Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 16133 del 21/03/2018


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 16133 Anno 2018
Presidente: FUMU GIACOMO
Relatore: PAVICH GIUSEPPE

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
MARINO GIOVANNA nato il 14/08/1977 a PALERMO

avverso l’ordinanza del 04/10/2017 della CORTE APPELLO di PALERMO
sentita la relazione svolta dal Consigliere GIUSEPPE PAVICH;
lette/sentite le conclusioni del PG che ha chiesto il rigetto del ricorso.
Letta la memoria dell’Avvocatura generale dello Stato in rappresentanza del
Ministero dell’Economia e delle Finanze, che ha concluso per l’inammissibilità o,
in subordine, per il rigetto del ricorso,

Data Udienza: 21/03/2018

RITENUTO IN FATTO

1. Con ordinanza resa in data 4 ottobre 2017, la Corte d’appello di Palermo
ha rigettato la domanda di riparazione per ingiusta detenzione avanzata per
conto di Giovanna Marino in relazione alla sua sottoposizione alla misura
cautelare degli arresti domiciliari, nel periodo dal 28 maggio 2014 al 24 marzo
2015, per imputazioni provvisorie di detenzione illecita di stupefacenti e di armi
in concorso con il marito Antonino Lipari. Da tali addebiti la Marino veniva assolta

data 24 marzo 2015, divenuta definitiva.
Le accuse mosse alla Marino riguardano la scoperta, presso l’abitazione sua
e del marito, di un notevole quantitativo di hashish e di cocaina custodito in vari
sacchetti e scatole, nonché di svariate armi da fuoco clandestine e munizioni
custodite in un

trolley:

il tutto occultato all’interno dello sgabuzzino

dell’abitazione suddetta. Il ritrovamento di armi, munizioni e sostanze
stupefacenti era avvenuto in esito a perquisizione domiciliare, eseguita dopo che
inizialmente gli operanti avevano perquisito infruttuosamente l’officina del Lipari.
Quest’ultimo e la Marino, richiesti dalla P.G. di indicare l’indirizzo della loro
abitazione (cui gli operanti intendevano estendere la perquisizione), avevano
fornito un numero civico diverso da quello reale (il 110, anziché il 112),
corrispondente all’abitazione del padre del Lipari; solo gli accertamenti
successivamente eseguiti permettevano di individuare il reale indirizzo della
coppia. Sulla base di ciò, e delle complessive modalità di custodia di droga e
armi, la Corte palermitana ha disatteso la richiesta della Marino, giudicando la
sua condotta improntata a dolo o quanto meno a colpa grave e, pertanto,
ostativa al riconoscimento della riparazione.

2. Avverso la prefata ordinanza ricorre la Marino, tramite il proprio difensore
fiduciario. Il ricorso, pur non formalmente suddiviso in autonomi motivi, consta
di due distinti ordini di doglianze, riferiti in primo luogo ad erroneità della
motivazione, in secondo luogo a violazione dell’art. 314 cod.proc.pen..
Dopo avere ampiamente riportato stralci dell’ordinanza impugnata, il ricorso
sottolinea in primo luogo che la Marino non diede nessun effettivo apporto
causale all’illecita attività del marito: ciò, sostiene l’esponente, si evince dalla
sentenza di assoluzione, dalla quale si ricava altresì che non vi é univoca
certezza circa la consapevolezza, da parte della Marino, del contenuto degli
involucri tenuti nello sgabuzzino di casa. In secondo luogo, neppure può parlarsi
di connivenza passiva ostativa al riconoscimento dell’indennità, proprio perché
non vi era prova che la ricorrente fosse a conoscenza dell’illecita attività del

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dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Palermo, con sentenza in

marito. La Marino, del resto, aveva dichiarato in sede di convalida di avere
fornito false indicazioni circa l’indirizzo domestico, sulla scia di quanto fatto dal
coniuge, solo perché credeva che nel borsone vi fosse materiale cinese illegale.
Ed ancora, neppure potrebbe parlarsi di favoreggiamento, atteso che la Marino
non intendeva sottrarre il coniuge ad indagini riguardanti droga o armi, e che
peraltro nella specie il reato di favoreggiamento personale sarebbe scriminato ex
art. 384 cod.pen., trattandosi di condotta delittuosa del marito: di tal che
un’interpretazione che qualificasse come doloso o gravemente colposo un

illegittima. Infine, la ricorrente censura l’ordinanza impugnata con riferimento al
fatto che la Corte di merito non ha esaminato il suo comportamento dopo
l’applicazione della misura cautelare, al fine di verificare la legittimità del
mantenimento della stessa.

3. Con requisitoria scritta, il Procuratore generale presso la Corte di
Cassazione ha chiesto che il ricorso venga rigettato. L’Avvocatura generale dello
Stato, in rappresentanza del Ministero dell’Economia e delle Finanze, con
memoria depositata in Cancelleria il 6 marzo 2018, ha chiesto dichiararsi
l’inammissibilità o, in subordine, il rigetto del ricorso.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso é manifestamente infondato.
Conviene

muovere

dal

principio,

pacificamente

affermato dalla

giurisprudenza di legittimità, in base al quale il giudizio per la riparazione
dell’ingiusta detenzione é del tutto autonomo rispetto al giudizio penale di
cognizione, impegnando piani di indagine diversi e che possono portare a
conclusioni del tutto differenti sulla base dello stesso materiale probatorio
acquisito agli atti (cfr. da ultimo Sez. 4, Sentenza n. 12228 del 10/01/2017,
Quaresima, Rv. 270039; conforme Sez. 4, Sentenza n. 39500 del 18/06/2013,
Trombetta, Rv. 256764). Perciò il giudice di merito, per stabilire se chi l’ha patita
vi abbia dato o abbia concorso a darvi causa con dolo o colpa grave, deve
valutare tutti gli elementi probatori disponibili, al fine di stabilire, con valutazione

ex ante – e secondo un iter logico-motivazionale del tutto autonomo rispetto a
quello seguito nel processo di merito – non se tale condotta integri gli estremi di
reato, ma solo se sia stata il presupposto che abbia ingenerato, ancorché in
presenza di errore dell’autorità procedente, la falsa apparenza della sua
configurabilità come illecito penale (Sez. 4, Sentenza n. 3359 del 22/09/2016,
dep. 2017, La Fornara, Rv. 268952).

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comportamento scriminato dall’ordinamento sarebbe costituzionalmente

Nella specie, quindi, erra la ricorrente nel porre a base del proprio ricorso
l’assunto secondo il quale la stessa non avrebbe fornito alcun contributo
partecipativo alla realizzazione dei reati, laddove il thema decidendum era invece
costituito dal fatto che la stessa avesse o meno dato causa all’adozione della
misura cautelare a suo carico, e se ciò fosse o meno avvenuto in dipendenza di
un suo comportamento doloso o gravemente colposo suggestivo della riferibilità
alla medesima di indizi gravi della commissione, da parte sua, di un reato
costituente titolo cautelare.

secondo il quale la stessa avrebbe fornito indicazioni false circa l’indirizzo
dell’abitazione familiare da assoggettare a perquisizione non perché consapevole
di quanto vi veniva realmente custodito dal marito, ma ritenendo che si trattasse
comunque di beni illecitamente da lui detenuti (“materiale cinese illegale”): al di
là, infatti, dell’inverosimiglianza delle asserzioni della Marino, le stesse
circostanze da lei addotte a sua scusante depongono invece per la sua
consapevolezza della detenzione illecita di materiale non meglio precisato, tale
da indurla a cercare deliberatamente di stornare dal marito e dall’abitazione
coniugale le attenzioni degli investigatori. In proposito é opportuno ricordare che
la colpa grave, ostativa alla riparazione della detenzione subita, non deve
consistere necessariamente in una condotta che, gravemente imprudente o
negligente, sia idonea ad indurre in errore l’autorità giudiziaria in relazione al
reato per il quale si é patita la detenzione, sempre che la trasgressione sia stata
giuridicamente idonea a sostenere una misura cautelare detentiva (Sez. 4,
Sentenza n. 48311 del 26/09/2017, D’Urso, Rv. 271039).
1.2. Ed ancora, quand’anche – come la ricorrente sembra voler sostenere in
alcuni passaggi dell’impugnazione – la condotta da lei commessa fosse
qualificabile come favoreggiamento personale nei confronti del marito, andrebbe
comunque considerato che, secondo la giurisprudenza della Corte regolatrice, il
particolare stato di necessità che scrimina, ex art. 384 cod. pen., la condotta di
favoreggiamento non esclude il dolo che legittima il rigetto dell’istanza, ove si
accerti che tale condotta dolosa abbia causato la detenzione risultata ingiusta
(Sez. 4, Sentenza n. 47045 del 12/11/2008, Lisa, Rv. 242313). Al riguardo,
proprio l’autonoma rilevanza del comportamento ostativo alla riparazione
rispetto a quello suscettibile di valutazione nel giudizio di cognizione rende
manifestamente infondato l’accenno a una possibile questione di legittimità
costituzionale in parte qua dell’art. 314 cod.proc.pen.: questione che, peraltro,
neppure potrebbe dirsi rilevante nel caso di specie, atteso che la misura
cautelare fu adottata a carico della Marino non già per il reato di

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1.1. Né può validamente opporsi l’assunto, pure sostenuto dalla ricorrente,

favoreggiamento, ma per un’ipotesi di concorso della stessa con il marito
nell’illecita detenzione di droga, armi e munizioni.
Sotto quest’ultimo profilo, é appena il caso di rilevare che la motivazione
recepita nell’ordinanza impugnata e posta a base del rigetto della domanda
riparatoria si appalesa esente da censure, laddove pone in evidenza, da un lato,
il consapevole mendacio della Marino (al pari del marito) nell’indicare agli
inquirenti l’indirizzo di casa, allo scopo di allontanare dall’abitazione le
investigazioni degli operanti; e, dall’altro, l’inverosimiglianza della sua asserita

dello sgabuzzino di un’abitazione di piccole dimensioni.
1.3. E’, infine, del tutto generica la lagnanza relativa alla carenza di
motivazioni circa le ragioni del mantenimento della misura cautelare dopo
l’adozione della misura stessa: a tal fine infatti la ricorrente non fornisce alcun
elemento, né alcuna allegazione da cui desumere che la Corte di merito abbia
trascurato qualche aspetto rilevante ai fini del perdurare della sua sottoposizione
a regime cautelare.

2. Alla declaratoria d’inammissibilità consegue la condanna della ricorrente
al pagamento delle spese processuali; ed inoltre, alla luce della sentenza 13
giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie,
non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza
versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», la
ricorrente va condannata al pagamento di una somma che si stima equo
determinare in C 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende, nonché alla
rifusione delle spese sostenute dal Ministero resistente, liquidate come da
dispositivo.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle
spese processuali e al versamento della somma di euro duemila in favore della
Cassa delle ammende nonché alla rifusione delle spese sostenute dal Ministero
resistente che liquida in euro mille.
Così deciso in Roma il 21 marzo 2018.

Il Consiglie estensore
(Giusep

ch)

Il PresÌ1ente
(Giacjonjo Fumu)

inconsapevolezza della natura dei beni illegittimamente custoditi sugli scaffali

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