Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 16581 del 16/11/2017


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Penale Ord. Sez. 7 Num. 16581 Anno 2018
Presidente: CAVALLO ALDO
Relatore: SCARCELLA ALESSIO

ORDINANZA
sui ricorsi proposti da:
FONTI MASSIMO nato il 26/10/1960 a GENOVA
SPAGLIARDI ENRICA ROSA nato il 22/09/1940 a GENOVA

avverso la sentenza del 02/02/2017 della CORTE APPELLO di GENOVA
dato avviso alle parti;
sentita la relazione svolta dal Consigliere ALESSIO SCARCELLA;

Data Udienza: 16/11/2017

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza emessa in data 2.02.2017, la Corte d’appello di Genova, in parziale riforma della sentenza del tribunale di Genova del 12.01.2016, riduceva la
pena inflitta al FONTI in 2 anni di reclusione, confermando nel resto l’appellata

rente SPAGLIARDI, per il reato di frode fiscale ex art. 2, d. Igs. n. 74 del 2000,
nelle rispettive qualità, per aver indicato nella dichiarazione annuale 2009 elementi
passivi fittizi mediante fatture per operazioni inesistenti, pari ad C 154.937.09.

2. Hanno proposto separati ricorsi per cassazione i due imputati, a mezzo del
difensore di fiducia iscritto all’Albo speciale ex art. 613 c.p.p., deducendo complessivamente cinque motivi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari
per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
In particolare si evoca: a) con il primo motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. b),
cod. proc. pen. in relazione all’art. 2, d. Igs. n. 74 del 2000 (non si sarebbe tenuto
in considerazione l’art. 10 bis, legge n. 212 del 2000, in quanto l’operazione sarebbe stata da qualificarsi come “elusiva” in quanto aventi una loro sostanza economica – giuridica; la stessa sentenza avrebbe ammesso l’utilizzo imponente di
materiale pubblicitario volto a promuovere l’integratore, ciò che comproverebbe
la realtà dell’operazione economica); b) con il secondo motivo, il vizio di cui all’art.
606, lett. e), cod. proc. pen. sotto il profilo del vizio di mancanza, contraddittorietà
e manifesta illogicità della motivazione (incomprensibile sarebbe la condanna per
tale reato a fronte dell’assoluzione pronunciata per l’altra imputazione; si sarebbe
invece dovuto ritenere l’operazione come effettiva in tutta la sua globalità, con
conseguente assoluzione anche dal reato di cui all’art. 2); c) con il terzo motivo,
il vizio di cui all’art. 606, lett. c), cod. proc. pen. in relazione all’art. 649 cod. proc.
pen. (si sarebbe dovuto tener conto del principio del ne bis in idem a fronte della
definitività dell’accertamento tributario operato dall’Agenzia delle Entrate, come
del resto imposto anche dalla giurisprudenza della Corte e.d.u.); d) con il quarto
motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. b), cod. proc. pen. in relazione alla data di
consumazione del reato di cui all’art. 2, d. Igs. n. 74 del 2000, dovendosi individuare la data di consumazione non al momento della presentazione della dichiarazione fiscale (1.10.2010), ma al momento dell’inserimento in contabilità delle
fatture (dicembre 2009), con conseguente intervenuta estinzione per prescrizione
del reato; e) con il quinto motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. e), cod. proc. pen.

sentenza che aveva condannato quest’ultimo, unitamente alla coimputata ricor-

sotto il triplice vizio di mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione sul diniego delle attenuanti generiche e sul trattamento sanzionatorio
(non sarebbe congrua la motivazione in ordine al diniego del riconoscimento delle
attenuanti generiche per la mancanza di spiegazioni in merito alla vicenda, laddove
invece tutto il processo sarebbe stato orientato a spiegare l’operazione commer-

3.

Con memoria depositata presso la cancelleria di questa Corte in data

11.10.2017, i ricorrenti hanno insistito sull’accoglimento del quinto motivo relativo
al beneficio della sospensione condizionale della pena, punto sul quale la Corte
territoriale avrebbe omesso di motivare.

CONSIDERATO IN DIRITTO

4. I ricorsi sono inammissibili.

5. Ed invero, dall’esame congiunto delle sentenze di primo grado e di appello (che,
com’è noto si integrano reciprocamente: Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013 – dep.
04/11/2013, Argentieri, Rv. 257595), risulta palese la genericità e manifesta infondatezza di tutti i motivi, atteso che la Corte d’appello, seppure in maniera sintetica ma con percorso argomentativo immune da vizi logici, indica nell’impugnata
sentenza le ragioni per le quali ha ritenuto integrato il delitto di frode fiscale, con
conseguente configurabilità della responsabilità degli imputati sotto il profilo oggettivo e soggettivo, ragioni che si intendono in questa sede integralmente richiamate per esigenze di economia motivazionale né essendo richiesto a questa Corte
di procedere ad una ricognizione e riproposizione delle argomentazioni in fatto
sviluppate dalla Corte territoriale a sostegno di quanto sopra, dovendo la Corte di
Cassazione limitarsi a valutare la congruenza motivazionale e la logicità complessiva dell’apparato argomentativo utilizzato dai giudici di merito e non certo sindacare gli argomenti fattuali utilizzati dai predetti giudici.

6. In particolare, osserva il Collegio, attesa anche la sostanziale omogeneità dei
profili di doglianza sottesi ai motivi proposti da entrambi i ricorrenti, gli stessi
meritano congiunto esame. Ed invero, il primo motivo Fonti è identico al primo
motivo Spagliardi; il secondo motivo Fonti è analogo al primo motivo Spagliardi
(censurandosi in più la differente sanzione irrogata all’amministratore di fatto rispetto alla madre, amministratore di diritto, per la quale la pena è più mite e con

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ciale).

i doppi benefici; la Corte d’appello, si sostiene, non avrebbe motivato circa le doglianze relative alla posizione di amministratore di fatto); il terzo motivo Fonti è
identico al terzo motivo Spagliardi; il quarto motivo Fonti è identico al quarto motivo Spagliardi; il quinto motivo Fonti e analogo al quinto motivo Spagliardi (in più
si censura il fatto che la sentenza sarebbe contraddittoria laddove determina la
pena in 2 anni di reclusione ma non riconosce il beneficio della sospensione con-

attenuanti generiche nonostante l’incensuratezza e il buon comportamento processuale del ricorrente).

7. Tanto premesso al fine di delimitare l’ambito cognitivo di questa Corte in relazione ai profili di doglianza mossi, può procedersi all’esame del primo motivo, comune ad entrambi i ricorrenti.
La Corte d’appello, dopo una puntuale ricostruzione della vicenda processuale evidenzia come la richiamata effettività delle operazioni £elusive” è rimasta in realtà
solo un “richiamo nominale”, in quanto contraddetta dalle emergenze processuali
che attestavano l’inesistenza soggettiva delle fatture ed il passaggio della merce
solo virtuale, congiunto ai “prezzi gonfiati” , al fine di determinare un credito IVA
in capo alla società rappresentata dagli imputati; decisiva era risultata inoltre la
totale mancanza di documentazione commerciale a supporto, dimostrativa della
non effettività delle operazioni indicate nelle fatture.
A fronte di tali elementi, la doglianza appare anzitutto generica per aspecificità, e
dunque inammissibile perché fondata su motivi non specifici, ossia generici ed
indeterminati, che ripropongono le stesse ragioni già esaminate e ritenute infondate dal giudice del gravame o che risultano carenti della necessaria correlazione
tra le argomentazioni riportate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione (Sez. 4, n. 18826 del 09/02/2012 – dep. 16/05/2012,
Pezzo, Rv. 253849). E’, inoltre, manifestamente infondata in quanto non tiene
conto dell’orientamento giurisprudenziale di questa Corte, ormai consolidato, secondo cui in tema di violazioni finanziarie, l’istituto dell’abuso del diritto di cui
all’art. 10-bis I. 27 luglio 2000, n. 212, che, per effetto della modifica introdotta
dall’art. 1 del D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128, esclude ormai la rilevanza penale delle
condotte ad esso riconducibili, ha applicazione solo residuale rispetto alle disposizioni concernenti comportamenti fraudolenti, simulatori o comunque finalizzati alla
creazione e all’utilizzo di documentazione falsa di cui al D.Lgs. 10 marzo 2000, n.
74, cosicché esso non viene mai in rilievo quando i fatti in contestazione integrino
le fattispecie penali connotate da tali elementi costitutivi (Sez. 3, n. 40272 del
01/10/2015 – dep. 07/10/2015, Mocali, Rv. 264950).
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dizionale della pena; inoltre, il ricorrente si duole del mancato riconoscimento delle

8. Anche il secondo motivo si appalesa inammissibile.
Quanto alle doglianze per cui vi è comunanza di critica verso la sentenza impugnata per il Fonti e la Spagliardi, si osserva come la differente valutazione tra
l’approdo assolutorio intervenuto per l’art. 4, d. Igs. n. 74 del 2000 rispetto alla
condanna intervenuta per il reato di frode fiscale ex art. 2, d. Igs. citato, viene

infedele era stata pronunciata per il fatto che la semplice non inerenza del costo
all’attività dell’impresa non era più idonea a ritenere integrato, dopo la modifica
introdotta dal d. Igs. n. 158 del 2015, la fattispecie penale oggetto di contestazione; il reato di dichiarazione fraudolenta ex art. 2, d. Igs. citato, invece, riguardava un’ipotesi di frode fiscale realizzata con le descritte modalità di cui all’imputazione attraverso società di comodo inesistenti, utilizzate soprattutto dal Fonti.
Nessun dubbio, quindi, che nessuna illegittimità è ravvisabile nella differente valutazione operata dalla Corte territoriale circa il diverso esito in ordine ai predetti
reati, trattandosi di condotte diverse che giustificavano approdi diversi.
Quanto, poi, alle censure singolarmente riferibili alla posizione del Fonti quale amministratore di fatto, il ruolo del medesimo – a prescindere dalla disamina specifica
della censura difensiva – discendeva dalla complessiva descrizione del meccanismo delittuoso nel quale il figlio della Spagliardi assumeva un ruolo centrale quale
direttore commerciale della società verificata, mentre la madre era titolare del
95% delle quote societarie; il Fonti inoltre, era il titolare della ditta individuale che
aveva emesso le fatture fittizie, creando così un credito IVA per la società beneficiaria, di cui egli era il direttore commerciale. Non v’è dubbio dunque della veste
di amministratore di fatto attribuitagli in sentenza, attraverso un percolo logico
argomentativo immune da vizi. Trova pertanto applicazione il principio per cui la
nozione di amministratore di fatto, introdotta dall’art. 2639 cod. civ., postula l’esercizio in modo continuativo e significativo dei poteri tipici inerenti alla qualifica
od alla funzione; nondimeno, significatività e continuità non comportano necessariamente l’esercizio di tutti i poteri propri dell’organo di gestione, ma richiedono
l’esercizio di un’apprezzabile attività gestoria, svolta in modo non episodico o occasionale. Ne consegue che la prova della posizione di amministratore di fatto si
traduce nell’accertamento di elementi sintomatici dell’inserimento organico del
soggetto con funzioni direttive – in qualsiasi fase della sequenza organizzativa,
produttiva o commerciale dell’attività della società, quali sono i rapporti con i dipendenti, i fornitori o i clienti ovvero in qualunque settore gestionale di detta attività, sia esso aziendale, produttivo, amministrativo, contrattuale o disciplinare – il

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spiegata dalla Corte d’appello in quanto l’assoluzione dal delitto di dichiarazione

quale costituisce oggetto di una valutazione di fatto insindacabile in sede di legittimità, ove sostenuta da congrua e logica motivazione.(Sez. 5, n. 35346 del
20/06/2013 – dep. 22/08/2013, Tarantino, Rv. 256534).

9. Il terzo motivo è parimenti inammissibile.
Ed invero, sulla non applicabilità dell’art. 649 cod. proc. pen., la Corte d’appello

glianza difensiva è, da un lato, la prova della definitività dell’accertamento tributario (ciò che impedisce l’operatività del principio del ne bis in idem in tale contesto, essendosi a più riprese ribadito da parte di questa Sezione che è preclusa la
deducibilità della violazione del divieto di “bis in idem” in conseguenza della irrogazione, per un fatto corrispondente sotto il profilo storico-naturalistico a quello
oggetto di sanzione penale, di una sanzione formalmente amministrativa, ma della
quale venga riconosciuta la natura “sostanzialmente penale” secondo l’interpretazione data dalle decisioni emesse dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo nelle
cause “Grande Stevens e altri contro Italia” del 4 marzo 2014, e “Nykanen contro
Finlandia” del 20 maggio 2014, quando manchi qualsiasi prova della definitività
della irrogazione della sanzione amministrativa medesima: Sez. 3, n. 48591 del
26/04/2016 – dep. 17/11/2016, Pellicani, Rv. 268493); dall’altro, ciò che ne
esclude l’applicabilità è la diversità soggettiva tra il soggetto giuridico destinatario
dell’accertamento tributario e il soggetto persona fisica destinatario della sanzione
penale. Sul punto, infatti, deve qui essere ribadito, in linea anche con la giurisprudenza della Corte di giustizia U.E. [(Corte di giustizia UE, IV sezione, sentenza 5
aprile 2017, Orsi (C-217/15) e Baldetti (C-350/15)], che non sussiste la preclusione all’esercizio dell’azione penale di cui all’art. 649 cod. proc. pen., quale conseguenza della già avvenuta irrogazione, per lo stesso fatto, di una sanzione formalmente amministrativa ma avente carattere sostanzialmente “penale” ai sensi
dell’art. 7 CEDU, allorquando non vi sia coincidenza fra la persona chiamata a
rispondere in sede penale e quella sanzionata in via amministrativa (In applicazione del principio, la Corte ha escluso la violazione del divieto di “bis in idem” con
riferimento a persona imputata per un fatto per il quale era stata inflitta sanzione
amministrativa a società dello stesso soggetto legalmente rappresentata: Sez. 3,
n. 43809 del 24/10/2014 – dep. 30/10/2015, Gabbana e altri, Rv. 265118; Sez.
3, n. 24309 del 19/01/2017 – dep. 17/05/2017, Bernardoni, Rv. 270515).

10. Ad analogo approdo deve pervenirsi in ordine al quarto motivo.
Lo stesso si appalesa manifestamente infondato, in quanto il momento consumativo del reato di cui all’art. 2, d. Igs. n. 74 del 2000 è quello dell’inserimento in
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motiva in maniera puntuale. Ciò che peraltro difetta nell’articolazione della do-

dichiarazione e non dell’inserimento in contabilità degli importi delle ff.00.ii., proprio per la soppressione da parte del Legislatore del 2000 della rilevanza penale
dei comportamenti prodromici all’evasione. Deve, pertanto, essere ribadito che in
tema di reati tributari, i delitti di dichiarazione fraudolenta previsti dagli artt. 2 e
3, D.Lgs. n. 74 del 2000, si consumano nel momento della presentazione della
dichiarazione fiscale nella quale sono effettivamente inseriti o esposti elementi

tenuti dall’agente, ivi comprese le condotte di acquisizione e registrazione nelle
scritture contabili di fatture o documenti contabili falsi o artificiosi ovvero di false
rappresentazioni con l’uso di mezzi fraudolenti idonei ad ostacolarne l’accertamento. (Fattispecie in cui la Corte ha annullato la sentenza impugnata che aveva
affermato la responsabilità dell’imputato in ordine al reato di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, per verificare se a seguito dell’annotazione contabile
del fittizio acquisto di un immobile tali elementi fossero poi confluiti nella dichiarazione dei redditi: Sez. 3, n. 52752 del 20/05/2014 – dep. 19/12/2014, Vidi e
altro, Rv. 262358).

11. Resta, infine, da esaminare il quinto motivo, anch’esso destinato all’inammissibilità.
Ed invero, quanto alla posizione della Spagliardi, la censura investe il mancato
riconoscimento delle attenuanti generiche; il diniego è implicito in considerazione
del comportamento concorsuale consapevole della stessa imputata, posto in essere nella vicenda criminosa. Trova dunque applicazione il principio secondo cui in
tema di determinazione della pena, la concessione, o meno, delle attenuanti generiche costituisce un giudizio di fatto sottratto al controllo di legittimità: essa è
demandata dalla legge al criterio discrezionale del giudice del merito che ha la
funzione di adeguare la determinazione della pena all’entità dello episodio criminoso; sicché, quando detto giudice ha motivato in ordine alla concreta irrogazione
della pena, con riferimento esplicito ai criteri di valutazione di cui all’art. 133 cod.
pen., il relativo giudizio (anche di implicito rigetto della richiesta di concessione
delle attenuanti in parola) non è censurabile in sede di legittimità. (Sez. 4, n. 21
del 30/11/1988 – dep. 03/01/1989, Di Rosa, Rv. 180073).
Quanto alla posizione dell’imputato Fonti, vale per quanto concerne il diniego delle
attenuanti generiche quanto già esposto per la Spagliardi, mentre, con riferimento
al mancato riconoscimento del beneficio della sospensione condizionale della pena,
non risulta dall’illustrazione dei motivi di appello operata in sentenza che detto
beneficio fosse stato richiesto, facendosi riferimento semplicemente all’attenuazione della pena ed al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche. Trova
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contabili fittizi, essendo penalmente irrilevanti tutti i comportamenti prodromici

dunque applicazione, da un lato, il principio secondo cui il giudice di appello non è
tenuto a concedere d’ufficio la sospensione condizionale della pena quando l’interessato non ne formuli alcuna richiesta di applicazione né nell’atto di impugnazione, né in sede di discussione, sicché il mancato riconoscimento del beneficio
non costituisce violazione di legge e non configura mancanza di motivazione (Sez.
4, n. 43113 del 18/09/2012 – dep. 07/11/2012, Siekierska, Rv. 253641); dall’al-

se proposto per motivi concernenti statuizioni del giudice di primo grado, o mancate statuizioni dello stesso giudice, non devolute al giudice di appello con specifica
impugnazione. Infatti la sentenza di primo grado, su tali statuizioni od omissioni,
acquista autorità di cosa giudicata, salvo il caso in cui si tratti di questioni rilevabili
d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio, non richiedenti accertamenti di fatto, di
cui non sia stato provocato l’esame o il riesame del giudice d’appello (Sez. 4, n.
10093 dei 20/03/1991 – dep. 10/10/1991, Paolicelli, Rv. 188253).

12. Alla dichiarazione di inammissibilità dei ricorsi segue la condanna di ciascun
ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché, in mancanza di elementi
atti ad escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al
versamento della somma, ritenuta adeguata, di Euro 3.000,00 ciascuno in favore
della Cassa delle ammende.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibili i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di tremila euro alla
Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, nella sede della S.C. di Cassazione, il 16 novembre 2017

Il Consigl re estensore

Il Presidente

Aless S arcella

A o Cavallo

Ce-Lte

tro, e soprattutto, il principio secondo cui il ricorso per cassazione è inammissibile

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