Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 16 del 09/12/2016


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 16 Anno 2017
Presidente: FUMU GIACOMO
Relatore: PACILLI GIUSEPPINA ANNA ROSARIA

Data Udienza: 09/12/2016

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
TROCCOLI DONATO n. a Bari 1’1.11.1959,
avverso la sentenza n. 491/2015 della Corte d’Appello di Venezia del 13.3.2015
Visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
Udita nella pubblica udienza del 9.12.2016 la relazione fatta dal Consigliere
Giuseppina Anna Rosaria Pacilli;
Udito il Sostituto Procuratore Generale in persona di Luigi Birritteri, che ha
concluso per l’inammissibilità del ricorso;
Udito il difensore avv. Giuseppe Serafino in sostituzione dell’avv. Alberto Di
Mauro, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso

RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 13 marzo 2015 la Corte d’appello di Venezia ha revocato il
beneficio dell’indulto, concesso all’imputato Michelotto Roberto, e ha confermato
la sentenza emessa in data 4.12.2006 dal Tribunale di Padova, che aveva
condannato l’odierno ricorrente, in atti generalizzato, e Michelotto Roberto per il
reato di cui agli artt. 110, 629, II co. in relazione all’art. 628 III co c.p., così
riqualificato il fatto contestato nel decreto. Era stato ritenuto, infatti, che il
giorno dopo la realizzazione del furto di un ricco compendio mobiliare, avvicinata
la vittima ed agendo riuniti, Donato Troccoli e Roberto Michelotto avevano

cf

ingiunto a Roberto Borsetto la consegna di quindici milioni di lire, a titolo di
compenso per l’asserita mediazione da sostenere presso coloro che l’avevano
derubata, in tal modo ponendo la persona offesa dinanzi all’ineluttabile
alternativa tra far conseguire loro un ingiusto profitto oppure subire la definitiva
perdita di quanto sottrattole. Denunciato quanto accaduto e predisposto
l’intervento della polizia giudiziaria, il 9 novembre 2001 gli imputati erano riusciti
ad ottenere la consegna di 2.500,00 lire quale anticipo della maggior somma
richiesta.
Avverso la sentenza di appello il difensore di Donato Troccoli ha proposto

1) contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla
ritenuta responsabilità dell’imputato in ordine al reato contestato, non risultando
provati l’effettiva soggezione della persona offesa né la minaccia tale da
integrare il delitto di estorsione (essendo evidente, di contro, l’accordo
fraudolento, in luogo della minaccia), e non essendo stati adeguatamente
motivati tali punti;
2) inosservanza delle norme processuali di cui agli artt. 521 e 597 c.p.p.,
delle quali la Corte d’appello non avrebbe tenuto conto, così qualificando
erroneamente i fatti oggetto del capo d’imputazione come estorsione anziché
truffa. In particolare, la Corte d’appello, analizzando specificamente gli elementi
emersi e la situazione soggettiva della persona offesa (soggetto con pendenze
penali per furto, che aveva deciso di non denunciare il furto, cercando invece di
recuperare i beni attraverso vie non convenzionali ed accettando di buon grado
l’offerta del Michelotto), avrebbe dovuto correttamente ritenere esistente il reato
di truffa, essendo palese che l’imputato, pur partecipando in modo secondario
alla proposta formulata al Borsetto dal Michelotto, avrebbe posto in essere
un’induzione in errore dello stesso, tesa a fargli credere che gli imputati
potessero effettivamente aiutarlo a recuperare i beni mobili rubati;
3) erronea applicazione della legge penale, in particolare dell’art. 56 c.p. in
relazione all’art. 629 c.p., per non avere la Corte territoriale ricondotto i fatti
nell’alveo dell’estorsione tentata, da ritenere esistente, posto che l’incontro con
la persona offesa veniva monitorato dalla polizia, che si trovava nelle condizioni
di intervenire in qualsiasi momento per interrompere la condotta degli imputati
ed impedire il definitivo impossessamento da parte degli stessi del denaro, e
posto che gli imputati avevano avuto la disponibilità del denaro solo per pochi
istanti. Nessun danno, inoltre, si era verificato, con conseguente mancato
compimento dell’effettiva consumazione del reato.
All’odierna udienza pubblica è stata verificata la regolarità degli avvisi di
rito; all’esito, le parti presenti hanno concluso come da epigrafe e questa Corte,

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ricorso per cassazione, deducendo:

riunita in camera di consiglio, ha deciso come da dispositivo in atti, pubblicato
mediante lettura in pubblica udienza.

CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è integralmente inammissibile perché presentato per motivi non
consentiti, assolutamente privi di specificità in tutte le loro articolazioni (in
quanto reiterativi di doglianze già esaminate e non accolte dalla Corte di appello)
e comunque del tutto assertivi. Il ricorrente in concreto non si confronta
adeguatamente con la motivazione della Corte di appello, che ha riesaminato e

e, dopo avere preso atto delle censure dell’appellante, con argomentazioni
giuridicamente corrette nonché esaurienti, logiche e non contraddittorie, e,
pertanto, esenti da vizi rilevabili in questa sede, è giunta alla medesima
conclusione in termini di sussistenza della responsabilità dell’imputato.

1.1 In particolare, la Corte d’Appello, quanto all’esistenza della minaccia, ha
rimarcato che il giorno dopo la realizzazione del furto di un ricco compendio
mobiliare, avvicinata la vittima ed agendo riuniti, Donato Troccoli e Roberto
Michelotto avevano ingiunto a Roberto Borsetto la consegna di quindici milioni di
lire, a titolo di compenso per l’asserita mediazione da sostenere presso coloro
che l’avevano derubata, in tal modo ponendo la persona offesa dinanzi
all’ineluttabile alternativa tra far conseguire loro un ingiusto profitto oppure
subire la definitiva perdita di quanto sottrattole.

1.2 Riguardo alla dedotta configurabilità del delitto di estorsione, la Corte
territoriale – ricordato che si ha truffa quando il danno non sia prospettato come
certo e sicuro ma solo come eventuale e possibile e mai comunque proveniente
direttamente o indirettamente dall’imputato, giacché nella meno grave ipotesi di
truffa la vittima non subisce coazione, determinandosi all’atto di disposizione in
stato di errore – ha ritenuto che la persona offesa non fosse stata vittima di un
raggiro ma fosse stata posta in condizione di soggezione, essendo stata messa
nell’alternativa di fare conseguire agli agenti il vantaggio preteso o di subire un
pregiudizio diretto e immediato.
In tal modo la Corte territoriale si è conformata ai principi enunciati da
questa Corte, secondo cui il criterio distintivo tra il reato di truffa e quello di
estorsione, quando il fatto è connotato dalla minaccia di un male, va ravvisato
essenzialmente nel diverso modo di atteggiarsi della condotta lesiva e della sua
incidenza nella sfera soggettiva della vittima, sicché ricorre la prima ipotesi
delittuosa, se il male viene ventilato come possibile ed eventuale e comunque
non proveniente direttamente o indirettamente da chi lo prospetta, in modo che
la persona offesa non è coartata, ma si determina alla prestazione, costituente

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valorizzato lo stesso compendio probatorio già sottoposto al vaglio del Tribunale

l’ingiusto profitto dell’agente, perché tratta in errore dall’esposizione di un
pericolo inesistente; si configura, invece, l’estorsione se il male viene indicato
come certo e realizzabile ad opera del reo o di altri, poiché in tal caso la persona
offesa è posta nell’ineluttabile alternativa di far conseguire all’agente il preteso
profitto o di subire il male minacciato (Sez. 2, n. 11453 del 17.2.2016, Imp.
Guarnieri, Rv 267124; Sez. 2, n. 7662 del 27.1.2015, Imp. Lanza, Rv 262574;
Sez. 2, n. 35346 del 30.6.2010, Imp. De Silva e altro, Rv 248402).

1.3 Quanto alla doglianza relativa alla mancata derubricazione del delitto di
estorsione in tentata estorsione, la Corte d’appello ha affermato che deve

consegnata da parte della persona offesa la somma estorta e non assumendo
rilievo la predisposizione dell’intervento della polizia, atteso che nello schema
dell’estorsione le modalità di lesione si incentrano sulla coazione esercitata
dall’agente sulla vittima, perché tenga una condotta positiva o negativa in
ambito patrimoniale, ed atteso che il fatto che la vittima si adoperi affinché la
polizia possa pervenire all’arresto dell’autore della condotta illecita non elide la
coazione, atteggiandosi a reazione della persona offesa allo stato di costrizione in
cui versa.
Così argomentando la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione dei
principi enunciati da questa Corte ((Sez. 2, n. 1619 del 12/12/2012, dep. 2013,
Rv. 254450; Sez. 2 n. 27601 del 19/6/2009, Rv. 244671; Sez. U. n. 19 del
27/10/1999, Rv. 214642), secondo cui, in tema dì estorsione, il delitto deve
considerarsi consumato e non solo tentato allorché la cosa estorta venga
consegnata dal soggetto passivo all’estorsore, e ciò anche nelle ipotesi in cui sia
predisposto l’intervento della polizia giudiziaria, che provveda immediatamente
all’arresto del reo ed alla restituzione del bene all’avente diritto; il fatto che la
vittima dell’estorsione si adoperi affinché la polizia giudiziaria possa pervenire
all’arresto dell’autore della condotta illecita non elimina, infatti, lo stato di
costrizione, ma è una delle molteplici modalità di reazione soggettiva della
persona offesa allo stato di costrizione in cui essa versa.

1.4 Con tali argomentazioni il ricorrente in concreto non si confronta
adeguatamente, limitandosi a riproporre una diversa “lettura” delle risultanze
probatorie acquisite, fondata su mere ed indimostrate congetture, senza
documentare nei modi di rito eventuali travisamenti.

2. La declaratoria di inammissibilità totale del ricorso comporta, ai sensi
dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese
processuali, nonché – apparendo evidente che egli ha proposto il ricorso
determinando la causa di inammissibilità per colpa (Corte cost., 13 giugno 2000
n. 186) e tenuto conto della rilevante entità di detta colpa – della somma di euro

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ritenersi sussistere estorsione consumata e non solo tentata, essendo stata

millecinquecento in favore della Cassa delle Ammende a titolo di sanzione
pecuniaria.

P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di euro millecinquecento a favore della Cassa
delle ammende.
Così deciso in Roma, udienza pubblica del 9 dicembre 2016
Il Consigliere estensore

Il Pri9ente

Giuseppina Anna Rosaria Pacilli

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