Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 16488 del 04/03/2016


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Penale Ord. Sez. 7 Num. 16488 Anno 2016
Presidente: RAMACCI LUCA
Relatore: DE MASI ORONZO

ORDINANZA

sul ricorso proposto da:
GIORDANO SALVATORE N. IL 28/05/1953
avverso la sentenza n. 523/2012 TRIBUNALE di GELA, del
18/03/2013
dato avviso alle parti;
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. ORONZO DE MASI;

Data Udienza: 04/03/2016

RITENUTO IN FATTO E IN DIRITTO
Con sentenza emessa in data 18/3/2013 il Tribunale di Gela condannava GIORDANO
SALVATORE alla pena – sospesa – di euro 3.000 di ammenda per in reato di cui all’art. 262,
comma 2, D.Lgs. n. 152 del 2006.
Avverso la sentenza ha proposto appello alla Corte di Appello di Caltanisetta che, investita
dell’impugnazione, ha trasmesso gli atti a questa Corte qualificando l’atto di appello come
ricorso per cessazione.

titolare dell’omonima impresa edile, in ordine al contestato reato di abbandono di rifiuti,
anche speciali, attesa l’accertata presenza nel cantiere di materiale di risulta da demolizione e
costruzione, frammisto materiale cartonato, materiale ferroso, alluminio, legno, gesso e
plastica, depositati in un’area di circa cinque metri quadrati.
Il GIORDANO, tramite difensore fiduciario, si duole della mancata assoluzione per non aver il
Tribunale considerato gli esiti della ctp redatta dall’Ing. Annibale Tinnirello a sostegno della
disattesa tesi del deposito temporaneo dei rifiuti, del tutto innocui per l’ambiente, in attesa
dell’effettivo smaltimento in discarica, come comprovato dalla circostanza che parte dell’area
occupata era destinata alla futura edificazione di altri due copri di fabbrica in contiguità del
lotto “B”, già oggetto di concessione edilizia.
Il ricorrente si duole altresì della pena eccessiva e dunque la mancata applicazione dei criteri
di cui agli artt. 132 e 133 c.p. che avrebbe consentito di meglio adeguare la pena al fatto e
della mancata concessione del beneficio della non menzione della condanna nel certificato del
casellario giudiziale.
In tema di impugnazioni, allorché un provvedimento giurisdizionale sia impugnato dalla parte
interessata con un mezzo di gravame diverso da quello legislativamente prescritto, il giudice
che riceve l’atto deve limitarsi, a norma dell’art. 568 c.p.p., comma 5, a verificare l’oggettiva
impugnabilità del provvedimento, nonché l’esistenza di una

“voluntas impugnationis”,

consistente nell’intento di sottoporre l’atto impugnato a sindacato giurisdizionale, e quindi
trasmettere gli atti, non necessariamente previa adozione di un atto giurisdizionale, al giudice
competente, al quale è riservato, in via esclusiva, il potere di valutare sia l’ammissibilità che la
fondatezza dell’impugnazione (Cass. Sez. Un. n. 45371 del 31-10-2001;
Sez. 3, n. 2469 del 30/11/2007, Rv. 220221; Sez. 5, n. 21581 del 28/4/2009, Rv. 243888).
Il principio contenuto nell’art. 568 c.p.p., comma 5 – secondo cui l’impugnazione è ammissibile
indipendentemente dalla qualificazione attribuitale dalla parte, per cui, ove sia stata proposta a
giudice incompetente, lo stesso trasmette gli atti a quello competente – non consente, infatti,
al giudice incompetente, investito del gravame erroneamente proposto, di emettere pronuncia
dichiarativa di inammissibilità della impugnazione, non rientrando tale pronuncia nella sfera dei
poteri attribuiti dalla menzionata norma alla cognizione di detto giudice, dovendosi il medesimo
limitare a procedere alla esatta qualificazione del mezzo di impugnazione proposto ed alla

Il Tribunale ha ritenuto non sussistere alcun dubbio circa la colpevolezza dell’imputato,

conseguente trasmissione degli atti al giudice competente (Cass. Sez. 1, 10/1/1994 n. 3769;
Sez. 3, 24/3/2009 n. 19980).
Nel caso di specie, correttamente la Corte territoriale, stante l’inappellabilità della sentenza, in
ossequio alla regola innanzi enunciata ha trasmesso gli atti, per competenza, alla Corte di
Cassazione.
Ciò posto, si rileva che l’impugnazione è stata proposta per violazione di legge e vizio di
motivazione ed alla luce dell’art. 606, c.1, lett. b) ed e), c.p.p., è quindi ammissibile.

Questa Corte ha più volte avuto modo di affermare, in tema di gestione dei rifiuti, per deposito
controllato o temporaneo si intende ogni raggruppamento di rifiuti, effettuato prima della
raccolta, nel luogo in cui sono stati prodotti, nel rispetto delle condizioni dettate dall’art. 183
D.Lgs. n. 152 del 2006, con la conseguenza che, in difetto anche di uno dei requisiti normativi,
il deposito non può ritenersi temporaneo, ma deve essere qualificato, a seconda dei casi, come
“deposito preliminare” (se il collocamento di rifiuti è prodromico ad un’operazione di
smaltimento), come “messa in riserva” (se il materiale è in attesa di un’operazione di
recupero), come “abbandono” (quando i rifiuti non sono destinati ad operazioni di smaltimento
o recupero) o come “discarica abusiva” (nell’ipotesi di abbandono reiterato nel tempo e
rilevante in termini spaziali e quantitativi) (Sez. 3, n. 38676 del 20/5/2014, Rodoifi,
Rv.260384).
Il Tribunale di Gela ha fatto buon uso del suindicato principio giurisprudenziale evidenziando
che nel corso del sopralluogo gli agenti di PG avevano riscontrato la presenza di rifiuti “tra cui
materiale ferroso e di alluminio anche arrugginito, vasellame in ceramica, cementizio e in
eternit” le cui condizioni – rilevabili anche dal materiale fotografico in atti – dimostravano
“chiaramente lo stato di abbandono” e dunque una situazione incompatibile con la
temporaneità del deposito sostenuta dalla difesa del GIORDANO.
Con tali logiche argomentazioni il ricorrente non si confronta adeguatamente, limitandosi a
reiterare una diversa lettura delle risultanze probatorie, fondata su mere congetture, e sollecita
– inammissibilmente – questa Corte a sovrapporre le proprie valutazioni a quelle del Giudice
di merito.
Quanto al profilo di doglianza concernente il trattamento sanzionatorio va ricordato che ove,
come nella specie, per la violazione ascritta sia prevista alternativamente la pena dell’arresto e
quella dell’ammenda, il giudice non è tenuto ad esporre diffusamente le ragioni in base alle
quali egli applichi la misura massima della sanzione pecuniaria, perché, avendo l’imputato
beneficiato di un trattamento obiettivamente più favorevole rispetto all’altra più rigorosa
indicazione della norma, è sufficiente che dalla motivazione sul punto risulti la considerazione
conclusiva e determinante in base a cui è stata adottata la 2 decisione, tale motivazione ben
potendo esaurirsi nell’accenno alla equità quale criterio di sintesi adeguato e sufficiente (Sez.
1, n. 3632 del 17/01/1995, Capelluio, Rv. 201495; vedi anche Sez.1, n. 40176 del
01/10/2009, Russo, Rv. 245335).

Ciò non di meno va dichiarata inammissibile perché manifestamente infondata.

La determinazione della pena tra il minimo ed il massimo edittale rientra inoltre tra i poteri
discrezionali del giudice di merito ed è insindacabile nei casi in cui la pena sia applicata in
misura media e, ancor più, se prossima al minimo, anche nel caso il cui il giudicante si sia
limitato a richiamare criteri di adeguatezza, di equità e simili, nei quali sono impliciti gli
elementi di cui all’art. 133 c. p. (Sez. 4, n. 21294 del 20/03/2013, Serratore, Rv. 256197).
Ne consegue che, nella specie, debba ritenersi, sulla base di tali principi, del tutto sufficiente la
motivazione del Tribunale che ha fatto leva sulla entità del fatto e sul precedente penale

pecuniaria comminata in misura non lontana dal minimo edittale.
Quanto infine alla mancata concessione del beneficio della condanna nel certificato del
casellario giudiziale, il ricorrente non deduce di aver richiesto il predetto beneficio e sebbene
nella prassi la concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena sia assai
frequentemente doppiata dalla concessione di quello della non menzione, i due istituti, l’uno
disciplinato dall’art. 163 c.p. e ss. e l’altro dall’art. 175 c.p., hanno rationes e scopi diversi.
Il primo infatti ha l’obbiettivo di sottrarre alla punizione il colpevole che presenti possibilità di
ravvedimento e di costituire, stante la sua revocabilità, un’efficace remore alla eventuale
ulteriore violazione della legge penale da parte di chi se ne sia giovato, il secondo persegue lo
scopo di favorire il ravvedimento del condannato mediante l’eliminazione della particolare
conseguenza negativa del reato connessa alla pubblicità che, attraverso la sua menzione nel
certificato del casellario giudiziale, si dà alla eventuale sentenza di condanna.
Ciò posto e attese l’autonomia e la diversità dei due istituti, il provvedimento impugnato non
appare censurabile, laddove, sulla base di un prudente apprezzamento di fatto fondato sulla
personalità dell’imputato, già condannato, ha ritenuto di non concedere il beneficio della non
menzione ai sensi dell’art. 175 c.p. (Sez. 3, n. 20264 del 3/4/2014, Cangemi e altro, Rv.
259667, Sez. 1, n. 45756 del 14/11/2007, Della Corte).
Segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in ragione dei profili
di colpa insiti nella proposizione di impugnazione di tale tenore, della somma che si stima equa
di euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

P. Q. M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali
e della somma di euro 1.000,00 alla Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma, il 4 marzo 2016.

dell’imputato, anche per giustificare il diniego delle attenuanti generiche, rispetto ad una pena

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