponenti per la consapevolezza da parte della menzionata società
della pendenza di un procedimento penale avente ad oggetto le malattie
professionali dei dipendenti quasi due anni prima della menzionata transazione e
la ritenuta imprevedibilità dei danni.
Orbene, occorre muovere dalla considerazione che quando con il ricorso per
cassazione si censura il giudizio di genericità/specificità dei motivi di appello,

modo non manifestamente illogico, il ricorrente non può limitarsi a contestare
tale giudizio ma deve dare dimostrazione che esso è infondato. Risulta quindi
necessario dare dimostrazione che si erano rappresentati argomenti ulteriori e
che essi erano decisivi.
Indicazioni in tal senso si colgono in quella giurisprudenza di legittimità che
ritiene inammissibile il ricorso per cassazione allorquando, trattandosi di
sentenza di appello che, al cospetto di motivi che si limitano a riproporre
questioni già articolatamente esaminate e risolte dal primo giudice, rinvii per
“relationem” alla sentenza di questi, non veda dal ricorrente soddisfatto l’onere
di deduzione delle questioni specifiche all’epoca eccepite in sede di appello e non
esaminate (cfr. Sez. 3, n. 35964 del 04/11/2014 – dep. 04/09/2015, B e altri,
Rv. 264879).
Nel caso che occupa i ricorrenti hanno riproposto le medesime argomentazioni
che erano state portate all’attenzione del Tribunale prima e della Corte di Appello
poi, solo asserendo l’esistenza di ‘specifici elementi dedotti dalle difese’;
locuzione che si intuisce vuole alludere agli argomenti a sostegno della dedotta
carenza di legittimazione, mentre avrebbe dovuto trattarsi di elementi la cui
specificità si coglie in rapporto alla valutazione che si andava a contestare.
Peraltro, la Corte di Appello è comunque scesa nell’esame di quelle ripetitive
argomentazioni e del tutto fondatamente, stante la carenza di nuovi elementi di
valutazione, ha ribadito la scansione motivazionale adottata dal Tribunale.
A tal proposito, nel caso che occupa risulta non deducibile il vizio di
‘travisamento della prova’. Come rammentato dagli stessi ricorrenti, esso
identifica un errore sul significante e non sul significato dell’elemento di prova,
che si traduce nell’utilizzo di una prova inesistente per effetto di una errata
percezione di quanto riportato dall’atto istruttorio (Sez. 5, n. 18542 del
21/01/2011 – dep. 11/05/2011, Carone, Rv. 250168). Diversamente si
tratterebbe null’altro che di una contestazione della valutazione della prova
operata dal giudice, senza identificazione di alcuno dei vizi tipizzati dall’art. 606

125

perché ripetitivi di quelli già sottoposti dal primo giudice e da questi valutati in

cod. proc. pen. (cfr. Sez. 5, n. 9338 del 12/12/2012 – dep. 27/02/2013, Maggio,
Rv. 255087).
Tuttavia, quando si tratta di decisione conforme a quella resa in primo grado
(cd. doppia conforme), la deducibilità del travisamento della prova è preclusa
dal limite costituito dal “devolutum”; salvo il caso in cui il giudice d’appello, per
rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, abbia richiamato dati
probatori non esaminati dal primo giudice (Sez. 4, n. 19710 del 03/02/2009 dep. 08/05/2009, P.C. in proc. Buraschi, Rv. 243636; Sez. 1, n. 24667 del

24/01/2007 – dep. 07/02/2007, Medina ed altri, Rv. 236130), o il caso in cui
entrambi i giudici di merito siano incorsi nel medesimo travisamento delle
risultanze probatorie (Sez. 4, n. 44756 del 22.10.2013, Buonfine ed altri, n.m.).
Eccezioni che devono essere puntualmente rappresentate e documentate dal
ricorrente, pena la aspecificità del motivo, perché non soddisfacente la
prescrizione dell’art. 581 lett. c) cod. proc. pen., per la quale i motivi devono
dare indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che
sorreggono ogni richiesta.
Nel caso che occupa si è palesemente al di fuori dell’ambito proprio al
travisamento della prova.
Va poi osservato che neppure ricorre l’omessa motivazione lamentata a
riguardo dei costi sostenuti per la rimozione dei manufatti contenenti amianto.
La Corte di Appello ha tenuto conto specificamente di essi quando ha affermato
che la questione delle singole voci di danno risarcibili non attiene al tema della
legittimazione ad agire bensì a quello del diritto al risarcimento; aggiungendo,
peraltro, che si trattava di voce di danno già esclusa dal Tribunale.
Comunque, quell’affermazione, con riferimento alle voci di danno per le quali
le difese non hanno posto il tema della loro allocazione in forza della menzionata
transazione (come i predetti costi, dei quali si sostiene la non risarcibilità perché
sostenuti per adempiere a prescrizioni di legge), appare in linea con la
consolidata giurisprudenza di legittimità, per la quale la legittimazione all’azione
civile nel processo penale va verificata esclusivamente alla stregua della
fattispecie giuridica prospettata dalla parte a fondamento dell’azione, in relazione
al rapporto sostanziale dedotto in giudizio ed indipendentemente dalla effettiva
titolarità del vantato diritto al risarcimento dei danni, il cui accertamento
riguarda il merito della causa, investendo i concreti requisiti di accoglibilità della
domanda e, perciò, la sua fondatezza, ed è collegato all’adempimento dell’onere
deduttivo e probatorio incombente sull’attore (Sez. 4, n. 14768 del 18/02/2016,
dep. 11/04/2016, P.C. in proc. Spalletti, Rv. 266899; Sez. 2, n. 49038 del
21/10/2014 – dep. 25/11/2014, Pg in proc. Colonna e altro, Rv. 261143).

15/06/2007 – dep. 21/06/2007, Musumeci, Rv. 237207; Sez. 2, n. 5223 del

Ed ancora: la censura che colpisce il rigetto della deduzione difensiva della
carenza di legittimazione di Syndial A.D. per i danni morali derivati dai reati di
cui ai capi 1 e 2 della rubrica si concreta in una contestazione dell’accertamento
di fatto condotto dal giudice del merito, trasfuso in una motivazione priva di
manifesta illogicità; è infatti mera asserzione oppositiva che l’esistenza di atti di
indagine risalenti al 2001 già rendeva consapevoli di ciò che del tutto
logicamente la Corte di Appello ha ritenuto essersi concretizzato solo con
l’ulteriore sviluppo delle attività investigative e la richiesta di rinvio a giudizio

Infine, puramente reiterativo è anche il richiamo alla cessione degli impianti
operata da Syndial A.D. a Polimeri Europa s.p.a. nel 2002: a pg. 142 la Corte di
Appello ha spiegato le ragioni per le quali la Enichem s.p.a. (che nel 2003 diverrà
Syndial A.D.) era stata interessata alle attività investigative prima di quella data.
10.2. Per ciò che concerne la legittimazione attiva di questa seconda società,
ribadito il giudizio di aspecificità anche per la relativa deduzione di omessa
valutazione delle non meglio precisate argomentazioni difensive esposte nell’atto
di appello, va osservato che il fulcro della interpretazione data dai giudici di
merito all’atto di conferimento del ramo di azienda ‘Attività Chimiche Strategiche’
operato da Enichem in favore di Polimeri dal 1.1.2002 è che con la clausola in
esso contenuta, per la quale

“resta fermo che tutte le controversie, di

qualsivoglia natura e gli effetti de/loro esito relative e/o connesse a fatti, atti e
situazioni pregresse rispetto al 1 gennaio 2002, rimarranno a totale carico e
gestione della Enichem”, si era inteso far riferimento alle liti già incardinate alla
data del 1.1.2002. Tale interpretazione, non manifestamente illogica, non è stata
efficacemente attinta dalle censure dei ricorrenti, i quali si sono limitati a dare
alla sequenza delle previsioni negoziali citate dalla corte distrettuale una lettura
alternativa.
10.3. Anche le censure che investono la ritenuta legittimazione attiva degli
enti territoriali, Comune di Mantova, Provincia di Mantova e Regione Lombardia,
non possono essere accolte.
La Corte di Appello ha respinto i motivi avanzati dagli appellanti osservando
che l’ammissione delle costituzioni come parti civili dei tre enti territoriali
trovasse il suo fondamento nella titolarità di un diritto soggettivo proprio,
rappresentato dalla tutela della salute dei lavoratori e della sicurezza degli
ambienti di lavoro, effettivamente perseguita con atti concreti, specificamente
nominati già dal Tribunale; che non assume rilievo il fatto che le attività svolte
da tali enti siano state temporalmente successive alle condotte contestate,
risultando peraltro parte degli eventi di posteriore consumazione; che non

127

(del 2009).

dovevano sovrapporsi i piani del riconoscimento della legittimazione ad agire e
quello del riconoscimento del diritto al risarcimento.
I ricorrenti lamentano che la Corte di Appello non abbia replicato alla
principale delle censure, che sulla scorta del disposto del d.lgs. n. 152/2006
sosteneva la esclusiva legittimazione ad agire dello Stato – e per esso del
Ministero dell’Ambiente – per il ristoro del danno ambientale, dovendosi anche
escludere che permanga la legittimazione degli enti territoriali per le condotte ed
i danni verificatisi prima dell’entrata in vigore del citato decreto (diversamente

Il motivo è inammissibile, in quanto non è coordinato alla ratio decidendi della
statuizione criticata.
Già il Tribunale aveva identificato quale ragione della riconosciuta
legittimazione ad agire dei citati enti territoriali non già la titolarità dell’azione
per il danno ambientale ma la titolarità della tutela della salute dei lavoratori e
della sicurezza degli ambienti di lavoro. Il dato, come si è visto, è stato ribadito
dalla Corte di Appello.
Ne deriva l’inammissibilità del motivo, poiché l’atto di impugnazione non può
ignorare le affermazioni del provvedimento censurato senza cadere nel vizio di
aspecificità (ex multis Sez. 4, n. 34270 del 03/07/2007 – dep. 10/09/2007,
Scicchitano, Rv. 236945).
I rilievi che muovo dalla considerazione di un danno a bene diverso
dall’ambiente attengono invece non al piano della legittimazione ad agire ma a
quello della sussistenza del diritto al risarcimento; anch’essi risultano quindi
eccentrici rispetto al tema trattato dai giudici di merito (che si sono limitati ad
una condanna generica al risarcimento dei danni).
Più pertinente, ma comunque meramente reiterativa, è la censura che investe
la ritenuta legittimazione della Regione Lombardia per un diverso aspetto,
ovvero quello della posteriorità della sua competenza in materia di tutela del
diritto alla salute e della salubrità degli ambienti di lavoro rispetto alla
commissione delle condotte contestate. Si tratta di un rilievo al quale già il
Tribunale aveva dato corretta replica, in primo luogo osservando che
l’affidamento delle competenze amministrative in tema di tutela della salute,
anche negli ambienti di lavoro, risaliva alla legge n. 833/1978; quindi
puntualizzando che occorre guardare al tempo di verificazione degli eventi di
danno.
Anche in questo caso il motivo elevato con il ricorso omette di confrontarsi
con pertinenza al nucleo della statuizione avversata.
Infine, per quanto concerne la legittimazione attiva di Medicina Democratica, i
ricorrenti lamentano che la Corte di Appello non abbia motivato a riguardo del

128

da quanto sostenuto dal Comune di Mantova).

principale rilievo, ovvero l’assenza di collegamento tra l’attività dell’ente e il
territorio mantovano.
A tal proposito, in primo luogo va rammentato che questa Corte ha già avuto
modo di puntualizzare che gli enti di fatto, privi di personalità giuridica, sono
legittimati alla costituzione di parte civile, ove agiscano “iure proprio” in qualità
di soggetti danneggiati dal reato, anche se non ancora operativi al momento del
verificarsi dei fatti di cui all’imputazione (Sez. 4, n. 38991 del 10/06/2010 – dep.
04/11/2010, Quaglierini e altri, Rv. 248848; Sez. 4, n. 12175 del 03/11/2016 –

In secondo luogo deve convenirsi che non errano i ricorrenti quando
rammentano che la giurisprudenza di legittimità non ritiene sufficiente la mera
titolarità della tutela degli interessi lesi, richiedendo il radicamento sul territorio,
la rappresentatività di un gruppo significativo di consociati, la prova concreta
della continuità della sua azione e la rilevanza del contributo reso a difesa di uno
specifico territorio.
In effetti, in uno dei più autorevoli e recenti approfondimenti in materia, dopo
aver registrato che la giurisprudenza si è evoluta da interpretazioni restrittive
verso ricostruzioni di maggior favore, giungendo alla conclusione che

“la

tutelabilità degli interessi collettivi non richieda l’esistenza di una norma di
protezione, essendo sufficiente la diretta assunzione da parte dell’ente
dell’interesse in questione, che ne ha fatto oggetto della propria attività,
diventando lo scopo specifico dell’associazione”, si è posta in luce la necessità di
rinvenire “un principio regolatore che, ferme le linee di fondo dello sviluppo della
giurisprudenza, eviti esiti inappropriati, come l’indiscriminata estensione della
legittimazione tutte quante volte un qualunque organismo rivendichi di essere
custode dell’interesse leso dal reato. Giova a tale riguardo l’evocazione e la
valorizzazione, ricorrente in giurisprudenza, della necessità di far riferimento ad
una situazione storica determinata; e rileva altresì il ruolo concretamente svolto
dall’organismo che si costituisce nel giudizio” (così, in motivazione, Sez. U, n.
38343 del 24/04/2014 – dep. 18/09/2014, P.G., R.C., Espenhahn e altri, Rv.
261110).
Orbene, nel caso che occupa correttamente è stata ritenuta la legittimazione
ad agire di Medicina Democratica, atteso che il giudice di primo ha dato conto
delle circostanze fattuali che dimostrano l’attività dell’ente proprio nel territorio
mantovano ed anzi proprio nelle vicende connesse allo stabilimento
petrolchimico: “… una copiosa documentazione [che] dimostra in modo evidente
l’attività effettivamente svolta nel settore della prevenzione delle malattie
professionali e malattie-infortuni sui luoghi di lavoro nel corso del tempo, dalla
sua nascita, fino all’attualità, con particolare riferimento agli interventi realizzati

129

dep. 14/03/2017, P.C. in proc. Bordogna e altri, Rv. 270386).

con l’ausilio dei lavoratori, con la presentazione di numerosi esposti-denuncia fra
cui, proprio con riferimento allo stabilimento mantovano: si consideri a questo
riguardo che, come riferito dal teste TORRI all’udienza dell’8 giugno 2011,
l’esposto-denuncia che diede l’abbrivio al presente procedimento del 1998 fu
redatto giustappunto con l’ausilio di esponenti di Medicina Democratica sul
territorio …; risulta poi l’organizzazione in ambito territoriale di convegni,
incontri, corsi finalizzati alla discussione di tematiche relative alla sicurezza sui
luoghi di lavoro e sull’ambiente.”

11. La condanna al risarcimento dei danni in favore delle parti civili e la
condanna al pagamento delle spese di giudizio. Motivo XI dei ricorsi
congiunti e motivo 6 del ricorso individuale Ziglioli.
11.1. Il motivo XI investe la condanna al risarcimento dei danni patiti dai
soggetti appena menzionati, pronunciata dal Tribunale e ribadita dalla Corte di
Appello, che hanno rinviato al giudice civile per la determinazione del quantum.
I ricorrenti lamentano, segnalando circostanze specifiche per ciascuna della
parti civili, la indimostrata sussistenza di danni da reato: si assume che il danno
all’immagine riconosciuto alla Syndial A.D. è derivato dal processo e non dal
reato; che il diritto al risarcimento dei danni alla Polimeri E. non può essere
riconosciuto per quelli anteriori al 1.1.2002 e che quelli successivi non
deriverebbero dai reati ma dalla distorta informazione resa dagli organi di
stampa; si contesta che il danno della Regione Lombardia sia in rapporto
immediato e diretto con i reati accertati; si afferma che il Comune e la Provincia
di Mantova non avrebbero dimostrato l’esistenza di un danno risarcibile; che
Medicina democratica non avrebbe subito alcun danno perché non dimostrato il
collegamento tra le sue attività ed il territorio mantovano nel periodo di
interesse.
Orbene, occorre nuovamente rimarcare che i giudici hanno pronunciato una
condanna generica al risarcimento dei danni; pronuncia i cui limiti di
impugnabilità con il ricorso per cassazione sono stati ripetutamente scanditi da
questa Corte.
Va considerato, infatti, che ai fini della pronuncia di condanna generica al
risarcimento dei danni in favore della parte civile non è necessario che il
danneggiato provi la effettiva sussistenza dei danni ed il nesso di causalità tra
questi e l’azione dell’autore dell’illecito, essendo sufficiente l’accertamento di un
fatto potenzialmente produttivo di conseguenze dannose: la suddetta pronuncia
infatti costituisce una mera “declaratoria juris” da cui esula ogni accertamento
relativo sia alla misura sia alla stessa esistenza del danno, il quale è rimesso al

130

Il motivo è pertanto manifestamente infondato.

giudice della liquidazione (Sez. 6, n. 9266 del 26/04/1994 – dep. 26/08/1994,
Mondino ed altro, Rv. 199071). Ne deriva che il giudice penale che disponga il
risarcimento dei danni in favore della parte civile, rinviando al giudice civile per
la determinazione del quantum, non ha l’obbligo di specificare la tipologia di
danno al cui risarcimento è tenuto l’imputato (Sez. 4, n. 7465 del 24/03/1981,
dep. 28/07/1981, Bernardo, Rv. 149951; Sez. 4, n. 12175 del 03/11/2016 dep. 14/03/2017, P.C. in proc. Bordogna e altri, Rv. 270386).
Nel caso di specie la Corte di Appello ha ribadito che i menzionati soggetti

ritenuti, dei danni; ha reso sul punto una motivazione non manifestamente
illogica, a fronte della quale i ricorsi hanno saputo unicamente riproporre rilievi
già esaminati dal giudice del gravame.
Ne deriva l’infondatezza dei motivi.
11.2. Il motivo 6 del ricorso dello Ziglioli lamenta che non sia stato tenuto
conto, nella determinazione della entità delle spese di giudizio alla cui rifusione
alle parti civili l’imputato è stato condannato, del diverso esito del giudizio di
secondo grado, nel quale colgono ragione per una riduzione o una parziale
compensazione di quelle.
L’assunto è infondato. La giurisprudenza di legittimità insegna che il parziale
accoglimento dell’appello proposto dall’imputato non comporta l’obbligo del
giudice di riformare la decisione di primo grado sulle spese giudiziali, potendo
pur sempre riconfermare la ripartizione delle spese compiuta dal primo giudice,
purché conforme, in ogni caso, ai principi generali sulla soccombenza (Sez. 5, n.
48736 del 13/10/2014 – dep. 24/11/2014, Scatigno, Rv. 261297). Tanto implica
che il giudice di appello è vincolato unicamente al principio della soccombenza, al
quale pacificamente la Corte di Appello si è attenuta, considerato che ha
condannato lo Ziglioli al pagamento delle intere spese processuali nei confronti
delle parti civili per le quali non è stata ravvisata, diversamente da quanto
valevole per Syndial A.D. e Versalis s.p.a., reciproca parziale soccombenza.

12. Il ricorso del P.G.
12.1. Con il primo motivo il P.G. investe la motivazione resa dalla Corte di
Appello a riguardo del delitto sub 3.
Appare pregiudiziale la censura che attiene alla ritenuta prescrizione del reato,
poiché ove infondata renderebbe superflua l’esame delle ulteriori argomentazioni
del ricorrente.
Ad avviso del P.G. di Brescia il delitto di cui all’art. 437, co. 1 cod. pen. ha
natura di reato permanente e si protrae sino a quando non cessa la condotta
tipica. Si tratta di affermazione non corretta nella sua assolutezza. Va infatti

131

avevano riportato dai reati di cui ai capi 1) e 2), nei limiti in cui essi erano stati

operato un distinguo, imposto dalla duplice forma – commissiva ed omissiva che può assumere la condotta in questione. Nell’ipotesi di rimozione di
dispositivi, apparecchi o segnali, il delitto non può che consumarsi con l’ablazione
dell’oggetto materiale; quando la rimozione sia consistita non soltanto nella
materiale asportazione, dalla macchina, dei congegni di sicurezza, ma anche in
una attività che ne frustra il funzionamento in relazione alla finalità
antinfortunistica cui essi sono predisposti (cfr. Sez. 1, n. 2181 del 13/12/1994 dep. 03/03/1995, Graziano ed altro, Rv. 200415), la consumazione del reato

prevenzionistica dell’oggetto. Si tratta comunque di reati istantanei, sia pure
potendone conseguire effetti permanenti.
Per contro, nella forma omissiva il reato permane sino a quando non sia stato
collocato il dispositivo o questo non sia più utilmente collocabile.
E’ certo, però, che la condotta da considerare è quella posta in essere dallo
specifico imputato; sicché risulta palesemente erronea l’affermazione del
ricorrente per la quale l’omissione si protrae sino a quando non sia stata
‘comunque’ adottata la cautela ed anzi, per stare ai temi proposti dalla presente
vicenda processuale, sino a quando non sia conclusa l’opera di eliminazione
dell’amianto. Né si comprende entro quali categorie giuridiche il ricorrente
inscriva l’affermazione che la perdita del ruolo aziendale non abbia rilevanza
sulla permanenza del reato, perché rimarrebbe doverosa l’eliminazione
dell’inquinamento. Ben diversamente, poiché si è nel campo del reato proprio possono omettere quanto preteso dall’art. 437 cod. pen. solo coloro che dalla
normativa prevenzionistica sono gravati di un correlato obbligo di facere – il
venir meno della qualità segna il confine temporale della pretesa
dell’ordinamento.
Pertanto, se è vero che il reato permane sino a quando può ancora
pretendersi il comportamento attivo doveroso (persistenza della situazione
tipica, in costanza dell’obbligo giuridico), non v’è dubbio che quella permanenza
cessa nel momento in cui la persona fisica non è più in condizioni di adempiere.
Al contrario di quanto asserito dal ricorrente, assume rilievo che la posizione
giuridica donde trae origine l’obbligo di facere venga dismessa, perché ciò priva
la persona fisica della possibilità giuridica e materiale di intervenire ponendo fine
alla propria omissione. Non può sfuggire che il ricorrente, evidentemente conscio
di tale insuperabile limite, si appelli ad una giurisprudenza del Consiglio di Stato
che evoca la responsabilità “di chi abbia inquinato” (invero in una prospettiva del
tutto eccentrica rispetto al tema che qui occupa). Il principio del ‘chi inquina
paga’ non può che essere declinato nelle forme che ciascun ordinamento

132

coincide con l’esecuzione dell’attività che compromette la funzione

settoriale conosce; e per quanto riguarda il diritto penale non può travolgere il
principio della personalità della responsabilità penale.
Quanto all’ipotesi di cui all’art. 437, co. 2 cod. pen., tenuto conto che essa è
stata ritenuta in relazione al solo infortunio-malattia del Negri, la consumazione
del reato coincide con il momento al quale si fa risalire l’insorgenza della stessa.
A tal riguardo è destituita di fondamento l’affermazione del ricorrente che il
delitto sarebbe aggravato dal disastro, perché l’indicazione di circa settanta
decessi equivale ad indicare l’evento disastro e non sarebbero stati contestati

tutti questi; con la conseguenza, per l’esponente, che il termine iniziale della
prescrizione coinciderebbe con l’ultimo evento morte.
Un simile assunto contrasta con la duplicità delle configurazioni
dell’aggravante di cui all’art. 437, co. 2 cod. pen.; l’una integrata dalla
verificazione del disastro, l’altra dalla verificazione dell’infortunio e/o della
malattia-infortunio ed ignora che la nozione di disastro non coincide con la
molteplicità degli eventi di danno che coinvolgono i beni individuali della salute e
della vita, consistendo, piuttosto, in un macroevento di immediata
manifestazione esteriore che si verifica in un arco di tempo ristretto ovvero in un
macro evento non visivamente ed immediatamente percepibile, che si realizza in
un periodo molto prolungato, i quali producano una compromissione delle
caratteristiche di sicurezza, di tutela della salute e di altri valori della persona e
della collettività tale da determinare una lesione della pubblica incolumità (cfr.,
ex multis, Sez. 1, n. 7941 del 19/11/2014 – dep. 23/02/2015, P.C., R.C. e
Schmidheiny, Rv. 262790).Laddove l’infortunio sul lavoro è l’accadimento che
pone in pericolo oppure determina la lesione del bene della integrità psico-fisica
o della vita di uno o più persone fisiche nel contesto dell’attività lavorativa. La
diversità del soggetto passivo, l’uno di natura collettiva e l’altro di natura
individuale, segna la più evidente linea di demarcazione tra i due concetti. I
quali non possono essere utilizzati ecletticamente o come fungibili tra loro. La
contestazione, infatti, con assoluta precisione indica l’evento aggravante
nell'”essere derivati gli infortuni, “le malattie-infortunio professionali” e
l’insorgenza delle patologie nei lavoratori indicati nell’allegato D) e le conseguenti
morti e lesioni come ivi indicate”. Risulta del tutto evidente la considerazione
delle tante morti e lesioni nella loro individualità; non vi è traccia di una reductio
ad unum di tutte loro nel fenomeno collettivo che evoca il concetto di disastro.
Non vi è equivalenza giuridica tra numero dei soggetti passivi e sussistenza del
pericolo comune (per non dire degli ulteriori elementi costitutivi del disastro); il
ponte tra questi termini deve essere costruito da una contestazione puntuale ed
esplicita. Nel caso di specie, la scelta della pubblica accusa è stata palesemente

133

tanti eventi quanti sono gli infortuni-malattia ma un macro evento comprendente

altra e coerentemente manifestata con l’imputazione. D’altro canto sarebbe stato
davvero singolare il silenzio che l’intero procedimento ha osservato rispetto ai
temi imposti da una prospettazione di verificazione del disastro.
Pertanto, non hanno errato i giudici di merito ad identificare quale dies a quo
del termine di prescrizione del reato non aggravato da ciascuno imputato
commesso quello di cessazione dalla carica, momento che al più tardi cadde nel
1989; con l’effetto del consumarsi del termine massimo di prescrizione (di sette
anni e sei mesi, calcolato secondo la più favorevole disciplina della legge n.

conclusione si perverrebbe anche applicando i termini della disciplina
previgente). Quanto al solo reato aggravato accertato in ogni sua componente,
coglie il segno la censura dei ricorrenti di un errore di diritto della Corte di
Appello, che ha fatto decorrere il termine di prescrizione dalla morte del Negri,
avvenuta il 23.6.1999, perché esso avrebbe dovuto essere individuato nel
momento dell’insorgenza della malattia (ovvero, stante la peculiarietà della
vicenda, in quello della prima diagnosi della malattia), risultando irrilevante ai
fini del perfezionamento della ipotesi aggravata l’ulteriore evoluzione della
malattia nella morte. Come è stato condivisibilmente affermato, la norma prende
in considerazione l’infortunio.
Ciò evidentemente non ha effetti favorevoli al P.G. ricorrente, perché il
momento di estinzione del reato si colloca addirittura in un momento
antecedente a quello fissato dalla Corte di Appello, per la quale il reato si è
estinto prima del deposito della richiesta di rinvio a giudizio, per lo spirare
prima di tale data (24.6.2009) del termine ordinario di dieci anni (la corte
distrettuale ha precisato che anche il termine massimo di prescrizione definito
dalla disciplina della legge n. 251/2005, pari a dodici anni e sei mesi, era spirato
prima della pronuncia della sentenza di primo grado).
Dovendosi mantenere ferme le statuizioni della Corte di Appello a riguardo
dell’avvenuta estinzione dei reati di cui al capo 3 della rubrica, risulta anche in
questo caso non consentita ogni censura che lamenti il vizio della motivazione,
per le ragioni che si sono esplicate trattando del motivo VIII dei ricorsi congiunti.
12.2. Il ricorrente afferma che la Corte di Appello ha omesso la motivazione in
merito a taluni motivi proposti con il gravame, avendo operato una errata
interpretazione dell’oggetto dell’appello del P.G., che avrebbe investito ogni
aspetto dell’assoluzione degli imputati dal reato di cui all’art. 437, co. 1 e 2 cod.
pen. e non solo, come ritenuto dalla corte territoriale, quella concernente il
delitto aggravato dalle malattie dei lavoratori Roncari, Sanfelici e Zavattini.

134

251/2005) già prima del deposito della richiesta di rinvio a giudizio (e ad eguale

Il motivo è aspecifico, perché non si trae dalla premessa alcuna conclusione
sul piano delle richieste; non si esplicita quali effetti, scaturiti dall’omissione,
dovrebbero essere risolti con una sentenza di annullamento.
Ma di più. La Corte di Appello, a pg. 370, ha rammentato che il P.G. aveva
impugnato la pronuncia assolutoria di tutti gli imputati (ad eccezione della
assoluzione per Schena) con riferimento al capo 3 dell’imputazione e “ai
lavoratori indicati nell’allegato D” e che i motivi a sostegno dell’impugnazione di
detto capo della sentenza eranosovrapponibili a quelli contenuti nell’atto di

riferimento alla esposizione a benzene, della condotta di mancata polmonazione
con azoto del serbatoio F101 installato nel reparto PA5 e di quella relativa alla
mancanza di un sistema idoneo per l’abbattimento delle immissioni dalla colonna
D301 nonché la ritenuta insussistenza dell’elemento soggettivo. Non sembra
quindi sussistere alcun fraintendimento.
E non basta. Non si comprende come si possa sostenere che si era contestata
la esclusione del reato di cui all’art. 437 co. 2 cod. pen. per quelle morti in ordine
alle quali era stato esclusa la sussistenza del delitto di cui all’art. 589 cod. pen.,
pur ribadendo che quest’ultimo giudizio non era stato fatto oggetto di
impugnazione. Ora, anche in questa sede si è appena ribadita la non riducibilità
del delitto contro l’incolumità pubblica aggravato dall’infortunio al delitto contro
la vita individuale, come dimostra la indiscussa ammissibilità del concorso di
reati. Ma, come ha ben rilevato la Corte di Appello, quando l’evento aggravante
sia l’infortunio, occorre pur sempre dimostrare che esso è stato causato dalla
condotta tipica; e nel caso che occupa le assoluzioni per i decessi di Basso
Severino, Bringhenti Arturo, Toniato Bruno (compresi nell’allegato B2 al decreto
che dispone il giudizio), di Peretti Franco, di Rebustini Livio (compresi
nell’allegato B1), di Zavattini Guglielmo (indicato nell’allegato C2), di Sanfelici
Mario (indicato nell’allegato C1),

di Braglia Carlo, Frati Giuseppe, Pirodini

Erminio e Roncari Sergio (indicati nell’allegato C2) erano state pronunciate per
l’insussistenza del fatto, non risultando accertata la patologia o la sua
derivazione dalle condotte descritte nelle imputazioni.
12.3. Anche in relazione alle statuizioni concernenti gli omicidi colposi il
ricorrente ha mosso censure che incidono sul giudizio della Corte di Appello di
avvenuta estinzione per prescrizione di taluni di essi. Appare quindi pregiudiziale
l’esame di tali rilievi.
Si è denunciata (con il terzo motivo) l’errata applicazione della disciplina della
prescrizione del reato continuato; premessa della censura è la critica del diniego
di riconoscimento dell’aggravante di cui all’art. 61 n. 3 cod. pen. (secondo
motivo). Infatti, solo se travolta quest’ultima statuizione può ipotizzarsi una

135

appello del PM. Il quale, a sua volta, contestava la ritenuta insussistenza, con

continuazione tra gli omicidi colposi e porre il tema della prescrizione nel caso di
reato continuato. Ed invero, se l’unicità del disegno criminoso, tipica del reato
continuato, non è configurabile nei reati colposi, perché in essi l’evento non è
voluto dall’agente, così che la condotta, genericamente voluta, non può
considerarsi in alcun modo diretta a realizzare l’evento, non altrettanto vale nel
caso in cui l’agente abbia realizzato il reato colposo agendo nonostante la
previsione dell’evento (Sez. 4, n. 3579 del 29/11/2006 – dep. 31/01/2007, RG.
in proc. Galluzzo, Rv. 236018).

Come rammentato dal Tribunale, il giudice dell’udienza preliminare aveva
ritenuto i reati non prescritti perché la contestazione faceva riferimento
all’aggravante di cui all’art. 61 n. 3 cod. pen. Ciò permetteva di tener conto della
regola posta dall’art. 158 co.

1 cod. pen., nel testo previgente alla legge ex

Cirielli – ovvero di tener conto della continuazione tra i reati ai fini del calcolo del
termine di prescrizione, dovendo il dies a quo essere identificato in quello in cui
era cessata la continuazione.
All’esito dell’istruttoria dibattimentale il primo giudice aveva escluso che fosse
stata raggiunta la prova della sussistenza di tale aggravante; ciò lo induceva ad
identificare nella disciplina previgente alla legge 251/2005 quella più favorevole,
e di conseguenza ricalcolava i termini di prescrizione, giungendo alla conclusione
che risultavano estinti tutti gli omicidi colposi commessi entro il 23.6.1999
perché il deposito della richiesta di rinvio a giudizio era intervenuto il 24.6.2009.
Solo l’omicidio del Negri non risultava prescritto, perché egli era deceduto
proprio il 23.6.1999 e quindi il termine di prescrizione aveva avuto inizio alle ore
zero del 24 giugno 1999 e sarebbe spirato alle ore 24 del 24 giugno 2009; il
deposito della richiesta di rinvio a giudizio il 24 giugno 2009 aveva avuto l’effetto
di interrompere la prescrizione ai sensi dell’art. 160 cod. pen.
La Corte di appello, dal canto suo, sollecitata dalle impugnazioni del P.M. e del
P.G., ha ipotizzato gli approdi ai quali si sarebbe dovuto giungere qualora fosse
stata ritenuta sussistente l’aggravante di cui all’art. 61 n. 3 cod. pen. (cfr.
‘Capitolo 9. La problematica della prescrizione dei reati di omicidio), svolgendo
un’articolata ricostruzione a partire dall’assunto che si sarebbero dovuti tenere
distinti gli omicidi commessi prima dell’8.12.2005 (data di entrata in vigore della
legge 251/2005) e quelli commessi dopo tale data, perché diversamente si
sarebbe fatta applicazione di una disciplina mista, come non è consentito dalla
giurisprudenza di legittima (il riferimento è al noto principio secondo il quale, in
materia di successione nel tempo di leggi penali, il giudice, una volta individuata
la disposizione complessivamente più favorevole, deve applicarla nella sua
integralità, senza poter combinare un frammento normativo di una legge e un

136

Orbene, il secondo motivo è infondato.

frammento normativo dell’altra legge secondo il criterio del “favor rei”, atteso
che in tal modo verrebbe ad applicare una terza fattispecie di carattere
intertemporale non prevista dal legislatore con violazione del principio di legalità:
ex multis, Sez. 4, n. 7961 del 17/01/2013 – dep. 19/02/2013, Pg in proc.
Capece, Rv. 255103).
Al capitolo 20 la corte distrettuale ha poi motivato in ordine al giudizio,
conforme a quello del Tribunale, di esclusione dell’aggravante della colpa con
previsione. Ha evidenziato la apoditticità del relativo motivo di appello del P.M.,

di accertare la concreta prevedibilità dell’evento anche da elementi sintomatici e
indiziari, ha spiegato che nei soggetti che occupavano le posizioni apicali alle
quali faceva capo lo stabilimento mantovano non era mancata qualsiasi
percezione del rischio implicato dall’uso dell’amianto ma vi era stata la
percezione di un rischio estremamente basso, tale da non imporre di attivarsi; e
ciò perché l’esposizione dei lavoratori all’agente nocivo non era diretta. Una
sottovalutazione che la corte di merito ha reputato grave, ancorando il proprio
giudizio su pertinenti elementi di prova. Richiamando poi una pronuncia di
questa Corte, il collegio territoriale ha escluso che la previsione dell’evento
potesse essere ritenuta sulla base della gravità delle violazioni compiute (il
richiamo è stato fatto a Sez. 4, n. 24612 del 10/04/2014 – dep. 11/06/2014,
Izzo, Rv. 259239).
Con il secondo motivo del ricorso in esame il Procuratore Generale contrasta il
giudizio espresso dalla Corte di Appello a riguardo della colpa con previsione; ma
lo fa con argomentazioni che invadono il campo della valutazione della prova.
Nonostante la denuncia della violazione degli artt. 40, 42, 61 n. 3, 81 cpv. e 589
cod. pen., non vi è l’indicazione di un error iuris ma la mera contestazione del
giudizio probatorio formulato dal decisore.
Giova ribadire che ricorre la colpa cosciente quando la volontà dell’agente non
è diretta verso l’evento ed egli, pur avendo concretamente presente la
connessione causale tra la violazione delle norme cautelari e l’evento illecito, si
astiene dall’agire doveroso per trascuratezza, imperizia, insipienza,
irragionevolezza o altro biasimevole motivo (Sez. 4, n. 35585 del 12/05/2017 dep. 19/07/2017, Schettino. P.G., P.C. in proc. Schettino, Rv. 270776;
similmente Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014 – dep. 18/09/2014, P.G., R.C.,
Espenhahn e altri, Rv. 261104). E’ quindi decisivo che l’autore del fatto abbia
consapevolezza della relazione causale tra violazione cautelare ed evento; il che
implica, nei casi come quello all’esame, la necessità di non fermarsi
all’accertamento dello stato delle conoscenze scientifiche disponibili al tempo
della condotta ma di accertare se di esse il soggetto abbia avuto conoscenza;

137

mentre in replica al più perspicuo appello del P.G., che rammentava la possibilità

non già se di esse egli avrebbe potuto conoscere, utilizzando la diligenza e la
perizia esigibili, ma se le abbia realmente possedute. L’elemento ipotetico
presente nella colpa cosciente attiene a quanto può dedursi dalle conoscenze
possedute; non è necessario che si possa ritenere in forza di esse certa la
verificazione dell’evento, essendo sufficiente che se ne possa dedurre l’astratta
possibilità di verificazione (in questi termini, da ultimo, Sez. 4, n. 48081 del
11/07/2017 – dep. 18/10/2017, Baragliu, Rv. 271158).
Orbene, a riguardo dell’omicidio colposo in danno del Negri, il ricorrente

nell’ambiente di lavoro, esiti ‘non tranquillizzanti’ delle analisi ambientali interne
allo stabilimento, “consapevolezza della precarietà della situazione collegata alla
dispersione di benzene, notorietà risalente agli anni 60-70 della riconducibilità
della LMA all’esposizione al benzene, adeguata preparazione tecnica e culturale
degli imputati) perché dimostrativi della colpa con previsione. Ma non si avvede
che in tal modo sovverte il giudizio fattuale espresso dalla corte distrettuale,
della percezione da parte degli imputati di un basso rischio; egli, infatti, sostiene
che le condizioni dell’esposizione erano tanto gravi da rendere consapevoli di un
elevato livello di rischio. Un giudizio alternativo delle risultanze probatorie, che
non si può chiedere a questa Corte di avallare.
Ed anche il rilievo – ben più affine al sindacato di legittimità – di una
manifesta illogicità tra quanto asserito a giustificazione dell’esclusione della colpa
con previsione e quanto osservato per dare conto del trattamento sanzionatorio
(ovvero che da un certo momento in avanti le conoscenze in ordine al potere
tossi-cancerogeno delle sostanze erano ormai avanzate, sicchè si giustificava una
maggiore rimproverabilità degli imputati) non coglie il segno perché non
considera che la Corte di Appello connette la elevata rimproverabilità al
“mancato approvvigionamento informativo”. Una volta di più il ricorrente mostra
di confondere la generale disponibilità di conoscenze scientifiche con il possesso
delle stesse da parte dell’autore del fatto.
Un errore che si rinviene anche nelle argomentazioni che il ricorrente dedica al
tema della previsione degli effetti dell’esposizione dei lavoratori all’amianto
aerodisperso.
12.4. Rimanendo ben saldo questo pilastro della motivazione impugnata,
risulta privo di correlazione ad essa il terzo motivo, che critica l’affermazione
della Corte di Appello secondo la quale l’art. 158 cod. pen, nel testo previgente
alla legge 251/2005, implicava che il termine di prescrizione decorresse dalla
consumazione dell’ultimo reato avvinto in continuazione ma solo se la
continuazione fosse stata riconosciuta antecedentemente al decorso del termine
di prescrizione di uno o più dei reati avvinti. Come si è esposto in precedenza, la

138

ricapitola gli elementi fattuali a suo avviso rilevanti (dispersione del benzene

Corte distrettuale ha escluso la colpa con previsione e quindi la continuazione tra
i reati; sicchè le affermazioni fatte al capitolo 9 risultano prive di incidenza sulla
decisione. I rilievi ad esse rivolte ripetono il medesimo carattere di irrilevanza.
12.5. Quanto alla correttezza del calcolo dei termini di prescrizioni operato
dalla Corte di Appello una volta esclusa l’aggravante di cui all’art. 61 n. 3 cod.
pen. e la continuazione tra i diversi omicidi colposi, va rilevato che la distinzione
degli stessi in più gruppi, a seconda che risultino commessi prima o dopo
1’8.12.2005 risponde alla necessità di determinare il termine di prescrizione del

all’art. 158 cod. pen. previgente costituiva appunto un’eccezione ad essa).
Infatti, solo per quelli commessi prima di tale data si pone il tema
dell’applicazione della legge più favorevole.
Tuttavia, con riferimento ai reati dei quali ci si sta occupando, questa
distinzione non ha reale effetto pratico.
Come si è avuto modo di chiarire in una ancor recente pronuncia, prima degli
interventi legislativi che si sono succeduti dal 2006 in avanti, la formulazione
dell’art. 589 cod. pen. constava di tre commi. Nel primo era descritta l’ipotesi
‘base’, caratterizzata dal cagionare la morte di una persona; la pena prevista era
quella della reclusione da sei mesi a cinque anni. Il secondo comma prevedeva
un inasprimento del trattamento sanzionatorio, limitato al minimo edittale (la
pena, infatti, si elevava al minimo di un anno di reclusione, fermo il massimo di
cinque anni) se il fatto era commesso con violazione delle norme sulla disciplina
stradale o di quelle per la prevenzione degli infortuni sul lavoro. Il terzo comma
considerava l’ipotesi della morte di più persone e quella delle morte di una o più
persone e di lesioni di una o più persone, definendo la pena per il concorso
formale di reati che così veniva a profilarsi.
Con l’art. 2 della legge 21.2.2006, n. 102 si intervenne, per quel che qui
occupa, sul secondo comma dell’art. 589 cod. pen., elevando la pena minima
prevista per il caso che il fatto fosse commesso con violazione delle norme sulla
disciplina della circolazione stradale o di quelle per la prevenzione degli infortuni
sul lavoro; tale pena venne fissata in due anni di reclusione, ancora fermo il
massimo di cinque anni di reclusione.
Con l’art. 1 d.l. n. 23.5.2008, n. 92, convertito con modificazioni dalla legge
n. 125/2008, si elevò invece la pena massima prevista dal secondo comma
dell’art. 589 cod. pen., fissandola in sette anni di reclusione. Inoltre, si
introdusse un ulteriore comma dopo il secondo, con il quale si articolò
l’aggravante incentrata sulla violazione delle norme in materia di circolazione
stradale, prevedendo la pena della reclusione da tre a dieci anni se il fatto è
commesso con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale

139

reato in rapporto al tempo di consumazione del medesimo (la regola di cui

da: 1) soggetto in stato di ebbrezza alcolica ai sensi dell’articolo 186, comma 2,
lett. c) Cod. str.; 2) soggetto sotto l’effetto di sostanze stupefacenti o psicotrope.
Con tecnica normativa non esemplare (si era contestualmente introdotto un
nuovo terzo comma), il menzionato comma 1 del d.l. n. 92/2008 stabilì che la
pena prevista dal terzo comma dell’art. 589 cod. pen. (quello originario,
disciplinante il concorso formale di morti e di lesioni) divenisse, nella sua
espressione massima, di quindici anni di reclusione. In sede di conversione si
introdusse all’art. 1 del d.l. un comma c-bis), con il quale si ripristinò la

dalla legge n. 251/2005, e che presentava il seguente tenore: “all’articolo 157
sesto comma, le parole: “589, secondo e terzo comma”, sono sostituite dalle
seguenti: “589, secondo, terzo e quarto comma”.
Per effetto della successione degli interventi sin qui rammentati l’art. 589 cod.
pen. constava dall’entrata in vigore del d.l. n. 92/2008 di quattro commi
(ulteriori modifiche sono state introdotte dalla legge 8.3.2017, n. 24, ma qui non
rilevano). Ai limitati fini della presente trattazione basta ripetere che il primo
comma stabilisce che chiunque cagiona per colpa la morte di una persona è
punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni, mentre il secondo comma
prevede che se il fatto è commesso con violazione delle norme per la
prevenzione degli infortuni sul lavoro la pena è della reclusione da due a sette
anni.
Sin qui gli interventi del legislatore sulle comminatorie edittali. In parallelo si
sono registrate le note modifiche in materia di prescrizione. Il primo termine di
riferimento é ovviamente la legge n. 251/2005 (cd. ex-Cirielli), che nel contesto
di una articolata disciplina da un canto ha riscritto l’art. 157 cod. pen. ponendo la
regola per la quale la prescrizione estingue il reato decorso il tempo
corrispondente al massimo della pena edittale stabilita dalla legge e comunque
un tempo non inferiore a sei anni se si tratta di delitto e a quattro anni se si
tratta di contravvenzione, ancorché puniti con la sola pena pecuniaria. Dall’altro
– limitando la ricognizione a quel che più rileva – ha inserito per la prima volta la
regola del raddoppio dei “termini di cui ai commi che precedono … per i reati di
cui agli articoli 449 e 589, secondo e terzo comma,…” cod. pen. (così l’originario
comma 6 del novellato art. 157 cod. pen., come visto modificato dall’art. 1 del
di. 92/2008, che ha inserito il richiamo del quarto comma dell’art. 589 cod.pen.,
che si legge nel testo oggi vigente). Non é inutile segnalare che alla data
dell’8.12.2005, di entrata in vigore della legge cd. ex Cirielli, l’art. 589 cod. pen.
constava ancora di tre commi e che l’ipotesi aggravata dalla violazione delle
norme prevenzionistiche era prevista dal comma 2.

140

correttezza dei rinvii previsti dall’art. 157 cod. pen., nel frattempo modificato

Come noto, il succedersi di differenti discipline della prescrizione impone di
ricercare ed applicare quella più favorevole al reo, tenendo ben presente il già
ricordato divieto di realizzare soluzioni combinatorie (ex multis, Sez. 4, n. 7961
del 17/01/2013 – dep. 19/02/2013, Pg in proc. Capece, Rv. 255103). Orbene,
secondo la disciplina della prescrizione previgente all’8.12.2005, l’estinzione del
reato di cui ci si occupa si determinava in dieci anni, trattandosi di delitto per cui
la legge stabiliva la reclusione non inferiore a cinque anni; dovendosi
considerare, per determinare il tempo necessario a prescrivere, il massimo della

dell’aumento massimo della pena stabilito per le circostanze aggravanti e della
diminuzione minima stabilita per le circostanze attenuanti. Con la precisazione
che la pluralità di eventi, determinante l’unificazione del reato quoad poenam,
non incideva sul tempo necessario a prescrivere, da rapportare alle singole
violazioni (tra le altre, Sez. 4, n. 8047 del 08/06/1984 – dep. 04/10/1984,
Caleta, Rv. 165937).
Le regole sulla interruzione del termine di prescrizione conducevano poi a
individuare in quindici anni il termine massimo di prescrizione.
Nel nuovo regime instaurato dalla legge n. 251/2005 – la cui applicazione al
caso in esame non viene esclusa dallo stato del procedimento (cfr. art. 6 della
legge) – il termine di prescrizione per reati che prevedono la pena massima di
cinque anni di reclusione – come quello contestato agli imputati – non é quello
corrispondente al massimo della pena prevista bensì quello fissato in via
sussidiaria dal legislatore con valenza generale, pari ad anni sei di reclusione.
Tuttavia per il reato previsto dall’art. 589, co. 2 cod. pen. tale termine è
raddoppiato, secondo la previsione del comma 6 dell’art. 157 cod. pen.
Qui si pone una prima puntualizzazione. La regola del raddoppio attiene al
regime della prescrizione e non certo alla disciplina del reato di omicidio colposo
aggravato ai sensi del comma 2 dell’art. 589 cod. pen. Sicchè non si pone
neppure il dubbio se questa regola possa applicarsi o meno ad un reato
commesso prima dell’entrata in vigore della legge n. 251/2005. La questione
della lex mitior si pone nei diversi termini del raffronto delle soluzioni cui
conduce l’applicazione dell’una e dell’altra complessiva disciplina della
prescrizione.
La seconda puntualizzazione concerne la identità della regola del raddoppio: la
quale non incide sulla pena edittale bensì sul termine di prescrizione che a quella
é coordinato (e che, come visto, può essere corrispondente oppure no al
massimo della pena prevista). Ed inoltre, poiché i commi che precedono il sesto
nell’art. 157 cod. pen. attengono unicamente al termine ‘ordinario’, ovvero quello
che non tiene conto di eventuali sospensioni o interruzioni del medesimo, la

141

pena stabilita dalla legge per il reato, consumato o tentato, tenuto conto

regola del raddoppio si applica su tale termine e non su quello massimo (che
infatti risulta dalla regola posta dall’art. 161, co. 2 cod. pen.). Per esemplificare,
ove il termine ordinario sia quello di sei anni e quindi quello massimo di sette
anni e sei mesi, il raddoppio del termine concerne la misura di sei anni, non
quella di sette anni e sei mesi. Ove si determini una causa interruttiva o di
sospensione del termine, la previsione dell’art. 161, co. 2 cod. pen., secondo la
quale in nessun caso l’interruzione della prescrizione può comportare l’aumento
di più di un quarto del tempo necessario a prescrivere, condurrà a calcolare

sette anni e sei mesi). Orbene, applicando la più recente disciplina della
prescrizione risulta che il termine massimo di prescrizione é di quindici anni,
esattamente come nel diverso contesto normativo previgente; per contro, il
termine ‘ordinario’ di prescrizione secondo la disciplina previgente é di anni dieci;
secondo quella attualmente vigente é di dodici anni.
Orbene, il Negri è deceduto il 23.6.1999, il Cusini il 5.11.1999, il Bonfante il
16.7.1999 (i relativi reati sono stati dichiarati estinti dalla Corte di Appello
perché la prescrizione è maturata successivamente alla emissione della sentenza
di primo grado); il Cavicchioli il 28.9.1997, il Benedini il 18.8.1997, il Gandolfi il
23.9.1997, Rovesta Luigi il 18.3.1998 (i relativi reati erano stati dichiarati estinti
già dal Tribunale). Come declaratoria di improcedibilità è stata emessa per il
reato in danno del Rossin, commesso il 16.3.2005, data della prima diagnosi
della patologia; per lo stesso vale il più breve termine massimo di sette anni e
sei mesi.
La decisione della Corte di Appello è quindi del tutto corretta.
12.6. Con il quarto motivo il ricorrente censura la conferma della decisione di
primo grado in relazione all’assoluzione di Porta Giorgio. La statuizione mette
radici nella ritenuta assenza, a far tempo dal 31.12.1980, di una ‘posizione di
garanzia’ dell’amministratore delegato di Montedison rispetto ai lavoratori dello
stabilimento mantovano, avendo tale posizione il Presidente del C.d.a. e
l’Amministratore delegato di Montepolimeri s.p.a. Il Porta assunse le funzioni di
A.D. di Montedison nel 1982. La valutazione del Tribunale fu esito anche della
considerazione dei particolari rapporti instauratisi tra controllante (la
Montedison) e controllata (la Montepolimeri), osservando che se le politiche
produttive della seconda erano decise dalla prima, pure non era stato dimostrato
dall’accusa che le condotte in contestazione erano state determinate dai vertici
della controllante, non risultando neppure atti di ingerenza del Porta nella
gestione dello stabilimento. Il P.m. aveva contestato che non vi fosse prova del
concreto esercizio di poteri esplicatisi anche nella gestione dello stabilimento
mantovano, richiamandosi ad una controversia con impresa fornitrice di amianto.

142

l’aumento sul termine raddoppiato, ovvero su dodici anni (e non sul termine di

La Corte di Appello ha respinto tale rilievo mettendo in luce che il contratto fu
stipulato tra l’impresa appaltatrice e la Montepolimeri, che il successivo
contenzioso interessò l’impresa e la Montedipe, che aveva incorporato
Montepolimeri; il solo coinvolgimento della Montedison era consistito nella
interpretazione delle norme tecniche elaborate da Tecnimont s.p.a., facente
parte del gruppo Montedison. In sostanza, a tutto concedere, la vicenda venne
gestita direttamente dalla società proprietaria dello stabilimento e
dall’appaltatore, non dimostrava alcuna ingerenza della controllante ed era di

In replica all’impugnazione del P.G. la Corte di Appello ha anche osservato che
la invocata regola della prevalenza del ruolo di fatto di datore di lavoro sulla
qualifica formale non era pertinente al caso di Montedison perché le società
divenute nel tempo proprietarie dello stabilimento erano sia formalmente che
sostanzialmente datrici di lavoro e che l’assunto dell’appellante – di un potere
decisionale totale di Montedison sulle controllate – muoveva da premesse fattuali
non dimostrate, mentre l’assenza di manifestazioni di dissenso rispetto alle
decisioni operative della controllata, lungi dal dimostrare l’ingerenza stava a
provare l’esatto contrario.
Orbene, il ricorrente reitera pedissequamente i rilievi che hanno trovato
compiuta replica da parte della Corte distrettuale: va ritenuta e ricercata una
nozione sostanziale di datore di lavoro; rivestendo il Porta il ruolo di
amministratore delegato della società controllante svolgeva perciò stesso
un’ingerenza di fatto (ma, come già aveva rilevato la corte territoriale, le ampie
citazioni giurisprudenziali richiamate a conforto attengono al piano delle relazioni
tra persone giuridiche e non a quello delle persone fisiche, peraltro considerate
in ambiti diversi dalla sicurezza del lavoro); le circostanze di fatto dimostrano
che Montedison decise le politiche dell’intero gruppo, condizionando il livello di
sicurezza dell’ambiente di lavoro dello stabilimento di Mantova, come dimostra il
suo ruolo nei passaggi di mano dell’opificio. Il Porta fu consapevole di tutto ciò e
non adottò atti di opposizione alle decisioni operative della controllata. La sua
responsabilità deriva altresì dalla previsione dell’art. 40 co. 2 cod. pen.
Il motivo è quindi aspecifico, perché omette di confrontarsi con le
argomentazioni che il giudice di secondo grado ha formulato per giustificare la
ritenuta infondatezza delle prospettazioni dell’appellante. Una sola
puntualizzazione, per concludere sul punto: la evocazione dell’obbligo di
impedimento risulta una volta di più indifferente all’accertamento fattuale
operato dei giudici di merito a riguardo delle prove acquisite sui rapporti tra
controllante e controllata.

143

modestissimo spessore.

12.7. Anche il quinto motivo è aspecifico, per le medesime ragioni. Il
Tribunale aveva escluso la sussistenza dei fatti in ordine alla morte del
lavoratore Sanfelici non risultando certa la causa della morte, ipotizzata
dall’accusa nel mesotelioma pleurico. Il Tribunale si era anche posto a confronto
con la tesi del c.t. della parte civile secondo il quale il lavoratore era deceduto
per carcinoma sarcomatoide polmonare, escludendo che, pur se la diagnosi fosse
stata indiscutibile – e non lo era – la patologia potesse connettersi causalmente
all’esposizione all’amianto, risultando il Sanfelici un forte fumatore. Il P.G. si era

asbesto-correlate. La Corte di Appello ha convenuto sul fatto che, una volta
escluso che causa della morte del lavoratore fosse stato il mesotelioma pleurico,
doveva ritenersi l’esistenza di un tumore polmonare; ma valutando i dati relativi
all’esposizione all’asbesto del Sanfelici ha concluso che il rischio derivante da
quella era stato irrilevante rispetto a quello costituito dal tabagismo.
Con il ricorso il P.G. neppure prende in considerazione la motivazione resa
dalla corte distrettuale, limitandosi a ribadire che tanto il mesotelioma che il
carcinoma polmonare sono patologie asbesto-correlate.
Il motivo è inammissibile.
12.8. Con il quinto motivo si impugna la declaratoria di prescrizione degli
omicidi in danno di Benedini Alessandro, Gandolfi Giuseppe, Rovesta Luigi e
Cavicchioli Arienzo, conseguente alla esclusione della aggravante della colpa con
previsione e quindi della continuazione tra i reati. Gli argomenti utilizzati sono
ripresi per relationem da quelli utilizzati per illustrare il secondo ed il terzo
motivo, sicchè valgano le osservazioni fatte in replica a tali motivi.
Si censura, inoltre, la pronuncia di assoluzione del Porta per gli omicidi in
danno di Campana Teodoro e di Vellani Athos. Valgono quindi, stante il rinvio
alle ragioni di censura rese esplicite nell’ambito del quarto motivo di ricorso, le
osservazioni formulate nella trattazione di tal ultimo motivo.
13. Sinossi delle statuizioni.
In ragione di quanto sin è qui esposto, la sentenza impugnata va annullata
con rinvio alla Corte di Appello di Brescia in relazione agli omicidi colposi esito di
patologia asbesto-correlate per i quali non è ancora decorso il termine di
prescrizione. Appare opportuna l’elencazione degli imputati e dei relativi reati,
individuati mediante riferimento alla persona offesa. Al riguardo dei decessi
conseguenti a mesotelionna la Corte di Appello dovrà procedere a nuovo esame
in ordine all’accertamento del nesso di causalità tra le esposizioni dei lavoratori
alle fibre aerodisperse verificatesi presso lo stabilnnento petrolchimico di Mantova
e le malattie patite dai lavoratori deceduti, con particolare riferimento al tema
del riconoscimento da parte della comunità scientifica della tesi del cd. effetto

144

doluto della statuizione, osservando che entrambe le patologie ipotizzabili erano

acceleratore e della identificabilità dei termini temporali delle diverse fasi del
processo oncogeno, in specie quello che va dall’inizio dell’esposizione al
completamento del processo medesimo. Al riguardo del decesso del Franzoni,
determinato da tumore polmonare, il giudice del rinvio dovrà nuovamente
esaminare il tema della incidenza causale del tabagismo del lavoratore.
Ciò conduce all’annullamento con rinvio della sentenza impugnata nei
confronti di Mazzanti Giorgio, in relazione ai reati di omicidio colposo in danno di
Lana Franco e Beduschi Dino; di Gatti Pier Giorgio, in relazione ai reati di

Beduschi Dino e Franzoni Angelo; di Morrione Paolo, in relazione ai reati di
omicidio colposo in danno di Donzellini Silvano, Monici Luciano e Franzoni
Angelo; di Mattiussi Andrea, in relazione ai reati di omicidio colposo in danno di
Monici Luciano e Franzoni Angelo; di Diaz Gianluigi, in relazione ai reati di
omicidio colposo in danno di Monici Luciano e Franzoni Angelo; di Cirocco
Amleto, in relazione ai reati di omicidio colposo in danno di Ballesini Nardino,
Donzellini Silvano, Monici Luciano, Beduschi Dino e Franzoni Angelo; di Fabbri
Gaetano, in relazione ai reati di omicidio colposo in danno di Donzellini Silvano,
Monici Luciano, Beduschi Dino e Franzoni Angelo; di Paglia Gianni, in relazione ai
reati di omicidio colposo in danno di Monici Luciano e Franzoni Angelo; di Ziglioli
Francesco, in relazione ai reati di omicidio colposo in danno di Monici Luciano e
Franzoni Angelo, con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Brescia per
nuovo esame.
Nelle more del presente giudizio è decorso il termine massimo di prescrizione
del reato di omicidio colposo in danno di Calore Severino. Questi è deceduto il
12.12.2001, sicché tenuto conto della sospensione del termine di prescrizione di
cinque mesi e 28 giorni verificatasi in forza del d.l. 6 giugno 2012 (cosiddetto
decreto terremoti), il reato si è estinto con il trascorrere del 10.6.2017. La
sentenza impugnata va quindi annullata senza rinvio agli effetti penali nei
confronti di tutti gli imputati, limitatamente all’omicidio colposo in danno di
Calore Severino, perché il reato è estinto per prescrizione, mentre va annullata,
agli effetti civili, in relazione a tale reato, con rinvio ad altra sezione della Corte
di Appello di Brescia.
In ragione della già dichiarata estinzione del reato che vede quale persona
offesa il Cusini, associata a statuizioni civili, deve pronunciarsi l’annullamento
della sentenza impugnata agli effetti civili nei confronti di Mazzanti Giorgio, Gatti
Pier Giorgio e Cirocco Amleto con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di
Brescia per nuovo esame.
Anche l’omicidio in danno di Campo Sergio risulta estinto per prescrizione
maturata nelle more del presente giudizio. Egli è deceduto il 17.5.2001 e quindi

145

omicidio colposo in danno di Ballesini Nardino, Donzellini Silvano, Monici Luciano,

il termine massimo di prescrizione, computato come già per il Calore, risulta
decorso con il trascorrere del 15.11.2016. Tanto implica, non ravvisandosi
l’inammissibilità dei ricorsi, l’annullamento senza rinvio agli effetti penali della
sentenza impugnata nei confronti degli imputati Mazzanti, Gatti, Morrione, Diaz,
Cirocco, Mattiussi, Fabbri e Paglia in relazione all’omicidio in danno di Campo
Sergio perché il reato è estinto per prescrizione ed il rigetto dei ricorsi,
relativamente a tale reato, agli effetti civili. Consegue anche la condanna in
solido degli imputati Mazzantí, Gatti, Morrione, Diaz, Cirocco, Mattiussi, Fabbri e

delle parti civili Versalis s.p.a. (già Polimeri Europa s.p.a.), Syndial Attività
Diversificate s.p.a., Comune di Mantova, Provincia di Mantova, Inail e Medicina
Democratica, liquidate in euro 3.000,00 per ciascuna di esse, oltre ad accessori
di legge.
Avendo già la Corte di Appello dichiarato estinto il reato in danno del
Bonfante, disponendo per gli interessi civili, il rigetto del ricorso degli imputati
Mazzanti, Gatti, Morrione, Diaz, Cirocco, Fabbri e Paglia va pronunciato agli
effetti civili. Consegue la condanna in solido degli imputati Mazzanti, Gatti,
Morrione, Diaz, Cirocco, Fabbri e Paglia e del responsabile civile al pagamento
delle spese processuali nei confronti delle parti civili Versalis s.p.a. (già Polimeri
Europa s.p.a.), Syndial Attività Diversificate s.p.a., Comune di Mantova,
Provincia di Mantova, Inail e Medicina Democratica, liquidate in euro 3.000,00
per ciascuna di esse, oltre ad accessori di legge.
I ricorsi degli imputati e del responsabile civile vanno rigettati nel resto. In
particolare risultano rigettati i ricorsi con riferimento all’omicidio colposo in
danno di Negri Francesco, in ordine al quale la Corte di Appello aveva dichiarato
l’estinzione del reato ma dato statuizioni per gli interessi civili. Pertanto
consegue al rigetto pronunciato in questa sede la condanna in solido degli
imputati Gatti, Morrione, Diaz, Cirocco e Fabbri ed il responsabile civile vanno
condannati in solido al pagamento delle spese processuali in relazione
all’omicidio colposo in danno di Negri Francesco nei confronti delle parti civili
Versalis s.p.a. (già Polimeri Europa s.p.a.), Syndial Attività Diversificate s.p.a.,
Comune di Mantova, Provincia di Mantova, Inail e Medicina Democratica,
liquidate in euro 3.000,00 per ciascuna di esse, oltre ad accessori di legge.
Va anche rigettato il ricorso del Procuratore Generale della Corte di Appello di
Brescia.
P.Q.M.
A)
Annulla la sentenza impugnata, nei confronti di:

146

Paglia e del responsabile civile al pagamento delle spese processuali nei confronti

Mazzanti Giorgio in relazione ai reati di omicidio colposo in danno di Lana Franco
e Beduschi Dino;
Gatti Pier Giorgio in relazione ai reati di omicidio colposo in danno di Ballesini
Nardino, Donzellini Silvano, Monici Luciano, Beduschi Dino e Franzoni Angelo;
Morrione Paolo, in relazione ai reati di omicidio colposo in danno di Donzellini
Silvano, Monici Luciano e Franzoni Angelo;
Mattiussi Andrea, in relazione ai reati di omicidio colposo in danno di Monici
Luciano e Franzoni Angelo;

e Franzoni Angelo;
Cirocco Amleto, in relazione ai reati di omicidio colposo in danno di Ballesini
Nardino, Donzellini Silvano, Monici Luciano, Beduschi Dino e Franzoni Angelo;
Fabbri Gaetano, in relazione ai reati di omicidio colposo in danno di Donzellini
Silvano, Monici Luciano, Beduschi Dino e Franzoni Angelo;
Paglia Gianni, in relazione ai reati di omicidio colposo in danno di Monici Luciano
e Franzoni Angelo;
Ziglioli Francesco, in relazione ai reati di omicidio colposo in danno di Monici
Luciano e Franzoni Angelo;
rinvia in relazione a tali imputazioni ad altra sezione della Corte di Appello di
Brescia per nuovo esame.

B)
Annulla senza rinvio agli effetti penali la sentenza impugnata nei confronti di tutti
gli imputati limitatamente all’omicidio colposo in danno di Calore Severino,
perché il reato è estinto per prescrizione; annulla la medesima sentenza, agli
effetti civili, in relazione a tale reato, con rinvio ad altra sezione della Corte di
Appello di Brescia.

C)
Annulla agli effetti civili la ridetta sentenza nei confronti di:
Mazzanti Giorgio, Gatti Pier Giorgio, Cirocco Amleto con riferimento all’omicidio
colposo in danno di Cusini Sergio e rinvia ad altra sezione della Corte di Appello
di Brescia per nuovo esame.

D)
Annulla la sentenza in esame nei confronti dei ricorrenti Mazzanti, Gatti,
Morrione, Diaz, Cirocco, Mattiussi, Fabbri e Paglia in relazione all’omicidio in
danno di Campo Sergio perché il reato è estinto per prescrizione.
Rigetta i ricorsi agli effetti civili.

147\–

Diaz Gianluigi, in relazione ai reati di omicidio colposo in danno di Monici Luciano

E)
Rigetta agli effetti civili i ricorsi di Mazzanti, Gatti, Morrione, Diaz Cirocco, Fabbri
e Paglia in ordine al reato di omicidio colposo in danno di Bonfante Mario.
F)
Rigetta nel resto i ricorsi degli imputati e del responsabile civile.

G)

Condanna in solido gli imputati sub D) ed il responsabile civile al risarcimento dei
danni nei confronti delle parti civili Versalis s.p.a. (già Polimeri Europa s.p.a.),
Syndial Attività Diversificate s.p.a., Comune di Mantova, Provincia di Mantova,
Inail e Medicina Democratica, liquidate in euro 3.000,00 per ciascuna di esse,
oltre ad accessori di legge.

Condanna in solido gli imputati sub E) ed il responsabile civile al risarcimento dei
danni nei confronti delle parti civili Versalis s.p.a. (già Polimeri Europa s.p.a.),
Syndial Attività Diversificate s.p.a., Comune di Mantova, Provincia di Mantova,
Inail e Medicina Democratica, liquidate in euro 3.000,00 per ciascuna di esse,
oltre ad accessori di legge.

Condanna in solido gli imputati Gatti, Morrione, Diaz, Cirocco e Fabbri ed ed il
responsabile civile al risarcimento del danni in relazione all’omicidio colposo in
danno di Negri Francesco (F) nei confronti delle parti civili Versalis s.p.a. (già
Polimeri Europa s.p.a.), Syndial Attività Diversificate s.p.a., Comune di Mantova,
Provincia di Mantova, Inail e Medicina Democratica, liquidate in euro 3.000,00
per ciascuna di esse, oltre ad accessori di legge.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 14 novembre 2017.
Il Presidente

Il Consigliere estensore

Rocco Marco Blaiotta

Depositata in Cancelleria
Oggi

16 APP. 2019

148

Rigetta il ricorso del Procuratore Generale della Corte di Appello di Brescia.

RITENUTO IN FATTO

5

1. Le imputazioni

5

2. La sentenza di primo grado

6

3. La sentenza di secondo grado

8

11

4.1. Esposizione al benzene.

11

4.2. Esposizione alle fibre di amianto

12

4.3. Il delitto contro l’incolumità pubblica.

14

5. Il ricorso del P.G.

16

6. I ricorsi degli imputati e del responsabile civile Edison s.p.a.

20

7. Ricorso per Piergiorgio Gatti a firma degli avv. Alberto Alessandri
42
e Fabio Cagnola
8. Ricorso nell’interesse di Gaetano Fabbri a firma dell’avv. Carlo
42
Sassi
9. Ricorso proposto nell’interesse di Cirocco Amleto e di Paglia
Gianni, a firma degli avvocati Sergio Genovesi e Carlo Sassi.

44

10. Ricorso proposto nell’interesse di Francesco Ziglioli a firma
degli avv. Angelo Giarda e Carlo Sassi.

44

11. Ricorso proposto nell’interesse esclusivo di Diaz Gianluigi, a
firma degli avv. Carlo Baccaredda Boy e Francesco Centonze.

49

12. Memoria per il Comune di Mantova

50

13. Memoria per l’Inail

50

14, Memoria per Versalis s.p.a

51

15. Memoria per Syndial Attività Diversificate s.p.a

53

CONSIDERATO IN DIRITTO

55

1. Indicazioni preliminari all’esame dei ricorsi

55

2. I ricorsi degli imputati. Le questioni processuali. Motivi XII, XIII,
57
XIV, XV, XVI
2.1. La nullità del decreto di citazione per indeterminatezza della
57
contestazione
2.2. La nullità della contestazione suppletiva

59

2.3. La violazione di legge ed il vizio della motivazione in
relazione al rigetto delle istanze istruttorie

61

2.4. I vizi concernenti l’escussione del Ricci.

64

2.5. La nullità dell’ordinanza che dispose la perizia a cura del
Prof. Betta

66

3. La spiegazione causale. Motivi I e III
3.1. Il giudice, le parti e il sapere esperto

149

67
67

4. I fatti accertati dalle sentenze di merito

3.2. La rilevanza causale dell’esposizione all’amianto rispetto ai
decessi determinati da mesotelioma pleurico e peritoneale
71
3.3. La causalità individuale nei casi di mesotelioma. Motivo 11179
3.4. La rilevanza causale dell’esposizione all’amianto rispetto ai
decessi determinati da tumore polmonare. Motivo II
88

4. I decessi provocati da leucemia mieloide acuta
4.1. La struttura della presente motivazione

92
96
96

4.2. La spiegazione causale della leucemia mieloide acuta. Motivo
VI
97
4.3. La prova dell’esposizione del Negri al benzene. Motivo 11.1103
11.2 2.
4.4. La causalità individuale in rapporto alla morte del Negri …. 105
5. Le posizioni di garanzia. I ricorsi individuali.

107

5.1. Generalità

107

5.2. I rilievi concernenti le singole posizioni.

108

6. Il ricorso Ziglioli.

114

7. La colpa. Motivo VII dei ricorsi congiunti e ricorso Ziglioli.

118

8. Le censure concernenti il capo 3. Motivo VIII dei ricorsi
congiunti.

122

9. Le censure alle statuizioni concernenti il trattamento
sanzionatorio. Motivo IX dei ricorsi congiunti, motivi 3 e 4 del
ricorso individuale Ziglioli, motivi 3 e 4 del ricorso individuale Diaz.
124

10. La legittimazione ad agire delle parti civili Syndial s.p.a.,
Polimeri Europa s.p.a., Regione Lombardia, Provincia di Mantova,
Comune di Mantova e Medicina difensiva. Motivo X dei ricorsi
124
congiunti.
11. La condanna al risarcimento dei danni in favore delle parti civili
e la condanna al pagamento delle spese di giudizio. Motivo XI dei
130
ricorsi congiunti e motivo 6 del ricorso individuale Ziglioli.
12. Il ricorso del P.G

131

13. Sinossi delle statuizioni.

144

14.

146

Dispositivo

150

3.5. La causalità individuale nei casi di tumore polmonare: le
cause alternative all’esposizione all’asbesto. Motivo IV e V

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