Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 16315 del 21/09/2017


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 16315 Anno 2018
Presidente: MAZZEI ANTONELLA PATRIZIA
Relatore: MANCUSO LUIGI FABRIZIO

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
BAHI ABDELLATIF nato il 22/11/1988

avverso la sentenza del 11/05/2016 della CORTE APPELLO di MILANO
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere LUIGI FABRIZIO MANCUSO
Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore LUIGI ORSI
che ha concluso per
Il PG chiede l’inammissibilità del ricorso.
Udito il difensore
E’ presente l’avvocato PARRELLI MARIA BIANCA del foro di MILANO in difesa di:
BAHI ABDELLATIF che si riporta ai motivi di ricorso e ne chiede l’accoglimento.

Data Udienza: 21/09/2017

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza in data 8 ottobre 2015, il Giudice per le indagini
preliminari del Tribunale di Milano, in esito a giudizio abbreviato, dichiarava
Bahi Abdellatif colpevole del reato di tentato omicidio che era stato
commesso il 19 marzo 2014 in danno di Bounouar Adii colpendolo con un
coltello e procurandogli lesioni. Computata la diminuente per la scelta del

reclusione. Il compendio probatorio era costituito soprattutto dalle
dichiarazioni della persona offesa e di persone informate dei fatti, nonché
dalle risultanze dell’attività medica compiuta in soccorso del ferito.

2. In parziale riforma della predetta decisione, la Corte di appello di
Milano, su gravame dell’imputato, con sentenza in data 11 maggio 2016,
rideterminava la pena principale nella misura finale di anni cinque di
reclusione.

3. Bahi Abdellatif ha proposto ricorso per cassazione con atto
datato 22 giugno 2016 in cui deduce, richiamando l’art. 606, comma 1 lett.
e), cod. proc. pen., mancanza e contraddittorietà della motivazione in
ordine alla credibilità della persona offesa e al mancato riconoscimento
della legittima difesa o dell’eccesso colposo. Il ricorrente sostiene che il
giudice di appello abbia reso motivazione contraddittoria. Essa, inoltre, è
mancante in ordine alle censure che erano state mosse avverso la sentenza
di primo grado. Il giudice di appello ha riconosciuto la fondatezza delle
censure mosse con riguardo alla sentenza di primo grado in ordine alla
credibilità della persona offesa, Bounouar Adil, alle ragioni del contrasto e
al numero delle persone che erano con lui al momento dell’accoltellamento,
ma ha errato nel ritenere che ciò non intaccasse la realtà oggettiva
dell’episodio. Il giudice di appello non ha spiegato perché ha dato maggior
credito alla versione di 11375M-Abreltalit.

CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è manifestamente infondato. Il giudice di appello non è
incorso in alcun errore di diritto ed ha reso piena ed ampia motivazione
immune da vizi logici sugli argomenti affrontati nel ricorso. Tutti i dati e, in
particolare, il significato probatorio degli elementi accusatori, sono stati
analizzati con attenzione, come risulta dalla motivazione esaustiva, in cui
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rito, l’imputato veniva condannato alla pena principale di anni sei di

si spiega, con chiari e precisi argomenti, come sia provato, sulla base delle
dichiarazioni della persona offesa – ritenute credibili in quanto precise,
chiare e puntuali nella ricostruzione del fatto, riscontrate dall’esistenza
delle ferite riportate – che, a seguito di un diverbio, l’imputato colpì la
vittima ripetutamente con un coltello, al torace, all’inguine e alla mano
destra. La sentenza di appello, dopo aver ricordato che la dichiarazione
della persona offesa ha un ruolo probatorio in nulla diverso da quello

necessario un vaglio di credibilità, precisa che nel caso ora in esame
l’attendibilità della persona offesa va collegata alle., precisione, alla
coerenza, al carattere circostanziato delle dichiarazioni rese nella notte del
fatto, poi ribadite e precisate in sede di sommarie informazioni. Il giudice
di appello, inoltre, osserva che la credibilità dell’aggredito non è scalfita
dalla circostanza che costui abbia indicato in modo edulcorato le ragioni
dell’aggressione. Il giudice di appello afferma, inoltre, che sussistono
elementi – i colpi inferti, l’arma utilizzata, le regioni attinte – da cui si
desume

l’animus necandi,

e che non sussistono elementi per il

riconoscimento della legittima difesa, poiché appare inverosimile, tenuto
conto dell’avvenuto ferimento della persona offesa, la versione
dell’imputato, secondo la quale egli, aggredito dalla persona offesa e da
complici, sarebbe riuscito a disarmare gli aggressori, impadronendosi del
coltello per poi colpire la persona offesa.
L’impugnazione propone, in realtà, una ricostruzione alternativa, non
consentita in sede di legittimità, degli elementi già considerati dai giudici
del merito. Le censure riguardanti la valutazione del compendio probatorio
posto a fondamento della sentenza impugnata si risolvono in richieste di
analisi critiche esulanti dai poteri di sindacato del giudice di legittimità, non
palesandosi il relativo apprezzamento motivazionale né manifestamente
illogico, né viziato da non corretta applicazione della normativa. In
proposito, va ricordato che, secondo assunto non controverso,
l’interpretazione degli elementi probatori, la loro valutazione,
l’individuazione e la comparazione fra le circostanze del reato, la
determinazione della pena in concreto, sono compiti riservati al giudice del
merito. In sede di legittimità, tali valutazioni possono essere contestate
unicamente sotto il profilo della sussistenza, adeguatezza, completezza e
logicità della motivazione, mentre non sono ammesse le censure che, pure
investendo formalmente la motivazione, si risolvono nella prospettazione
di una diversa valutazione degli elementi già esaminati da detto giudice. In

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attribuito alla persona estranea agli interessi in gioco, anche se è

concreto, il ricorrente contesta,

«nel merito»,

il giudizio sul quadro

probatorio a carico, fondato sugli elementi disponibili ed evidenziati nella
sentenza impugnata.

2. In conclusione, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile in
applicazione dell’art. 606, comma 3, cod. proc. pen. Ai sensi dell’art. 616
cod. proc. pen., il ricorrente va condannato al pagamento delle spese

ammende, non essendo dato escludere – alla stregua del principio di diritto
affermato da Corte cost. n. 186 del 2000 – la sussistenza della ipotesi della
colpa nella proposizione dell’impugnazione.

P. Q. M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al
pagamento delle spese processuali e della somma di euro duemila in favore
della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma il 21 settembre 2017.

processuali e al versamento della somma di euro duemila alla Cassa delle

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