Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 16687 del 28/11/2017


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 16687 Anno 2018
Presidente: RAMACCI LUCA
Relatore: MACRI’ UBALDA

SENTENZA

sul ricorso proposto da Lupini Domenico, nato a Bolgare il 21.7.1945,
avverso la sentenza in data 20.10.2016 del Giudice per le indagini preliminari del
Tribunale di Bergamo,
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Ubalda Macrì;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale,
Giuseppe Corasaniti, che ha concluso chiedendo l’inammissibilità del ricorso;
udito per l’imputato l’avv. Luigi Vincenzo, che ha concluso chiedendo
l’accoglimento dei motivi

RITENUTO IN FATTO

1. Il Giudice per le indagini preliminari di Bergamo ha condannato Lupini
Domenico, riconosciute le attenuanti generiche e la diminuente del rito, alla pena
di C 3.000,00 di ammenda, oltre spese, pena sospesa, per il reato di cui all’art.
256, comma 4, d. Lgs. 152/2006, avendo effettuato un deposito di rifiuti speciali
non pericolosi in aree non autorizzate all’uopo nonché in violazione delle
prescrizioni dell’autorizzazione, perché lo stoccaggio era avvenuto in aree non
conformi a quelle individuate nella planimetria autorizzata per le stesse tipologie
di rifiuti, in Martinengo il 27.5.2015.

Data Udienza: 28/11/2017

2. Con il primo motivo, l’imputato evidenzia che non si sarebbe dovuto
procedere ai sensi dell’art. 529 c.p.p. per mancanza della condizione di
procedibilità. Premesso che nel capo di imputazione era contestata la violazione
dell’art. 256, comma 1, lett. a), d. Lgs. 156/2006, il Giudice aveva invece
ritenuto che ricorresse l’ipotesi di cui all’art. 256, comma 4, d. Lgs. 152/2006 in
relazione ad “una serie di difformità nell’allocazione e gestione dei rifiuti rispetto
a quanto comunicato e dichiarato”. Precisa che trattavasi di rifiuti non pericolosi
e di violazioni di modesta portata lesiva rientranti pacificamente nella parte sesta
del d. Lgs. 152/2006, ai sensi del successivo art. 318-bis. Diversamente da

vigore dal 29.5.2015, era da applicarsi anche al caso in esame: il Giudice aveva
ritenuto, sulla base dell’art. 318-octies che il procedimento era stato aperto di
fatto il 27.5.2015, giorno dell’ispezione presso la società, e non in data
29.5.2015, giorno di invio della comunicazione della notizia di reato o il
9.6.2015, giorno dell’iscrizione della notizia di reato. Tuttavia, siccome il
procedimento sorgeva con l’iscrizione della notizia di reato nell’apposito registro
della Procura della Repubblica, alla data del 29.5.2015 il procedimento penale
non poteva dirsi in corso e l’imputato aveva diritto ad un termine entro il quale
regolarizzare l’illecito commesso, ai sensi dell’art. 318-ter, ciò che non era
avvenuto perché gli era stato notificato un decreto penale di condanna.
Conseguenza della mancata concessione del termine era l’improcedibilità della
successiva azione penale.
Con il secondo motivo, deduce la mancata applicazione della non
punibilità per particolare tenuità del fatto, in considerazione del precedente
penale, che però era risalente al 13.12.2004 e si era risolto in un’ammenda
prontamente pagata.
Con il terzo motivo, chiede, in via subordinata, che la Corte d’appello
ridetermini la pena nel minimo edittale ai sensi dell’art. 256, comma 4, d. Lgs.
152/2006 con concessione delle attenuanti generiche ex art. 62-bis cod. pen.,
nella loro massima estensione.

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. Si tratta di un ricorso in appello convertito in ricorso per cassazione
redatto da un difensore, avv. Alfio Bonomo, unico sottoscrittore dell’atto, non
iscritto all’albo speciale della Corte di cassazione al momento della presentazione
del ricorso: iscrizione avvenuta il 27.10.2017 mentre l’atto è stato datato dal
Difensore 23.12.2016 ed è pervenuto al ruolo generale di questa Corte in data
9.6.2017.
Ai sensi dell’art. 613, comma 1, cod. proc. pen., il ricorso è inammissibile.

quanto affermato dal Giudice, la parte sesta del predetto decreto legislativo, in

Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene pertanto
che il ricorso debba essere dichiarato inammissibile, con conseguente onere per
il ricorrente, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del
procedimento. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in
data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il
ricorso sia stato presentato senza “versare in colpa nella determinazione della
causa di inammissibilità”, si dispone che il ricorrente versi la somma,
determinata in via equitativa, di euro 2.000,00 in favore della Cassa delle

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di C 2.000,00 in favore della Cassa delle
Ammende

Così deciso, il 28 novembre 2017.

Ammende.

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