Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 16353 del 22/11/2017


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 16353 Anno 2018
Presidente: MAZZEI ANTONELLA PATRIZIA
Relatore: SIANI VINCENZO

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
MIRAGLIA PASQUALINO nato il 15/08/1949 a MONDRAGONE

avverso l’ordinanza del 20/10/2016 del TRIB. SORVEGLIANZA di ROMA
sentita la relazione svolta dal Consigliere VINCENZO SIANI;
lette/sentite le conclusioni del PG
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Data Udienza: 22/11/2017

RITENUTO IN FATTO

1. Con l’ordinanza in epigrafe, resa il 20 ottobre – 15 novembre 2016, il
Tribunale di sorveglianza di Roma ha rigettato il reclamo proposto dal detenuto
Pasqualino Miraglia avverso il provvedimento del Magistrato di sorveglianza del 7
giugno 2016 con cui aveva dichiarato inammissibile la sua istanza di permesso
premio, ex art. 30-ter legge n. 354 del 1975.

2.

Avverso l’ordinanza ha proposto ricorso il Miraglia chiedendone

l’annullamento e deducendo un unico, articolato motivo con cui lamenta
violazione ed erronea applicazione degli artt. 125 cod. proc. pen., 56, 575, 78
cod. pen., 30-ter e 4-bis Ord, pen., in relazione all’art. 7 d.l. n. 152 del 1991.
Premesse le ragioni dell’avvenuta reiezione dell’istanza, secondo il
ricorrente, l’ordinanza impugnata aveu.., finito/ il Tribunale cii

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rivalutare il giudicato omettendo di prendere atto che la sentenza del 28 giugno
2004, che aveva condannato il Miraglia per il reato ritenuto ostativo, non aveva
ritenuto la circostanza aggravante di cui all’art. 7 d.l. n. 152 del 1991, in quanto
la stessa non era stata neanche contestata: e tale invasione dei giudici di
sorveglianza nell’area del giudicato penale era avvenuta senza che fossero state
esposte le ragioni che avrebbero dovuto giustificarla, senza considerare il rilievo,
già formulato con il reclamo, secondo cui il dolo d’impeto che aveva sorretto il
reato in questione non si conciliava con l’aggravante ex art. 7 cit. ritenuta in
fatto dal Tribunale di sorveglianza. Il provvedimento, peraltro, non aveva reso
chiaro che il reato ritenuto ostativo era stato commesso in epoca successiva
all’entrata in vigore dell’art. 7 d.l. n. 152 del 1991: ed al riguardo soccorreva
l’interpretazione secondo cui, se poteva ancora ritenersi possibile qualificare in
sede esecutiva come, di fatto ) aggravati dalla connotazione mafiosa i reati
antecedenti all’entrata in vigore della suddetta norma, per i reati successivi era
necessaria la contestazione con il susseguente accertamento giudiziale. A tanto
si aggiungeva anche l’ulteriore elemento che era stata negata la continuazione
del reato in esame con quello associativo, diniego che, pur ove si fosse trattato
di fatto antecedente al d.l. n. 152 del 1991, militava contro la soluzione
raggiunta dai giudici di sorveglianza. Sicché, l’avvenuta integrazione di fatto
della circostanza aggravante di cui all’art. 7 d.l. n. 152 del 1991 non avrebbe
dovuto essere ritenuta, con conseguente collocazione del reato in esame al di
fuori dell’area di ostatività stabilita dall’art. 4-bis Ord. pen.

3. Il Procuratore generale ha chiesto annullarsi l’impugnata ordinanza
considerando che l’interpretazione si era ormai orientata, condivisibilmente, nel

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ritenere che si dovesse distinguere – ai fini dell’applicazione del divieto di
concessione di benefici penitenziari stabilito dall’art. 4-bis Ord. pen. per i delitti
commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis cod. pen. ovvero
al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste – tra i reati
commessi prima dell’entrata in vigore dell’art. 7 d.l. n. 152 del 1991 e quelli
commessi dopo, per i primi, e non per i secondi, essendo consentito ai giudici di
sorveglianza accertare attraverso il contenuto della sentenza l’evenienza della
suddetta situazione, per quelli successivi dovendo, invece, essi attenersi al fatto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso appare fondato e merita, pertanto, di essere accolto.

2. Giova premettere che il Magistrato di sorveglianza aveva ritenuto ostativa
alla concessione del beneficio regolato dall’art. 30-ter cit. la sentenza resa dalla
Corte di assise di appello di Napoli il 28 giugno 2004, in quanto, pur se non era
stato formalmente contestato nel relativo processo, né era stata emessa
condanna relativamente alla circostanza aggravante di cui all’art. 7 d.l. n. 152
del 1991, nella sostanza la situazione di fatto richiamata dall’art. 4-bis Ord. pen.,.
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Crei coincidente con l’aggravante succitata, senza che però quest’ultima norma
richiamasse specificamente l’art. 7 cit.
Il Tribunale di sorveglianza ha parimenti ritenuto determinante la natura dei
reato di tentato omicidio – ascritto anche al Miraglia (che aveva eseguito l’ordine
del coimputato Brodella, soggetto di grado criminale più eminente) — Icon la
suddetta sentenza, siccome era stato cpmmesso nell’interesse del clan
camorristico, con conseguente esigenza del rilievo della situazione agevolatrice
dell’organizzazione criminale indicato come ostativo dall’art. 4-bis Ord. pen.

3. Risulta, dunque, determinante nell’economia del ragionamento decisorio
esposto dai giudici di merito l’applicazione alla fattispecie dell’art. 4-bis cit. che,
per quanto qui rileva, al comma 1, stabilisce che l’assegnazione al lavoro
all’esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione previste dal
capo VI, esclusa la liberazione anticipata, possono essere concessi ai detenuti e
internati solo nei casi in cui tali detenuti e internati collaborino con la giustizia a
norma dell’art.

58-ter Ord. pen., fra gli altri, anche per i delitti commessi

avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis cod. pen. ovvero al fine di
agevolare l’attività delle associazioni in esso previste.
Rileva anche specificare che il delitto commesso dal Miraglia e considerato,

3

contestato nell’imputazione ed accertato nella sentenza.

per tale titolo, inserito nel catalogo stabilito dall’art. 4-bis cit., è stato sanzionato
dalla sentenza della Corte di assise di appello di Napoli del 28 giugno 2004,
irrevocabile il 29 aprile 2005, che lo ha condannato per il reato di tentato
omicidio continuato in concorso commesso il 26 ed il 27 novembre 2002.
Si trae che il delitto tentato continuato in esame è stato commesso nella
vigenza dell’art. 7 d.l. n. 152 del 1991, conv. dalla legge n. 203 del 1991.
E’ del pari assodato che la sentenza sopra indicata ha accertato il delitto
suddetto senza che sia stata contestata e, quindi, senza che sia stata ritenuta la
circostanza aggravante di cui all’art. 7 cit., la quale, come è noto, inerisce ai

delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’articolo 416-bis cod.
pen. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso
articolo, locuzione sovrapponibile a quella inserita nell’art. 4-bis cit.

4. I giudici di sorveglianza hanno ritenuto che in sede esecutiva si potesse e
dovesse operare la valutazione della sussistenza della situazione di fatto
costituita dall’avere perseguito, con il delitto, il fine di agevolare l’attività delle
associazioni di tipo mafioso o dall’essersi avvalso delle condizioni previste
dall’art. 416-bis cod. pen., e sono pervenuti a ritenere accertata la finalità
agevolatrice del clan radicatasi in capo al Miraglia nella commissione del tentato
omicidio su disposizione del Brodella: e ciò (pur senza svolgere considerazioni
espresse sull’argomento) hanno ritenuto anche per i fatti – come quello in esame
– susseguenti all’entrata in vigore del di. n. 152 del 1991 (fonte che ha
corrispondentemente introdotto, con l’art. 4-bis cit., anche la fattispecie ostativa
ai benefici penitenziari di cui si tratta).
Il Collegio, invece, in uno snodo interpretativo ancora connotato da arresti di
segno diverso, ritiene, in armonia con la prospettiva indicata anche dall’Autorità
requirente, che, con riferimento ai delitti commessi dopo l’entrata in vigore
dell’art. 7 d.l. n. 152 del 1991, il Tribunale di sorveglianza non possa, ai fini della
concessione dei benefici penitenziari, rivalutare la sentenza di condanna,
ritenendo sostanzialmente esistente la circostanza aggravante e, così, applicare
il divieto di cui all’art. 4-bis, comma 1, Ord. pen., ove tale aggravante non sia
stata formalmente contestata e riconosciuta come sussistente dal giudice della
cognizione (Sez. 1, n. 42815 del 06/05/2016, Incognito, Rv. 268334; Sez. 1, n.
31636 del 09/05/2014, Parabita, n. m.)
L’approdo ora indicato si fa preferire alla tesi che invece ritiene che,
nell’ipotesi di condanna per uno dei reati indicati dall’art. 4-bis Ord. pen., il
divieto di concessione di benefici penitenziari operi anche quando l’aggravante di
cui all’art. 7 cit. non sia stata formalmente contestata, ma ne venga riscontrata
la sussistenza attraverso l’esame del contenuto della sentenza di condanna (in

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tal senso Sez. 1, n. 44168 del 13/06/2016, De Lucia, Rv. 268297;Sez. 1, n.
40043 del 05/07/2013, Parabita, Rv. 257408).
Non si nega che, come hanno affermato le decisioni che vanno in
quest’ultimo senso, il genus a cui fa riferimento la disciplina penitenziaria
ostativa non è costituito, secondo la letterale articolazione della norma
penitenziaria, dal delitto aggravato ai sensi dell’art. 7 d.l. n.152 del 1991
(locuzione invece richiamata, per converso, dalla legge concessiva di indulto n.
241 del 2006 per escludere dei beneficio i reati per i quali ricorre la
corrispondente circostanza aggravante).

L’argomento che esse ne traggono – ossia la possibilità che il magistrato di
sorveglianza dia corretta attuazione alla suddetta norma verificando, per
l’accesso ai benefici penitenziari, la corrispondente caratteristica del fatto, dalla
norma penitenziaria segnato come connotato da maggiore pericolosità, che si
riflette sull’autore del comportamento – può e deve essere accolto per le
situazioni di fatto maturate in tempo antecedente all’entrata in vigore dell’art. 7
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Ciò infatti permette la valutazione del comportamento stesso alla stregua
del cogente parametro introdotto con l’art. 4-bis cit. onde attuare – anche per i
corrispondenti casi (in relazione ai quali mancava il parametro normativo
necessario per l’accertamento cognitivo del fatto stesso) – la verifica nella sede
esecutiva, in adempimento della funzione sussidiaria e suppletiva propria di tale
fase, della sussistenza o meno delle condotte a cui si ricollega la maggiore
pericolosità ostativa alla concessione dei benefici: verifica in executivis rispetto
alla quale, essendo la stessa oggettivamente necessitata dalla sopravvenienza
del parametro normativo, si giustifica il sacrificio della posizione del condannato
che può esercitare soltanto nella fase esecutiva, senza alternative, le facoltà
difensive inerenti all’oggetto dell’accertamento.
Con riferimento però alle ipotesi in cui l’ordinamento, al momento del delitto
oggetto di esame, si era già dotato dello strumento normativo finalizzato alla
contestazione in sede cognitiva dell’identica situazione di fatto configurante la
fattispecie a cui la norma penitenziaria riconnette il rilievo di maggiore
pericolosità, la via necessaria per il relativo accertamento non può non ricondursi
al giudizio di cognizione: nel corso del quale il destinatario della relativa accusa,
ove essa venga formulata con la contestazione della circostanza aggravante, ha
titolo, interesse e possibilità di esplicare la sua difesa.
D’altronde, per tale ambito, la sussistenza dello strumento per
l’accertamento del fatto in sede cognitiva determina la riemersione dei correlativi
limiti strutturali propri della fase esecutiva, la quale si deve arrestare a fronte del
giudicato maturato sulla corrispondente fattispecie e contemplare l’esercizio

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dell’attività interpretativa entro l’ambito del fatto accertato, nei limiti della
contestazione, dalla sentenza di cognizione.
Diversamente opinando, l’imputato dovrebbe necessariamente organizzare
la sua strategia difensiva nel corso del processo di cognizione, pur in assenza
della corrispondente (ed oramai giuridicamente possibile) contestazione delle
situazioni di fatto contemplate dalla citata aggravante e coincidenti con quelle
prese in considerazione dall’art. 4-bis Ord. pen., anche al di là di quanto il suo
interesse processuale a difendersi dall’accusa contenuta nell’effettiva

delle facoltà difensive attinenti alla verifica delle suddette situazioni di fatto alla
sede esecutiva, costringendosi tuttavia ad adattarla, senza che ne sussista
l’oggettiva necessità, alle circoscritte cadenze (ex artt. 666, comma 5, cod. proc.
pen. e 185 disp. att. cod. proc. pen.) del corrispondente procedimento.
E’ per tale ragione che l’orientamento maturato relativamente ai casi in cui
al momento della commissione del delitto la circostanza aggravante ex art. 7 d.l.
n. 152 del 1991 non era ancora entrata nel tessuto normativo vigente – fatto
che, come si è visto, non era preclusivo della verifica da parte dei giudici di
sorveglianza della verifica dell’accessibilità del condannato ai benefici
penitenziari, previo l’accertamento che il richiedente non versasse in una delle
condizioni ostative di cui all’art.

4-bis cit., ivi inclusa la condanna per reati

risultati commessi dal fine di agevolare associazioni mafiose o con il metodo
mafioso (così anche Sez. 1, n. 4091 del 07/01/2010, Dragone, Rv. 246053) non si ritiene dal Collegio esportabile ai casi inerenti pi delitti commessi nella
vigenza della circostanza aggravante che ha tipizzato, facendone scaturire
l’aggravamento della pena, i medesimi comportamenti.

5. Alla stregua di queste considerazioni, non avendo l’ordinanza impugnata
svolto la valutazione sopra richiamata nel solco del principio qui affermato,
diviene ineludibile il suo annullamento con rinvio al Tribunale di sorveglianza di
Roma per nuovo esame da compiersi nell’osservanza del principio stesso.

P.Q.M.

Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame al Tribunale di
sorveglianza di Roma.
Così deciso il 22 novembre 2017

imputazione potrebbe consigliargli: a meno di non differire comunque l’esercizio

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