Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 16563 del 15/03/2016


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Penale Sent. Sez. 6 Num. 16563 Anno 2016
Presidente: CONTI GIOVANNI
Relatore: CORBO ANTONIO

SENTENZA

sul ricorso proposto da
CAVA Felice, nato a Noia il 11/08/1974
avverso la sentenza del 07/05/2015 della Corte di appello di Napoli
visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi;
udita la relazione svolta dal consigliere Antonio Corbo;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Roberto
Aniello, che ha concluso chiedendo dichiararsi l’inammissibilità del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza emessa il 7 maggio 2015, la Corte di appello di Napoli, per
quanto di interesse in questa sede, ha integralmente confermato la decisione di
primo grado, che, all’esito di giudizio abbreviato, aveva condannato alla pena
ritenuta di giustizia Felice CAVA per i reati di tentata estorsione in concorso ed
unione con altra persona, nonché di danneggiamento pluriaggravato e
detenzione di materiale esplodente, finalizzati alla commissione del primo reato,
ritenendo, inoltre, per tutte le contestazioni l’aggravante di aver commesso i fatti
avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis cod. pen., e per agevolare
le attività dell’associazione di tipo mafioso denominata Cava. In particolare, al

Data Udienza: 15/03/2016

CAVA è addebitata la condotta, reiterata tra l’aprile ed il luglio 2013, di aver
richiesto, unitamente a Pasquale De Cicco, al titolare di una impresa edile,
Olindo Dalia, la somma di Euro 30.000 «per i carcerati» in relazione allo
svolgimento di lavori concernenti la costruzione di un fabbricato, e di aver
accompagnato detta richiesta con minacce, esplicite ed implicite, culminate nel
danneggiamento di un container adibito ad ufficio e deposito dell’impresa presso
il cantiere “interessato”, mediante l’esplosione di una bomba-carta; la richiesta
non sarebbe andata a “buon fine” per il rifiuto della vittima che ha denunciato i

2. Ha presentato ricorso per cassazione avverso la precisata sentenza,
l’avvocato Lucio Sena, quale difensore di fiducia del CAVA, sviluppando tre
motivi.
L’esposizione dei motivi è preceduta da una premessa sulla inaffidabilità
delle dichiarazioni del Dalia e sulla necessità di un preventivo e generale esame
della personalità del medesimo, non compiuto dai giudici di merito, e però
doveroso sia perché il Dalia, alla luce di quanto emerso dalle intercettazioni
effettuate, deve ritenersi persona caratterizzata da arroganza e «spirito
“guappesco”» e scarsa fiducia nella polizia, tanto più che trattasi di soggetto già
arrestato per fatti di camorra, sia perché la dichiarazioni da lui fornite sono
«contraddittorie».
2.1. Nel primo motivo, il ricorrente lamenta violazione degli artt. 56 e 629
cod. pen. ed all’art. 7 del d.l. 13 maggio 1991, n. 152, convertito nella legge 12
luglio 1991, n. 203, in riferimento all’art. 606, comma 1, lett. b), c) ed e), cod.
proc. pen.
Si deduce, innanzitutto, che non è ascrivibile al CAVA alcuna condotta
penalmente rilevante. Invero, dalle conversazioni intercettate risulta che il Dalia:
a) scherza con la moglie sugli autori della richieste, definendoli «scemi … stupidi
muccusi mocciosi» (conversazione n. 2213 del 20 agosto 2013), in palese
contrasto con quanto dichiarato alla Polizia il 21 luglio, laddove riferisce che le
pressioni «sono state talmente perentorie che ho incominciato ad aver paura sia
per la mia incolumità che per quella della mia famiglia»; b) riferisce a tale
“masto Mario” sia di aver ricevuto le richieste sin da marzo, e di essere riuscito
«sempre a perdere tempo», fino al momento dell’esplosione del

container,

allorché aveva sporto denuncia alla Polizia, sia di aver continuato ad incrociare
dopo questo fatto gli autori delle minacce, riuscendo però a sfuggire ad ogni
incontro ravvicinato (conversazione n. 3560 del 18 settembre 2013), andando
così in contraddizione con quanto detto alla moglie, alla quale aveva
rappresentato di non vedere i precisati soggetti da fine giugno/inizi luglio
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fatti alla Polizia.

(conversazione del 30 agosto 2013); c) è ondivago quando indica la somma
richiestagli, parlando ora di «10.000, 5.000» (conversazione n. 499 del 2 agosto
2013), ora di «5.000, 2.000. 4.000 e compagnia bella» (conversazione n. 2213
del 30 agosto 2013), ora di «30.000 Euro» (verbale di informazioni alla Polizia
del 7 dicembre 2013).
Si osserva, poi, che non è in alcun modo configurabile l’aggravante di cui
all’art. 7 del d.l. n. 152 del 1991, convertito nella legge n. 203 del 1991. Questo
perché: a) l’aggravante è contestata in due forme tra loro alternative; b) non

dell’omonimo clan; c) non risulta alcuna ostentazione della forza intimidatrice
dell’organizzazione criminale; d) non è chiara la finalizzazione della richiesta di
denaro, indicata ora per «stare tranquillo» (verbale di informazioni alla Polizia
del 7 dicembre 2013), ora «per le ferie» (conversazione n. 2213 del 30 agosto
2013), e solo da tale Gerardo «per i carcerati» (conversazione n. 499 del 2
agosto 2013); e) non vi è alcun indizio che l’attentato con la bomba carta sia
attribuibile al CAVA, o che vi siano stati più contatti tra gli autori delle minacce
ed il Dalia; f) i pretesi “pedinamenti”, se effettivamente avvenuti, sono in realtà
incontri casuali, determinati dal fatto che nella zona, tra il cantiere ed i Comuni
di provenienza degli imputati, vi è un’unica strada.
In conclusione, anzi, si sarebbe verificata un’ipotesi di desistenza volontaria.
2.2. Nel secondo motivo, il ricorrente lamenta violazione degli artt. 603 cod.
proc. pen., 24 e 111 Cost. e 6 CEDU, in riferimento all’art. 606, comma 1, lett.
b) ed e), cod. proc. pen.
Si deduce la violazione del diritto di difesa e al giusto processo perché la
Corte d’appello ha confermato la pronuncia di condanna sulla base di «materiale
probatorio unilaterale» costituito dai risultati di intercettazioni e dalle deposizioni
della persona offesa «oltremodo travisate».
2.3. Nel terzo motivo, il ricorrente lamenta violazione degli artt. 56 e 629
cod. pen., 7 del d.l. n. 152 del 1991, convertito nella legge n. 203 del 1991, e
192, comma 2, 533 e 546, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., in riferimento
all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen.
Si deduce che la motivazione è apparente e manifestamente illogica, perché
fondata su «deduzioni, sospetti ed illazioni», in particolare laddove giustifica
l’affermata sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 7 della legge n. 203 del
1991. A tal fine, infatti, sono stati valorizzati i legami di parentela del CAVA con
«i vertici dell’omonimo clan», il ritenuto riferimento ai «carcerati», e l’esplosione
dell’ordigno; tuttavia, i legami di parentela costituiscono elemento neutro (si cita
Sez. 2, n. 19177, del 15/03/2013, Vallelonga, Rv. 255828), il riferimento che gli
autori delle richieste di denaro avrebbero effettuato ai «carcerati» risulta
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può essere attribuita rilevanza al solo legame di parentela del CAVA con i vertici

riconosciuto non dal Dalia, ma solo da tale Gerardo, il collegamento
dell’esplosione dell’ordigno all’azione o alla volontà del CAVA non è supportato da
alcun indizio. Più in generale, manca «il ricorso alla forza intimidatrice esercitata
sul territorio dalla criminalità di stampo camorristico, fatta palese, dai materiali
autori dell’azione stessa», tanto che il Dalia si permette affermazioni irridenti nei
confronti dei pretesi autori delle minacce.

1. Il ricorso è infondato per le ragioni di seguito precisate.

2. Il secondo motivo, che deve essere esaminato preliminarmente, perché
contesta alla radice l’utilizzabilità del materiale istruttorio posto a base della
sentenza, è manifestamente infondato.
Infatti, le due sentenze di merito, con esiti pienamente sovrapponibili,
hanno posto a base del loro convincimento le risultanze di intercettazioni
ambientali e le dichiarazioni rese dalla persona offesa e da altri testimoni (in
particolare, la moglie ed un collaboratore della persona offesa). Si tratta, in altri
termini, di fonti di prova precisamente tipizzate dal codice di procedura penale,
la cui acquisizione risulta avvenuta regolarmente, né alcuna doglianza risulta
mossa dalla Difesa in ordine alla violazione di specifiche dispeksizioni di legge
relative ad ammissione, assunzione o utilizzabilità delle stesse. Di conseguenze,
tali fonti di prova potevano essere utilizzate dal giudice di merito, ferma
restando, ovviamente, la necessità di una verifica della loro concreta affidabilità
dimostrativa.

2. Infondate, poi, sono le doglianze esposte nella prima parte del primo
motivo, che contesta la correttezza della affermazione di responsabilità per il
delitto di tentata estorsione.
Le censure formulate nel ricorso, infatti, equivalgono, almeno in parte, ad
una richiesta di rivalutazione dei fatti, istituzionalmente sottratta alla cognizione
del giudice di legittimità.
2.1. Nel ricostruire gli accadimenti, la sentenza impugnata evidenzia che le
indagini avevano avuto inizio a seguito di un attentato dinamitardo la notte tra il
20 ed il 21 luglio 2013 nel cantiere della ditta di Olindo Dalia. Il Dalia, poi,
sentito dalla p.g., aveva negato di aver subito richieste estorsive, ma aveva reso
informazioni informali. Venivano perciò attivate intercettazioni ambientali dalle
quali emergeva che il Dalia aveva ricevuto richieste estorsive per 30/40 mila
euro; il Dalia veniva allora sentito nuovamente dalla polizia giudiziaria ed
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CONSIDERATO IN DIRITTO

ammetteva di aver ricevuto «richieste estorsive da CAVA Felice, da lui conosciuto
personalmente quale nipote del boss Cava Biagio e da tale Pasquale [poi
riconosciuto per De Cicco Pasquale]». La persona offesa, anzi, precisava che il
denaro, richiesto con cadenza quasi settimanale, e per un importo pari a 30.000
Euro, era domandato perché «serviva per farmi stare tranquillo» (gli veniva
detto anche «dacci i soldi altrimenti ci prendiamo collera; la pazienza è finita,
stai attento»), e che il CAVA ed il De Cicco avevano continuato a cercarlo sul
cantiere o nei pressi della sua abitazione anche dopo l’attentato dinamitardo. Le

Antonio Romano, amministratore della ditta del Dalia.
Alla luce di questa ricostruzione dei fatti, i giudici di appello hanno escluso la
configurabilità degli estremi della desistenza, osservando che l’azione criminosa
era cessata solo dopo l’inizio delle indagini nei loro confronti e la presentazione
della denuncia.
Per quanto attiene specificamente all’attentato dinamitardo, la sentenza
impugnata ritiene che il fatto debba essere ascritto al CAVA ed al De Cicco, sia
perché trattasi di evento successivo alle richieste non soddisfatte di denaro, e
all’avvertimento che la “pazienza era finita”, sia perché questa è l’indicazione che
dà il Dalia a tale Mario nella conversazione intercettata del 18 settembre 2013,
sia perché l’attentato «si pone quale chiaro segnale che i due erano pronti a
passare alle vie di fatto pur di ottenere quanto richiesto secondo lo schema di
azione classico delle organizzazioni camorristiche della zona».
La sentenza di primo grado – esplicitamente ed integralmente richiamata da
quella di appello – riporta, in maggior dettaglio, le dichiarazioni acquisite nel
corso delle indagini, i risultati delle intercettazioni e dei rilievi tecnici che
avevano consentito di appurare la natura dolosa dell’esplosione, in quanto
riferibile ad una bomba carta. Nelle conversazioni intercettate, il Dalia riferisce
più volte delle richieste di denaro: il 2 agosto parla di richieste di 5.000/10.000
Euro, dei suoi rinvii, e del conseguente attentato dinamitardo; il 18 settembre,
discutendo con tale “mastro Mario”, afferma che «qua mi misero la bomba Masto
Mario! Eh … non ho voluto pagare la camorra … i Cava sono venuti … vennero
qua e volevano 30/40 mila euro per i carcerati», e poi, dice di vedere in quel
momento proprio Felice CAVA («questo è quello che ha messo la bomba … CAVA
Felice, lui è uno scemo di Roccarainola, di Cicciano … hai visto come guarda,
come … quando ci vede ..»). Antonio Romano, poi, ha dichiarato che il CAVA ed il
De Cicco avevano insistentemente cercato sul cantiere il Dalia «un paio di giorni
prima dell’attentato» e che Dalia, prontamente informato, gli aveva chiesto di
depistarli; ha inoltre aggiunto che il CAVA ed il De Cicco si erano fatti vedere nei
pressi del cantiere sia prima sia dopo l’attentato al
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container.

Enrichetta

dichiarazioni del Dalia sono state confermate anche dalla moglie del Dalia e da

Siniscalchi, moglie del Dalia, ha confermato di aver appreso dal marito delle
richieste di denaro, di essere stata più volte seguita dal CAVA e da un’altra
persona, e di essere stata dì’accordo con il coniuge a non presentare denuncia
per paura, anche in considerazione della giovanissima età del figlio.
2.2. La ricostruzione dei fatti accolta nelle due sentenze di merito risulta
immune da vizi logici o giuridici, perché fondata su una pluralità di prove tra loro
distinte e però significativamente convergenti.
In particolare, e preliminarmente, il Dalia non risulta mosso da animosità nei

direttamente, né sono indicate ragioni per le quali lo stesso avrebbe avuto
motivo di accusare calunniosamente l’odierno ricorrente. Le parole da lui
pronunciate nel corso della conversazione con la moglie il 20 agosto 2013,
laddove definisce gli estorsori «scemi … stupidi … muccusi … mocciosi», non sono
incompatibili con il timore per la propria incolumità: non è irragionevole
sostenere che le stesse siano state esternate per rasserenare la donna,
sicuramente impaurita dopo l’esplosione della bomba carta ed ulteriormente
“pressata” dai successivi pedinamenti. L’affermazione resa a “mastro Mario” di
essere riuscito a temporeggiare e di aver incrociato i due estorsori anche dopo
l’attentato esplosivo non può essere ritenuta segno di inattendibilità solo perché
in contrasto con quella fatta alla moglie di non vedere detti soggetti da fine
giugno/inizi luglio, posto che questa seconda versione dei fatti può essere
anch’essa razionalmente spiegata con l’esigenza di tranquillizzare la donna. La
differenza delle somme indicate come oggetto delle richieste estorsive nelle
diverse conversazioni intercettate non rende manifestamente illogica la
valutazione di credibilità complessiva del racconto: pure questa discrasia può
essere letta, in modo non manifestamente illogico, come un tentativo di
sminuire, in un primo tempo, davanti a dipendenti e familiari, la gravità delle
richieste e, quindi del fatto; d’altro canto, l’importo di 30.000 Euro è indicato non
solo alla Polizia, a verbale, ma anche nella conversazione con mastro Mario del
18 settembre.
Immune da vizi logici è anche l’esclusione della configurabilità della
desistenza. E’ sufficiente rilevare che, dopo l’esplosione della bomba carta, il
CAVA ed il De Cicco, senza desistere dal loro proposito, mutarono il tipo di
approccio: si mostravano costantemente nei pressi del cantiere o dell’abitazione
del Dalia, senza parlare esplicitamente, ma evidenziando espressioni minacciose
o comunque preoccupanti per la vittima (emblematica la conversazione
intercettata del 18 settembre, in cui il Dalia, incrociando il CAVA, dice a “mastro
Mario”: «questo è quello che ha messo la bomba … CAVA Felice, lui è uno scemo
di Roccarainola, di Cicciano … hai visto come guarda, come … quando ci vede
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confronti del CAVA: si limita a riferire quanto accaduto davanti a lui e percepito

..»). In altri termini, non è manifestamente illogico ritenere che il CAVA ed il De
Cicco, dopo l’attentato al container, presero atto delle resistenze del Dalia, e
dell’inutilità o della rischiosità di ripetere esplicitamente le loro richieste, ed
assunsero un atteggiamento più defilato, senza tuttavia abbandonare il loro
proposito criminoso.

3. Infondate, infine, sono le doglianze contenute nella seconda parte del
primo motivo e nel terzo motivo, che contestano la ritenuta configurabilità

203 del 1991.
Secondo

un

consolidato

orientamento

giurisprudenziale,

per

la

configurabilità della circostanza in esame non è necessaria la prova dell’esistenza
della associazione criminosa, essendo sufficiente che la violenza o la minaccia
richiamino alla mente ed alla sensibilità del soggetto passivo la forza
intimidatrice tipicamente mafiosa del vincolo associativo (cfr., per tutte, Sez. 2,
n. 16053 del 25/03/2015, Campanella, Rv. 263525, nonché Sez. 2, n. 38094 del
05/06/2013, De Paola, Rv. 257065, ma anche Sez. 2, n. 49090 del 04/12/2015,
Maccariello, Rv. 265515).
Muovendosi nel solco di questo indirizzo, la sentenza impugnata, con
motivazione immune da vizi logici, ha evidenziato che «il carattere della
“mafiosità” dell’azione di intimidazione e di esplicita (ovvero implicita, ma chiara)
minaccia si evince dalle modalità delle condotte quali ricostruite sulla base degli
elementi probatori raccolti ed analiticamente esaminati […]». Ed infatti, il
riferimento nella richiesta ai «carcerati», che entrambe le sentenze di merito
indicano formulato specificamente dal Dalia, ma soprattutto, la ripetitività e
l’insistenza della domanda di pagamento, l’avvertimento «dacci i soldi altrimenti
ci prendiamo collera; la pazienza è finita, stai attento», l’esplosione della bomba
container due giorni dopo l’ennesima

carta con conseguente distruzione del

richiesta non soddisfatta, i pedinamenti anche successivi all’attentato sono tutti
elementi che, collegati logicamente e cronologicamente tra di loro, non potevano
non richiamare nella sensibilità di un qualunque soggetto passivo la forza
intimidatrice tipicamente mafiosa del vincolo associativo. Del resto, non risulta
irrilevante in proposito che il Dalia nel colloquio intercettato del 18 settembre
2013, ed intercorso con “mastro Mario”, abbia detto: «qua mi misero la bomba
Masto Mario! Eh … non ho voluto pagare la camorra … i Cava sono venuti …
vennero qua e volevano 30/40 mila euro per i carcerati». In questo contesto
fattuale, il rapporto di parentela di Felice CAVA con il boss Biagio Cava, noto alla
persona offesa, è circostanza che resta sullo sfondo, pur essendo pienamente

7

dell’aggravante di cui all’art. 7 del d.l. n. 152 del 1991, convertito nella legge n.

coerente con la percezione, da parte di quest’ultima, per gli elementi
precedentemente indicati, della matrice tipicamente mafiosa delle richieste.

4. Deve infine affrontarsi il problema, non dedotto nel ricorso, ma rilevabile
d’ufficio, derivante dalla riformulazione della fattispecie dell’art. 635 cod. pen.,
per effetto del d.lgs. del 15 gennaio 2016, n. 8 (cd. decreto di
“depenalizzazione”).
Il nuovo testo dell’art. 635 cod. pen., infatti, nel caso in esame, non

comma, può ritenersi integrato solo se si ritiene che la condotta sia avvenuta
«con violenza alla persona o con minaccia».
In relazione al vecchio testo dell’art. 635 cod. pen., che prevedeva come
circostanza aggravante speciale l’ipotesi del fatto commesso «con violenza alla
persona o con minaccia», un diffuso orientamento giurisprudenziale riteneva la
stessa sussistente in ogni caso nel quale vi fosse stata contestualità tra l’azione
di danneggiamento e la condotta violenta o minacciosa, anche quando la
seconda non risultasse strumentale alla realizzazione della prima (in questo
senso: Sez. 2, n. 1377 del 12/12/2014, dep. 2015, Pompili, Rv. 261824; Sez. 2,
n. 7980 del 30/11/2010, dep. 2011, Gambella, Rv. 249811, Sez. 2, n. 49382 del
11/11/2003, Mistretta, Rv. 226996; Sez. 6, n. 76 del 11/10/1989, dep. 1990,
Vantaggi, Rv. 182956; Sez. 2, n. 5560 del 24/03/1986, Bellini, Rv. 173121).
Secondo altro indirizzo, invece, l’aggravante era configurabile quando la violenza
o la minaccia fosse o contestuale o strumentale rispetto al danneggiamento (così
Sez. 5, n. 5534 del 13/01/2009, El Farkh, Rv. 242632, nonché Sez. 5, n. 40449
del 21/09/2004, Trimboli, Rv. 229934). Secondo un insegnamento ancora
diverso, infine, la circostanza aggravante del fatto commesso con violenza alla
persona era configurabile solo se vi fosse un nesso strumentale tra la condotta
violenta e l’azione di danneggiamento (Sez. 5, n. 29578 del 09/05/2014, Rv.
262597); in particolare, proprio perché la violenza alla persona o la minaccia non
costituisce «il mezzo di cui l’agente si avvale per attuare uno di quei peculiari tipi
di attacco al patrimonio altrui che la predetta norma raggruppa sotto la figura del
danneggiamento», secondo una risalente decisione, la stessa non era
compatibile quando il danneggiamento fosse stato commesso per realizzare una
estorsione (Sez. 1, n. 645 del 23/03/1970, Acquaviva, Rv. 115098).
Il Collegio ritiene che il “nuovo” art. 635 cod. pen., nella parte in cui punisce
il danneggiamento commesso «con violenza alla persona o con minaccia», debba
essere interpretato in linea con la giurisprudenza prevalente formatasi in
relazione alla disciplina previgente, che escludeva la necessità del nesso di
strumentalità tra la condotta violenta o minacciosa e l’azione di danneggiamento
8

sussistendo i presupposti per la configurabilità delle ipotesi previste dal secondo

,
evidenziando, a tale fine, che la ragione dell’aggravante risiedeva nella maggiore
pericolosità manifestata dall’agente nell’esecuzione del reato (così,
specificamente, Sez. 2, n. 7980 del 2011, Gambella, cit., e Sez. 2, n. 49382 del
2013, Mistretta, cit.). Invero, da un punto di vista strettamente letterale,
l’espressione impiegata dal legislatore non evoca necessariamente un nesso di
strumentalità tra la condotta violenta o minacciosa e l’azione di
danneggiamento; da un punto di vista sistematico, poi, non è privo di rilievo il
dato che il “nuovo” primo comma dell’art. 635 cod. pen. tratta unitariamente i

quelli commessi «in occasione di manifestazioni che si svolgono in luogo pubblico
o aperto al pubblico o del delitto previsto dall’art. 331», ossia quelli in cui il
legame tra il danneggiamento e la manifestazione, o il delitto, è di tipo
occasionale e non funzionale.
Conseguentemente, corretta risulta l’affermazione di responsabilità del CAVA
nella sentenza impugnata anche per il delitto di danneggiamento.

5. All’infondatezza delle censure formulate, segue il rigetto del ricorso e la
condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
Così deciso il 15 marzo 2016

Il Consigliere estensore

Il Presidente

fatti di danneggiamento «con violenza alla persona o con minaccia» e («ovvero»)

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