Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 16703 del 16/02/2018


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 16703 Anno 2018
Presidente: DI NICOLA VITO
Relatore: SCARCELLA ALESSIO

SENTENZA

Sui ricorsi proposti da:
– ESSOLH ZAKARIA, n. 5.9.1976 in Marocco
– CHKARA SALAH, n. 1.01.1983 in Marocco

avverso la sentenza GIP/tribunale di Como del 13.07.2017;
visti gli atti, il provvedimento denunziato e i ricorsi;
udita la relazione svolta dal consigliere Alessio Scarcella;
letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott.ssa Paola Filippi, che ha chiesto dichiararsi ambedue i ricorsi inammissibili;

Data Udienza: 16/02/2018

RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 13.07.2017, il GIP/tribunale di Como applicava agli imputati

ex art. 444 c.p.p. la pena di 3 anni ed 8 mesi di reclusione ed C 12100 di multa,
previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche (ritenute prevalenti
sulla recidiva contestata al solo imputato CHKARA), ritenuta la continuazione tra i
reati ascritti, ordinando la confisca di quanto in sequestro e l’espulsione dei ricor-

in concorso, a terzi soggetti identificati come dai capi di imputazione di cui alla
sentenza, di sostanze stupefacenti del tipo hashish, marijuana, eroina e cocaina
in località diverse e nel periodo compreso tra il settembre 2015 e l’ottobre 2016..

2. Ha proposto ricorso per cassazione l’imputato CHKARA, a mezzo dei difensori
di fiducia iscritti all’albo speciale ex art. 613, c.p.p., deducendo tre motivi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173
disp. att. cod. proc. pen.

2.1. Deduce il ricorrente con un primo motivo violazione di legge in relazione agli
artt. 292 c.p.p. e 111 Cost.
La difesa del ricorrente, nel premettere di aver ricevuto il mandato fiduciario a
ridosso dell’udienza fissata ex art. 447 c.p.p. su istanza del precedente difensore
di fiducia per effetto del consenso al rito ricevuto dal Pm sulla pena poi cristallizzata nella sentenza impugnata (difensore revocato contestualmente alla nomina
dei nuovi difensori di fiducia), sostiene che, a seguito dell’esame del fascicolo processuale sarebbe emersa una realtà fattuale ben diversa da quella contestata,
derivando una posizione molto meno compromessa del proprio assistito tanto da
aver determinato la richiesta di rinegoziazione del patteggiamento nei termini di
cui all’art. 73, co. 5, TU Stup., istanza che avanzata all’udienza sarebbe stata
rigettata dal GIP senza tuttavia che di ciò vi sia menzione della motivazione della
sentenza impugnata, laddove quanto sopra risulterebbe dal verbale di udienza
nonché dalla data di deposito della stessa nomina, in pari data (come in effetti
risulta dalla verifica degli atti – affol. 195/196 del fascicolo trasmesso dal tribunale
di Como – condotta da questo Collegio, attesa la natura processuale dell’eccezione,
da cui risulta che il nuovo difensore di fiducia nominato chiese di poter rinegoziare
le condizioni della richiesta di applicazione della pena, previa riqualificazione ex
art. 73, co. 5, TU Stup., richiesta rigettata dal GIP); tale condotta del GIP avrebbe
violato le norme processuali evocate (in particolare, l’art. 546, lett. e) e l’art. 292,
c.p.p.) che impongono al giudice di esporre i motivi per cui sono stati ritenuti non

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renti dal territorio dello Stato ex art. 86, TU Stup., in relazione ai reati di cessione,

rilevanti gli elementi forniti dalla difesa o non attendibili le prove contrarie; il Gip,
quindi, omettendo di valutare la richiesta difensiva di derubricazione che respingendo quella inerente la rinuncia al precedente patteggiamento per formalizzarne
uno nuovo, senza peraltro dare conto di quanto sopra in sentenza, avrebbe violato
le norme processuali di cui sopra nonché il principio del giusto processo sancito

2.2. Deduce il ricorrente con un secondo motivo, il vizio di mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione quanto al trattamento sanzionatorio
ed in relazione all’art. 27 Cost.
Si duole la difesa del ricorrente in quanto il GIP, non accogliendo la richiesta di
derubricazione avanzata dalla difesa ma, soprattutto, ritenendo adeguata la valutazione della precedente difesa e del PM in sede di prima richiesta di patteggiamento, avrebbe applicato una pena non congrua alla concreta gravità dei fatti; a
tal fine, la difesa, dopo aver sintetizzato gli elementi a sostegno della propria tesi
alla pag. 7, sostiene che dagli atti sarebbe emerso un ruolo ed un apporto del tutto
marginale dell’imputato, con presenze sporadiche, tale da insinuare il dubbio se
effettivamente l’imputato abbia concretamente spacciato, non essendo certa quale
sostanza e in che quantità, atteso che gli acquirenti si rivolgevano tutti a coimputato ESSOLH; ne discende il rilevato vizio in quanto all’imputato non avrebbe potuto essere applicato un trattamento sanzionatorio così severo attesa la tipologia
della sostanza stupefacente, il breve lasso temporale effettivo e tutte le incognite
e perplessità evidenziate.

2.3. Deduce il ricorrente con un terzo motivo, il vizio di violazione di legge in
relazione al rigetto della revoca dell’istanza di applicazione della pena avanzata
dal precedente difensore e con riguardo al disposto dell’art. 446 c.p.p.
Si duole la difesa del ricorrente poiché il GIP avrebbe rigettato la richiesta difensiva
di revoca della precedente richiesta di applicazione della pena avanzata dal precedente difensore, nonostante l’imputato ne avesse diritto, attesa la non vincolatività della richiesta di applicazione della pena e la sua possibile revoca/modifica
fino a quando non intervenga la decisione del giudice, anche in sede di udienza ex
art. 447, c.p.p., come affermato dalla giurisprudenza di legittimità richiamata dalla
difesa a pag. 9 del ricorso; il GIP, pertanto, avrebbe dovuto verificare la fondatezza
della richiesta di revoca, anche alla luce della contestata congruità della pena proposta in precedenza; del resto, si aggiunge, la scelta del ricorrente di revocare il
precedente difensore, confermava l’intenzione dell’imputato di revocare la prece-

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dall’art. 111 Cost.

dente richiesta di applicazione della pena, atteso il venir meno del rapporto fiduciario intercorso, e quindi dei poteri conferiti con il mandato revocato, ciò che
avrebbe dovuto giustificare una più attenta valutazione del GIP in ordine alla sussistenza della volontà dell’imputato ex art. 446, co. 3, c.p.p., non effettuata né
presa in considerazione.

cendo un unico motivo, di seguito enunciato nei limiti strettamente necessari per
la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen.

3.1. Deduce il ricorrente con tale unico motivo il vizio di violazione di legge in
relazione all’art. 86, TU Stup. nonché il vizio di contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione.
Il ricorrente – proponente ricorso personale antecedentemente all’entrata in vigore
delle modifiche introdotte dalla c.d. riforma Orlando, legge n. 103 del 2017, all’art.
613 c.p.p. che ha soppresso la possibilità per l’imputato di ricorrere personalmente
in cassazione – dopo aver ricordato che a seguito della sentenza della Corte cost.
n. 58 del 1995, l’espulsione dello straniero dal territorio dello Stato

ex art. 86

citato non è più conseguenza automatica ma richiede un accertamento della sussistenza in concreto della pericolosità sociale, richiamato la giurisprudenza di legittimità formatasi sull’argomento, contesta la motivazione del Gip sul punto, sostenendo che questi non avrebbe preso in esame un dato di notevole rilevanza,
costituito dallo stato di incensuratezza del ricorrente, peraltro confliggendo la ritenuta pericolosità sociale con il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e con il determinazione della pena base in misura pari al minimo edittale,
dovendosi peraltro considerare che la condotta ascritta all’imputato non poteva
considerarsi grave dal momento che si trattava di microcessioni di sostanza stupefacente.

4. Con requisitoria scritta depositata in data 13.02.2018, il Procuratore Generale
presso questa Corte, dott.ssa Paola Filippi, chiede dichiararsi ambedue i ricorsi
inammissibili.
In particolare: a) in relazione al ricorso ESSOLH evidenzia come la sentenza ha
offerto una specifica motivazione del pericolo di reiterazione che ha giustificato il
provvedimento di espulsione sulla base dei precedenti specifici del ricorrente; reiterazione delle condotte e professionalità desunta dalle modalità di esecuzione
dello spaccio; dall’assenza di reddito lecito ha poi desunto il rischio di reiterazione;

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3. Ha proposto personalmente ricorso per cassazione l’imputato ESSOLH, dedu-

b) quanto al ricorso CHKARA, osserva come il giudice ha fatto adeguato e sufficiente richiamo agli atti del fascicolo del PM, acquisito ai fini del patteggiamento,
con richiamo ai verbali di ss.ii.tt . ed alle CCNNRR della G.d.F.; quanto al trattamento sanzionatorio la pena non è illegale e, infine, quanto alla revocabilità della
richiesta, si evidenzia che la stessa è irretrattabile.

5. Invertendo l’ordine dell’illustrazione dei motivi, deve essere anzitutto esaminato
il motivo proposto dal ricorrente ESSOLH.
Il motivo è manifestamente infondato; ed invero il GIP motiva l’irrogazione della
pena accessoria di cui all’art. 86, TU Stup. in relazione ad entrambi gli imputati
indicando gli elementi da cui ha desunto la concreta pericolosità sociale degli stessi
(diuturna reiterazione delle condotte di cessione, svoltesi senza soluzione di continuità nell’arco di un intero anno; insensibilità degli imputati al precetto penale e
professionalità della condotta, posto che gli imputati vivono all’evidenza dei proventi dello spaccio; assenza per entrambi di un reddito lecito, atteso che gli stessi
sono senza fissa dimora nel territorio dello Stato e illegalmente presenti sul territorio nazionale, ciò che connota ulteriormente la loro grave pericolosità, essendo
sostanzialmente certo che gli stessi reitereranno analoghe condotte al fine di garantirsi il mantenimento).
Alla luce di tale motivazione le doglianze del ricorrente si appalesano all’evidenza
manifestamente infondate; ed infatti, premesso che la misura di sicurezza dell’espulsione dello straniero dal territorio dello Stato a pena espiata, prevista in ordine
al reato di spaccio di sostanze stupefacenti dall’art. 86, comma primo, d.P.R. n.
309 del 1990, può essere applicata con la sentenza di patteggiamento quando la
pena irrogata superi i due anni di pena detentiva sola o congiunta a pena pecuniaria (Sez. 4, n. 42841 del 02/10/2008 – dep. 17/11/2008, P.G. in proc. Jara
Salazar, Rv. 241333), deve rilevarsi che il giudice ha rigorosamente motivato in
ordine alle ragioni che hanno condotto all’accertamento in concreto della pericolosità sociale dell’imputato straniero (Corte cost. n. 58/1995), valorizzando le modalità della condotta tenuta e le condizioni soggettive e reddituali degli stessi,
idonee a qualificare in termini di concreta pericolosità sociale il correo attuale ricorrente; né, peraltro, può ritenersi affetta da vizio di contraddizione nella motivazione la sentenza per aver disposto l’espulsione dello straniero dal territorio
dello Stato, e quindi ne attesti la pericolosità sociale, e che, nel contempo, abbia
al medesimo riconosciuto le attenuanti generiche, determinando la pena base nel
minimo edittale previsto per il reato.
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CONSIDERATO IN DIRITTO

Tale contraddittorietà non è però ravvisabile nel caso in esame, in quanto un conto
è il giudizio di pericolosità sociale ricollegato ad una serie di indicatori rinvenibili
nell’art. 133 c.p. tra i quali la Corte ne ha valorizzato i più pregnanti (la diuturna
reiterazione delle condotte di cessione, svoltesi senza soluzione di continuità
nell’arco di un intero anno; insensibilità degli imputati al precetto penale e professionalità della condotta, posto che gli imputati vivono all’evidenza dei proventi

senza fissa dimora nel territorio dello Stato e illegalmente presenti sul territorio
nazionale, ciò che connota ulteriormente la loro grave pericolosità, essendo sostanzialmente certo che gli stessi reitereranno analoghe condotte al fine di garantirsi il mantenimento), altro è il giudizio di meritevolezza delle attenuanti generiche
e quello che governa il trattamento sanzionatorio, atteso che, seppure entrambi
richiamano i criteri di cui all’art. 133 c.p., sono ispirati a finalità diverse rispetto al
giudizio di pericolosità sociale concreta.
La valutazione della meritevolezza o meno delle attenuanti o quella di determinare
o meno la pena base in misura pari al minimo edittale, infatti, è del tutto sganciata
da un giudizio di pericolosità sociale di livello diverso e a più ampio raggio, visto
in una prospettiva futura a medio-lungo termine che costituisce il parametro di
riferimento per la decisione sulla espulsione di uno straniero dal territorio statale;
in altri termini solo una valutazione in termini negativi della pericolosità sociale
(attraverso, ad esempio, la concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena) avrebbe potuto costituire una remora alla decisione di espulsione:
ma tale giudizio prognostico positivo, nella specie, non solo è mancato ma anzi è
stato inibito proprio dalla impossibilità normativa del suo riconoscimento, attesa
l’entità della pena irrogata, ostandovi l’art. 164 c.p.

6. Può quindi procedersi all’esame dei motivi di ricorso proposti dall’imputato
CHKARA.

6.1. Il primo motivo è inammissibile per manifesta infondatezza; ed invero, le
disposizioni processuali invocate (art. 546, lett. e) e 292, c.p.p.) non trovano applicazione nel rito di cui all’art. 444 c.p.p.; questa Corte ha già affermato infatti
che in tema di patteggiamento, l’obbligo generale della motivazione, imposto per
tutte le sentenze dagli art. 3 Cost. e 125, terzo comma cod. proc. pen., va correlato col particolare tipo di sentenza previsto dall’art. 444 cod. proc. pen., che presuppone l’accordo tra pubblico ministero ed imputato su tutti gli elementi relativi
al reato ed alla pena, derivante da una sostanziale ammissione di responsabilità.
Ne deriva che non può applicarsi “in toto” l’art. 546 cod. proc. pen., che prescrive,
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dello spaccio; assenza per entrambi di un reddito lecito, atteso che gli stessi sono

tra i requisiti della sentenza, la concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto
su cui la decisione è fondata, con l’indicazione delle prove poste a base della decisione e l’enunciazione delle ragioni per le quali il giudice ritiene non attendibili le
prove contrarie. La motivazione necessaria e sufficiente, pertanto, è quella con la
quale il giudice dà atto di avere positivamente effettuato la valutazione della correttezza della qualificazione giuridica del fatto, dell’applicazione e comparazione
delle circostanze prospettate dalle parti e dalla congruità della pena concordata ai

fini e nei limiti di cui all’art. 27, terzo comma cod. proc. pen. (punto, quest’ultimo,
che può risultare anche implicitamente: Sez. 5, n. 2430 del 13/01/1993 – dep.
15/03/1993, Buono Palumbo, Rv. 193803).

6.2. Anche il secondo motivo, con cui si contesta di aver il GIP applicato una pena
non congrua alla concreta gravità dei fatti, è inammissibile per manifesta infondatezza; ed infatti, è pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che in caso di
patteggiamento ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen., l’accordo intervenuto esonera l’accusa dall’onere della prova e comporta che la sentenza che recepisce l’accordo fra le parti sia da considerare sufficientemente motivata con una succinta
descrizione del fatto (deducibile dal capo d’imputazione), con l’affermazione della
correttezza della qualificazione giuridica di esso, con il richiamo all’art. 129 cod.
proc. pen. per escludere la ricorrenza di alcuna delle ipotesi ivi previste, con la
verifica della congruità della pena patteggiata ai fini e nei limiti di cui all’art. 27
Cost. (tra le tante: Sez. 4, n. 34494 del 13/07/2006 – dep. 17/10/2006, P.G. in
proc. Koumya, Rv. 234824). Peraltro, si aggiunge, il giudice ha approfonditamente
dato conto nella motivazione delle ragioni per cui la pena applicata dovesse ritenersi congrua, in particolare non solo evidenziando come la fattispecie concreta
oggetto del giudizio fosse riconducibile a quella astratta del titolo di reato dedotto
in rubrica (quindi escludendo la riqualificazione ex art. 73, co. 5, TU Stup.), ma ha
altresì ritenuto corrette l’applicazione e la comparazione delle circostanze prospettate dalle parti, tenuto conto della marginalità sociale degli imputati e dell’assenza
di precedenti aventi significato ostativo, giungendo ad affermare che anche per
effetto della diminuzione ex art. 444 c.p.p., la pena indicata dalle parti dovesse
considerarsi correttamente determinata e congrua nella misura.

6.3. Quanto, infine, al terzo motivo, anche quest’ultimo non si sottrae al giudizio
di manifesta infondatezza; sul punto questa Corte, in fattispecie sostanzialmente
sovrapponibile a quella qui esaminata, ha infatti affermato che in tema di patteggiamento, l’accordo tra l’imputato e il pubblico ministero costituisce un negozio
giuridico processuale recettizio che, una volta pervenuto a conoscenza dell’altra
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parte e quando questa abbia dato il proprio consenso, diviene irrevocabile e non
è suscettibile di modifica per iniziativa unilaterale dell’altra, in quanto il consenso
reciprocamente manifestato con le dichiarazioni congiunte di volontà determina
effetti non reversibili nel procedimento e pertanto né all’imputato né al pubblico
ministero è consentito rimetterlo in discussione (In applicazione del principio, questa Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto dall’imputato avverso la

P.M. e il precedente difensore munito di procura speciale, successivamente revocato dall’imputato: Sez. 1, n. 48900 del 15/10/2015 – dep. 10/12/2015, Martinas,
Rv. 265429; Sez. 4, n. 38070 del 11/07/2012 – dep. 01/10/2012, P.G. in proc.
Parascenzo, Rv. 254371). Del resto, la richiamata giurisprudenza secondo cui,
nell’ottica del ricorrente, il consenso al rito sarebbe sempre revocabile, consente
certamente all’imputato di revocare il proprio consenso, ma in presenza di fatti
sopravvenuti e non già sulla base di un semplice “ripensamento” dell’imputato o
del difensore (ad esempio, ove sia sopravvenuta una legge più favorevole o tale
ritenuta dall’interessato, che alteri la precedente valutazione di convenienza sulla
base della quale la parte si sia determinata a chiedere o ad acconsentire all’accordo: Sez. 4, n. 11209 del 23/02/2012 – dep. 22/03/2012, Marotti, Rv. 252173;
Sez. 4, n. 15231 del 08/04/2015 – dep. 13/04/2015, Azzali, Rv. 263151; Sez. 6,
n. 26976 del 10/04/2007 – dep. 10/07/2007, Gatti, Rv. 237095).

6.3.1. Solo per completezza, infine, non è ravvisabile alcuna violazione dell’art.
446, c.p.p., norma peraltro sfornita di espressa sanzione processuale, atteso che,
in base alla previsione dell’art. 446, comma quinto, cod. proc. pen., il giudice, se
lo ritiene “opportuno”, può verificare la volontarietà della richiesta (o del consenso)
disponendo la comparizione dell’imputato, norma peraltro erroneamente richiamata nel caso in esame attesa la presenza fisica dell’imputato; inoltre, quanto alla
presunta violazione dell’art. 446, co. 2, c.p.p., la stessa è pacificamente insussistente, dovendosi ribadire che il requisito dell’oralità della richiesta di applicazione
della pena formulata all’udienza fissata per il dibattimento di primo grado, non è
prescritto come essenziale, e cioè a pena di nullità. Ciò si deduce innanzitutto dal
principio generale processuale secondo cui, pur nel rispetto del principio dell’oralità
che permea il dibattimento, le parti hanno sempre la facoltà di presentare richieste
e dichiarazioni per iscritto, depositandole nella cancelleria del giudice ovvero direttamente allo stesso giudice in udienza. Il presupposto dell’oralità della suddetta
richiesta in udienza, inoltre, deve ritenersi escluso sia dal diritto dell’imputato di
non comparire e di non assistere al dibattimento, salvo il caso di accompagnamento coattivo previsto dall’art. 490 cod.proc.pen., sia dalla previsione dell’art.
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sentenza ex art. 444, cod. proc. pen., che aveva recepito l’accordo raggiunto dal

446, comma quinto, cod. proc. pen., per la quale il giudice, se lo ritiene opportuno,
può verificare la volontarietà della richiesta (o del consenso) disponendo la comparizione dell’imputato. Ne consegue che la proposizione legislativa di cui all’art.
446, comma secondo, cod. proc. pen. relativa alla formulazione orale della richiesta in udienza va intesa solo nel senso che essa, comunque espressa, deve essere
esposta oralmente e verbalizzata (fattispecie in cui la richiesta “de qua” era con-

da quest’ultimo presentato all’udienza; nell’affermare il principio di cui in massima
questa Corte ha ritenuto l’ammissibilità di siffatta richiesta: Sez. 1, n. 2416 del
23/05/1991 – dep. 27/06/1991, P.M. in proc. Benini, Rv. 187468).

7. Alla dichiarazione di inammissibilità di ciascun ricorso segue la condanna di

ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché, in mancanza di
elementi atti ad escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al versamento della somma, ritenuta adeguata, di Euro 2.000,00 in favore
della Cassa delle ammende.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibili i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di € 2000,00 in favore
della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, nella sede della S.C. di Cassazione, il 16 febbraio 2018

Il Cons
Ale

estensore

Il Presidente

Ila

Vito Di Nicola
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tenuta in un atto scritto, con sottoscrizione dell’imputato autenticata dal difensore,

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