Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 16562 del 15/03/2016


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Penale Sent. Sez. 6 Num. 16562 Anno 2016
Presidente: CONTI GIOVANNI
Relatore: MOGINI STEFANO

SENTENZA

sul ricorso proposto da
Caldiro,ni Silvia, nato a Ravenna il 7/4/1981
avverso la sentenza n. 1328/2015 pronunciata dalla Corte d’Appello di Bologna il
31/3/2015;

visti gli atti, il provvedimento denunziato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Stefano Mogini;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Roberto
Aniello, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
udito l’avvocato Battista Cavassi, difensore di fiducia della ricorrente, che ha
insistito per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO

1. Silvia Caldironi ricorre per mezzo del suo difensore di fiducia avverso la
sentenza in epigrafe, con la quale la Corte di appello di Bologna ha confermato la
sentenza di condanna pronunciata dal Tribunale di Ravenna in composizione
monocratica il 17.4.2013 in ordine al reato di cui all’art. 348 cod. pen. contestato
alla ricorrente per avere – qualificandosi come “psicosomatista di impresa” e
pubblicizzando la propria attività sul sito Internet “psicosomatista.com ” esercitato abusivamente una professione intimamente connessa con quella di

Data Udienza: 15/03/2016

psicologo, il cui esercizio è riservato dalla legge ai laureati in Psicologia
regolarmente iscritti al relativo albo”.

2. La ricorrente deduce:
A) Violazione di legge per travisamento del fatto. La stessa contestazione si
riferirebbe ad una professione “intimamente connessa” a quella propria dello
psicologo e i giudici di merito avrebbero senza alcun fondamento probatorio

ricorrente abbia esercitato, come da essa coerentemente sostenuto, l’esercizio
della distinta attività di

counseling

psicologico, sottratta all’inquadramento

ordinistico. Mancherebbe dunque la necessaria correlazione tra accusa e
sentenza, nonché un compiuto accertamento dell’attività effettivamente
realizzata dalla ricorrente, che in caso di insufficienza del semplice counseling
aveva indirizzato i propri clienti a psicologi iscritti all’ordine.
B)

Vizi di motivazione con riferimento all’esclusione del cosiddetto

counseling

che si sostanzia nell’affiancamento al cliente per rafforzarne le

convinzioni positive – da parte dei giudici di merito.
C) Poiché le sentenze di merito non escludono la particolare tenuità
dell’offesa al bene giuridico tutelato dall’art. 348 cod. pen., la ricorrente chiede
che la Corte di cassazione applichi la causa di non punibilità prevista dal
sopravvenuto art. 131-bis cod. pen., ovvero, in subordine, annulli con rinvio la
sentenza impugnata per la delibazione in appello dell’esistenza di una tale causa
di non punibilità.

CONSIDERATO IN DIRITTO
2. Il ricorso è infondato.
Va innanzitutto escluso che nel caso di specie sia stato violato il principio di
necessaria correlazione tra accusa e sentenza.
Nella contestazione, considerata nella sua interezza, sono infatti
esplicitamente enunciati gli stessi elementi del fatto costitutivo del reato ritenuto
in sentenza (esercizio abusivo della professione di psicologo, il cui esercizio è
riservato per legge ai soggetti iscritti all’apposito albo). L’immutazione si verifica
infatti solo nel caso in cui tra il fatto contestato e quello ritenuto in sentenza
ricorra un rapporto di eterogeneità o di incompatibilità sostanziale per essersi
realizzata una vera e propria trasformazione, sostituzione o variazione dei
contenuti essenziali dell’addebito nei confronti dell’imputato, posto, così, a

ritenuto l’esercizio abusivo della professione di psicologo ed escluso che la

sorpresa di fronte ad un fatto del tutto nuovo senza avere avuto nessuna
possibilità d’effettiva difesa (Sez. 6, n. 899 del 11/11/2014, Rv. 261925; Sez. 6,
n. 17799 del 06/02/2014, Rv. 260156).
In punto di diritto, va poi rammentato che la legge 18 febbraio 1989, n. 56,
che ha disciplinato l’ordinamento della professione di psicologo, ha stabilito
all’art. 1 che essa comprende l’uso degli strumenti conoscitivi e di intervento per
la prevenzione, la diagnosi, le attività di abilitazione-riabilitazione e di sostegno

comunità, comprendendo altresì le attività di sperimentazione, ricerca e didattica
in tale ambito.
La stessa legge, all’art. 3, ha disposto, al comma 1, che l’esercizio
dell’attività psicoterapeutica è subordinato ad una specifica formazione
professionale, da acquisirsi, dopo il conseguimento della laurea in psicologia o in
medicina e chirurgia, mediante corsi di specializzazione almeno quadriennali che
prevedano adeguata formazione e addestramento in psicoterapia, attivati ai
sensi del D.P.R. 10 marzo 1982, n. 162, presso scuole di specializzazione
universitaria o presso istituti a tal fine riconosciuti.
Va al proposito ricordato che il disposto normativo dell’art. 348 cod. pen.
tutela gli interessi della collettività al regolare svolgimento delle professioni (S.U.
n.11545/2011 Cani; Sez 6,16 gennaio 1998, Striani; Sez. 6, 4 gennaio 1999,
Pastore) e che il delitto, è integrato – per quanto qui interessa – dallo
svolgimento delle attività di psicologo in assenza dell’iscrizione nel relativo albo
professionale (Sez. 6, n. 46067/2007 Rv. 238326; Sez. 2, n. 43328/2011, Rv.
251375; Sez. 6, n. 14408/2011, Rv. 249895).
Orbene, in tale quadro, le conclusioni assunte dalla Corte distrettuale
risultano corrette, aderenti alle emergenze processuali, in linea con gli standard
interpretativi fissati dalla giurisprudenza di questa Corte e, pertanto,
incensurabili in questa sede. La sentenza impugnata giustifica infatti in modo del
tutto adeguato e immune da vizi logici e giuridici le ragioni per le quali la Corte
territoriale, anche con precisi riferimenti alla conforme decisione di primo grado,
ha ritenuto che i clienti si rivolgessero alla ricorrente a causa di disturbi di natura
psicologica (ansia, ricadute emotive dell’obesità, ecc.), ottenendo, sulla base di
sedute fondate sul dialogo, una guida comportante l’indicazione dei rimedi volti
alla prevenzione del disagio e/o alla guarigione del paziente (p. 4). La Corte
territoriale esclude dunque coerentemente la ricorrenza nel caso di specie,
connotato di fatto da attività di diagnosi e cura, dell’attività di

counseling

psicologico, la quale ultima, peraltro, vista l’ampiezza della definizione contenuta
nell’art. 1 L. 56/1989 e le specifiche condizioni alle quali il successivo art. 3 della
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in ambito psicologico rivolte alla persona, al gruppo, agli organismi sociali e alle

stessa legge subordina l’esercizio di attività di psicoterapia, non pare per sua
natura, anche in relazione alla intrinseca delicatezza e complessità dell’ambito di
intervento, difforme da quella propria dello psicologo.
Il Collegio osserva infine, con riferimento all’ultimo motivo di ricorso, che
l’istituto della esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, di cui
all’art. 131-bis cod. pen., ha natura sostanziale ed è applicabile ai procedimenti
in corso alla data di entrata in vigore del d.Lgs. 16 marzo 2015, n. 28, ivi

rilevare di ufficio, ex art. 609, comma secondo, cod. proc. pen., ed applicare
direttamente, ai sensi dell’art. 620 lett. I) cod. proc. pen., la causa di non
punibilità. Tale esito è peraltro giustificato ogniqualvolta risulti palese, dalla
sentenza impugnata la ricorrenza dei presupposti oggettivi e soggettivi formali
della stessa, e un apprezzamento del giudice di merito che consenta di ritenere
coerente la conclusione che il caso di specie debba essere ricondotto alla
previsione di cui all’art. 131 bis cod. pen. (Sez. 2, n. 41742 del 30/09/2015, Rv.
264596).
Nel caso di specie, al contrario, i giudici di merito hanno concordemente
descritto modalità del fatto tali, per continuità, onerosità ed organizzazione, da
creare l’oggettiva apparenza di un’attività professionale posta in essere da
persona con competenze specifiche e regolarmente abilitata, sicché appare
preclusa ogni possibile valutazione delle condotte contestate nel senso di una
loro particolare tenuità, riconducibile all’operatività del citato art. 131 bis cod.
pen..
Al rigetto del ricorso consegue, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la
condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso il 15/3/2016.

compresi quelli pendenti in sede di legittimità, nei quali la Suprema Corte può

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