Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 16448 del 27/10/2017


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Penale Ord. Sez. 7 Num. 16448 Anno 2018
Presidente: CAVALLO ALDO
Relatore: ANDRONIO ALESSANDRO MARIA

ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
PELLEGRINI MASSIMO nato il 01/05/1961 a NAPOLI

avverso la sentenza del 09/01/2017 della CORTE APPELLO di MILANO
dato avviso alle parti;
sentita la relazione svolta dal Consigliere ALESSANDRO MARIA ANDRONIO;

Data Udienza: 27/10/2017

RITENUTO IN FATTO
1. – La Corte d’appello ha confermato la sentenza di primo grado, con la quale
l’imputato era stato condannato per il reato di cui all’art. 10-ter del d.lgs. n. 74 del 2000.
2. – Avverso la sentenza l’imputato ha proposto, tramite il difensore, ricorso per
cassazione, lamentando vizi della motivazione in relazione alla mancata considerazione, ai
fini della responsabilità penale, dello stato di insolvenza della società, dal quale era derivato
il fallimento della stessa. Non si sarebbe considerato, in particolare, che l’imputato aveva

disposizione la documentazione contabile, che si trovava ormai nelle mani del curatore
fallimentare.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. – Il ricorso è inammissibile, perché basato su censure formulate in modo non
specifico.
Va premesso che la giurisprudenza di questa Corte ha precisato che il reato omissivo
a carattere istantaneo previsto dal d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 10-ter, consiste nel
mancato versamento all’erario delle somme dovute sulla base della dichiarazione annuale
che, tranne i casi di applicabilità del regime di «IVA per cassa», è ordinariamente svincolato
dall’effettiva riscossione dei corrispettivi relativi alle prestazioni effettuate. Ha altresì
precisato che il reato in esame è punibile a titolo di dolo generico, essendo sufficiente a
integrarlo la coscienza e volontà di non versare all’erario il tributo nel termine (ex plurimis,
sez. 3, 8 gennaio 2014, n. 15416; sez. un, 28 marzo 2013, n. 37424, rv. 255758; sez. 3,
6 marzo 2013, n. 19099, rv. 255327). E la prova del dolo è insita nella presentazione della
dichiarazione annuale, dalla quale emerge quanto è dovuto a titolo di imposta, e che deve,
quindi, essere saldato o almeno contenuto non oltre la soglia di punibilità, entro il termine
previsto. Quanto ai criteri per la valutazione circa la configurabilità dell’elemento soggettivo
e circa l’applicabilità delle circostanze scriminanti della forza maggiore e dello stato di
necessità, la giurisprudenza di questa Corte ha preso le mosse dalla considerazione che
l’introduzione della norma penale risponde all’esigenza che l’organizzazione economica
dell’impresa per il pagamento dei tributi si articoli su base annuale. Non può, quindi, essere
invocata, per escludere la colpevolezza, la crisi di liquidità del soggetto attivo al momento
della scadenza del termine, ove non si dimostri che la stessa non dipenda dalla scelta di non
far debitamente fronte all’esigenza predetta. Né può ovviamente escludersi, in astratto, che
siano possibili casi – il cui apprezzamento è devoluto al giudice del merito ed è, come tale,
insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato – nei quali possa invocarsi
l’assenza del dolo o l’assoluta impossibilità di adempiere all’obbligazione tributaria. È
tuttavia necessario che siano assolti gli oneri di allegazione che, per quanto attiene alla crisi
di liquidità, dovranno riguardare non solo l’aspetto della non imputabilità al sostituto di
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tentato di pagare a rate il debito con l’Agenzia delle entrate e che egli non aveva a

imposta della crisi economica che improvvisamente avrebbe investito l’azienda, ma anche
la circostanza che detta crisi non possa essere adeguatamente fronteggiata tramite il
ricorso, da parte dell’imprenditore, ad idonee misure da valutarsi in concreto. Occorre cioè
la prova che non sia stato altrimenti possibile per il contribuente reperire le risorse
necessarie a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie,
pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio
personale, dirette a consentirgli di recuperare, in presenza di un’improvvisa crisi di liquidità,

indipendenti dalla sua volontà e a lui non imputabili (ex plurimis, sez. 3, 24 giugno 2014,
n. 8352/2015, rv. 263128; sez. 3, 24 giugno 2014, n. 40795; sez. 3, 8 gennaio 2014, n.
15416; sez. 3, 5 dicembre 2013 n. 5467/2014, rv. 258055; sez. 3, 9 ottobre 2013, n.
5905/2014). Né il fatto che le obbligazioni tributarie siano rimaste inadempiute per
l’esigenza di adempiere prioritariamente alle obbligazioni di pagamento delle retribuzioni dei
lavoratori dipendenti è di per sé idoneo a configurare la diversa circostanza scriminante
dello stato di necessità (sez. 3, n. 15416/2014, cit.), peraltro non invocata dalla difesa nel
caso in esame. E anzi, la prova inequivocabile del dolo del reato è rappresentata proprio
dalla consapevole scelta di non pagare il tributo. Quanto all’eventuale configurabilità della
forza maggiore – neanche questa espressamente invocata dal ricorrente – deve premettersi
che la stessa rileva solo come causa esclusiva dell’evento e mai quale causa concorrente di
esso; essa sussiste, cioè, nei soli casi in cui la realizzazione dell’evento stesso o la
consumazione della condotta antigiuridica sono dovute all’assoluta ed incolpevole
impossibilità dell’agente di uniformarsi al comando, mai quando egli si trovi già in condizioni
di illegittimità (ex plurimis, sez. 3, 24 giugno 2014, n. 8352/2015). In altri termini, nei reati
omissivi integra la causa di forza maggiore l’assoluta impossibilità, non la semplice difficoltà
di porre in essere il comportamento omesso. In conclusione: a) l’esistenza di un margine di
scelta per l’agente esclude sempre la forza maggiore perché non esclude la suitas della
condotta; b) la mancanza di provvista necessaria all’adempimento dell’obbligazione
tributaria penalmente rilevante non può pertanto essere addotta a sostegno della forza
maggiore quando sia comunque il frutto di una scelta imprenditoriale volta a fronteggiare
una crisi di liquidità; c) l’inadempimento tributario penalmente rilevante può essere
attribuito a forza maggiore solo quando derivi da fatti non imputabili all’imprenditore che
non ha potuto tempestivamente porvi rimedio per cause indipendenti dalla sua volontà.
I giudici di merito hanno fatto corretta applicazione di tali principi, laddove hanno
escluso che l’imputato abbia dimostrato l’esistenza di una crisi economica o, comunque, la
non imputabilità della stessa a sue scelte imprenditoriali. La stessa difesa si è limitata ad
evidenziare singoli profili tra loro scollegati e non ha compiutamente delineato le dimensioni,
le cause e l’incidenza della pretesa crisi di impresa. Del resto, il fallimento della società è di
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quelle somme necessarie ad assolvere il debito erariale, senza esservi riuscito per cause

molto successivo alla data di commissione del reato e non vi è prova del fatto che l’imputato
si sia adoperato per reperire le risorse necessarie al pagamento.
4. – Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale
e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia
proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa d)
inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art.
616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali e della somma di C 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 27 ottobre 2017.

della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in C 2.000,00.

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