Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 15947 del 14/05/2015

Penale Sent. Sez. 1 Num. 15947 Anno 2016

Presidente: CORTESE ARTURO

Relatore: TARDIO ANGELA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

AA

avverso la sentenza n. 208/2013 CORTE APPELLO di TRIESTE del

03/02/2014;

visti gli atti, la sentenza impugnata e il ricorso;

udita in pubblica udienza del 14/05/2015 la relazione fatta dal

Consigliere dott. Angela Tardio;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale dott. Maria Giuseppina Fodaroni, che ha chiesto il rigetto

del ricorso.

Data Udienza: 14/05/2015

RITENUTO IN FATTO

Con sentenza del 31 gennaio 2008 il Tribunale di Trieste ha dichiarato

AAcolpevole del reato di bancarotta fraudolenta distrattiva e

documentale, di cui al capo 15) della imputazione, in relazione al fallimento,

dichiarato il 13 dicembre 1996, della “Tecnoprotezione & antincendio F.V.G. di

contestata aggravante, di cui all’art. 219, comma 2, n.1 legge fall., lo ha

condannato alla pena di anni tre e mesi dieci di reclusione, condonata per anni

tre; ha dichiarato non doversi procedere nei confronti del medesimo in ordine ai

reati sub a), b) del proc. n. 2135/98 R.G.N.R. e a reati sub 1), 3) 4) (nello

stesso assorbito quello sub 14), 8), 10), 16), 17), 18), 19), 20), 21), 22), 23),

24) del proc. n. 1540/95 R.G.N.R., perché estinti per intervenuta prescrizione, e

lo ha assolto dai reati sub 2), 7), 12) per non essere il fatto più previsto dalla

legge come reato.

Con sentenza del 27 settembre 2011 la Corte di appello di Trieste, in

parziale riforma della sentenza di primo grado, che ha confermato nel resto, ha

dichiarato non doversi procedere nei confronti di AA in ordine alla

residua imputazione di cui al capo 15) per essere il reato ascritto estinto per

intervenuta prescrizione, facendo applicazione della nuova e più favorevole

disciplina introdotta dalla legge n. 251 del 2005 e ritenendo non suscettibile di

valutazione, perché non formalmente contestata, l’aggravante a effetto speciale

del danno di rilevante gravità, prevista dall’art. 219, comma 1, legge fall. A seguito del ricorso della Procura Generale presso la Corte di appello di

Trieste, questa Corte – quinta sezione penale, con sentenza del 12 dicembre

2012, ha annullato la sentenza impugnata con rinvio per nuovo esame ad altra

sezione della stessa Corte di appello di Trieste.

Con detta sentenza questa Corte ha ritenuto il ricorso meritevole di

accoglimento alla luce del condiviso principio, alla cui stregua, …1;.a volta che

risultassero contestati, in fatto, gli elementi che valessero a rendere

oggettivamente configurabile una circostanza aggravante, la stessa poteva

essere ritenuta sussistente anche in assenza di formale richiamo, nel capo di

imputazione, alla norma di legge che la prevedeva, e ha osservato, a ragione

della decisione, che:

– non ostava a tale rilievo la circostanza, dedotta dalla difesa, che la

sentenza di primo grado, che aveva riconosciuto soltanto l’aggravante di cui

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Tippi Furio & C. S.a.s.”, e, concesse le attenuanti generiche equivalenti alla

all’art. 219, comma 2, legge fall., non fosse stata impugnata dalla pubblica

accusa, poiché al riconoscimento di detta aggravante non si era accompagnata

l’esplicita esclusione dell’altra, e il giudice di appello, ai sensi dell’art. 597,

comma 3, cod. proc. pen., poteva dare al medesimo fatto, già compiutamente

contestato all’imputato, che si era, pertanto, potuto difendere, una più grave

qualificazione giuridica, quale era quella derivante dalla ritenuta sussistenza

dell’aggravante del danno di rilevante gravità, ferma restando l’esclusione di

qualsiasi aggravamento del trattamento sanzionatorio, e con salvezza, quanto al

prescrizione;

– l’eventuale ritenuta sussistenza dell’aggravante prevista dall’art. 219,

comma 1, legge fall., da qualificarsi a effetto speciale, avrebbe implicato, in base

alla nuova e più favorevole disciplina introdotta dalla legge n. 251 del 2005,

l’operatività del termine di prescrizione massimo di anni diciotto e mesi nove,

non ancora scaduto;

– il giudice del rinvio, in applicazione dell’indicato principio di diritto e in

piena libertà di valutazione circa la sussistenza o meno in concreto della suddetta

aggravante, doveva, quindi, decidere sul merito dell’appello ovvero confermare

la declaratoria di estinzione del reato.

Con sentenza del 3 febbraio 2014, resa all’esito del giudizio di rinvio, la

Corte di appello di Trieste ha confermato la sentenza del 31 gennaio 2008 del

Tribunale di Trieste, ritenuta sussistente anche l’aggravante di cui all’art. 219,

comma 1, legge fall.

4.1. La Corte, dopo aver ripercorso la vicenda processuale e avere rimarcato

in via preliminare che la sentenza del primo Giudice, cui rimandava per le parti

non specificamente considerate, aveva fatto congrua valutazione delle prove e

corretta applicazione dei principi di diritto, ha ritenuto che non sussistessero i

presupposti per l’accoglimento della richiesta di integrazione probatoria,

formulata dalla difesa nelle more della fissazione dell’udienza Lie; giudizio di

rinvio, apprezzando la sufficienza degli elementi a disposizione e osservando, in

particolare, che:

– era irrilevante la riaudizione del Curatore, che aveva già reso dichiarazioni

sul suo operato, con riguardo agli ulteriori quesiti posti dalla difesa con la

richiesta depositata il 5 novembre 2013:

– era del tutto superflua la conferma, in mancanza di alcuna conteszazione,

degli atti provenienti dallo stesso curatore (rendiconto delle sue attività, riferite

alla entità dello stato passivo e dell’attivo), acquisiti senza opposizione, ovvero

degli importi esposti nei bonifici del febbraio 1995 per paghe al personale

dipendente, pure in atti e mai contestati;

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v

resto, di ogni altro effetto giuridico, come il prolungamento dei termini di

– erano da disattendere la richiesta difensiva di disporre una nuova perizia

psichiatrica sull’appellante e quella subordinata di sentire il consulente dott.

Norcio, già nominato e poi revocato perché già designato consulente di parte, e

la cui relazione risultava acquisita in appello, poiché il perito nominato in primo

grado dott. Novello aveva riconosciuto la piena capacità dell’appellante,

confutando in termini esaustivi e precisi le argomentazioni difensive, e dando

conto delle ragioni della esclusa esistenza di un disturbo delirante nel medesimo

e della non apprezzabilità dei suoi accertati disturbi di personalità come infermità

4.2. Secondo la Corte di appello, che richiamava l’ampia ricostruzione dei

fatti effettuata dal primo Giudice, l’appellante, cui era stato contestato il ruolo di

coannministratore di fatto della società fallita, aveva contribuito alla gestione

della stessa in maniera determinante, contrariamente alla tesi difensiva secondo

cui egli era stato un mero contabile, soprattutto -nell’ambito della divisione di

ruoli e compiti societari con l’amministratore di diritto e di fatto Tippi Furio- nella

gestione della sfera amministrativa e contabile e dei rapporti di lavoro con i

dipendenti effettivi, formalmente soci-lavoratori della collegata Tecnocoop.

La Corte, che ripercorreva le emergenze probatorie in atti, dava ampio conto

dei rapporti tra dette due società, degli accorgimenti adottati per le loro separate

gestioni, degli accordi economici tra l’appellante (che già operava nel settore

della prevenzione antincendio dal 1989 tramite la sua società “Tecnoprotezione e

antincendio di Odette Gozzellino S.a.s.”) e il Tippi, del ruolo svolto in concreto

dal primo, dell’ampia autonomia in cui lo stesso operava per le fatturazioni, le

assunzioni, le aperture previdenziali, l’impostazione dei bilanci e la gestione della

liquidità necessaria per la contabilità societaria, e dei dissidi poi insorti tra gli

stessi, sfociati anche in denunce penali, e determinati da diffidenza reciproca

sull’accaparramento per fini personali dei flussi di somme di cui ciascuno

disponeva e sulla suddivisione degli introiti sottratti, di comune accordo, alle

dichiarazioni fiscali, al versamento dell’IVA, ai versamenti contributivi e al

pagamento dei premi di assicurazione.

Dagli accertamenti bancari, eseguiti dalla Guardia di finanza, era risultato, in

particolare, che l’appellante e il Tippi avevano incassato negli anni 1993/1995,

dall’attività di prevenzione e antincendio posta in essere, rispettivamente

3.359.501.557 e 2.685.350.002 di lire per un totale di oltre sei miliardi, lucrando

ciascuno, attraverso la distrazione di somme per propri fini, circa un miliardo e

trecento milioni di lire.

L’appellante, che non aveva dato spiegazioni delle somme delle quali si era

appropriato, era risultato avere avuto ampia disponibilità di liquidità e, poco

prima dell’inizio della indagine, aveva distrutto documentazione cent3bile e fatto

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rilevante ai sensi degli artt. 88 e 89 cod. pen.

chiudere i conti sui quali operava, rendendo impossibile la ricostruzione delle

movimentazioni finanziarie.

4.3. L’accertamento di più fatti di bancarotta giustificava la contestazione e

l’affermazione della sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 219, comma 2,

legge fall.

Il danno patrimoniale prodotto dal fatto-reato di bancarotta ai creditori

collettivamente considerati era, inoltre, da ritenere di particolare gravità, poiché,

avuto riguardo alla entità degli imponibili ricostruiti dalla Guardia di finanza per

2.656.664.889 e lire 2.212.361.120), solo l’IVA evasa, non versata all’Erario,

superava il miliardo di lire; né, per gli stessi anni, erano state presentate le

dichiarazioni fiscali e versate le somme per contributi, dovute all’INPS.

Tale danno non poteva essere confuso con la mera entità dello stato

passivo, poiché i fatti di bancarotta e non il fallimento costituivano l’illecito

penale e il danno del reato era rappresentato dalla perdita causata dai fatti

distrattivi, attestati dall’accertata ingiustificata locupletazione di somme ingenti

per il mancato versamento di imposte e contributi, cui erano funzionali le

consapevoli condotte di irregolare tenuta e distruzione della contabilità,

preordinate a coprire, mediante l’impossibilità di ricostruzione del consistente

movimento degli affari, le condotte distrattive.

Conseguiva alla sussistenza della indicata aggravante che il delitto non era

prescritto né in applicazione dell’attuale formulazione dell’art. 157 cod. pen., né

in applicazione della previgente disciplina.

4.4. Sotto il profilo sanzionatorio, la Corte, fermo il giudizio di equivalenza

tra le aggravanti e le attenuanti generiche, già accordate dal primo Giudice,

riteneva congrua la pena inflitta, non riducibile in ragione della particolare

pregnanza della condotta e della intensità del dolo manifestata.

Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione, per mezzo del

suo difensore avv. Marcello Perna, l’imputato AA che ne chiede l’annullamento

sulla base di cinque motivi.

5.1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia erronea applicazione degli

artt. 88 e 89 cod. pen. in relazione alla valutazione della sua incapacità di

intendere e di volere.

Secondo il ricorrente, la Corte, che ha richiamato la contestata perizia del

dott. Novello, pur dopo la precedente nomina all’udienza del 31 gennaio 2008 del

perito dott. Norcio, poi revocato perché autore di una perizia richiesta da esso

ricorrente, ha affermato che non sussisteva il vizio di mente con argomenti

soggettivi e opinabili non adeguatamente sorretti da elementi scientifici certi,

non approfondendo la preliminare questione della sua incapacità tramite

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gli anni 1993, 1994 e 1995 (pari rispettivamente a lire 831.732.450, lire

l’audizione del dott. Norcio, che aveva escluso che egli fosse pienamente capace

d’intendere e di volere al momento dei fatti; omettendo ogni valutazione circa la

gravità e l’intensità del disturbo, pur essenziale; non conFieerando che

l’alterazione dei processi intellettivi e volitivi e la stessa percepíbilità dell’illecito

inerivano a tutti i reati e l’incidenza del suo effettivo stato psichico non poteva

essere superata semplicemente con il riferimento alla tipologia del reato

considerato, e trascurando di valutare il suo disturbo di personalità influente sui

processi psichici “a fondo” e con riguardo al “momento del fatto commesso”.

altra prova decisiva, rappresentata dalla escussione testimoniale del curatore,

che doveva confermare il passivo del fallimento accertato in euro 284.044,02,

costituito da tutta la massa dei creditori insoddisfatti, e chiarire come e in quali

termini era stata effettuata la ricostruzione dello stato d’insolvenza e il reddito

d’impresa, oltre a chiarire l’entità dei contributi assicurativi omessi.

Secondo il ricorrente, poiché la ratio fondamentale dell’art. 219, comma 1,

legge fall. è quella di prevenire pregiudizi ai creditori e non di impedire al titolare

di un’azienda di spendere il denaro derivante dal suo esercizio, e il concetto di

sottrazione non ha alcuna autonoma rilevanza penale, l’aggravante della

rilevante gravità del danno è ricavabile da un duplice ordine di fattori, e

precisamente dal “danno cagionato alla massa attiva del fallimento” e da quello

“patito dai creditori”, che, secondo il piano di riparto, non hanno potuto avere

accesso a una quota del patrimonio aziendale.

Nella specie, a fronte di un pregiudizio economico per i creditori, limitato a

soli cinquecentomilioni di lire, l’ampliamento della sfera del danno, con un

contestato passivo di lire 4.577.176.019, richiedeva, in mancanza di elementi

specifici e concreti, l’audizione del curatore per la necessaria chiarificazione dei

rapporti facenti capo a esso ricorrente e dell’effettivo quadro di distrazione e di

dissipazione del bene denaro da parte sua.

5.3. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia la mancata evidenziazione

della prova della sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 219, comma 1, legge

fa Il.

5.3.1. Secondo il ricorrente, che ribadisce che tale aggravante è costituita

dal binomio indissolubile di un doppio danno, ossia quel!o arrecato alla massa

attiva e quello patito dai creditori che non hanno potuto accedere al

soddisfacimento dei loro crediti sul patrimonio aziendale, detta duplicità di poste

negative correttamente calcolate deve necessariamente sussistere per la sua

configurazione.

La Corte, invece, ha svolto considerazioni del tutto approssimative e

largamente arbitrarie, senza calcolare le somme effettivamente dissipate e farne

rigorosa dimostrazione, e si è limitata a correlare l’entità delle distrazioni, mai

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5.2. Con il secondo motivo il ricorrente si duole della omessa assunzione di

individuata, agli imponibili ricostruiti dalla Guardia di finanza per gli anni

1993/1995, alle conseguenti evasioni IVA e IRPEG e alle omissioni contributive,

che ha dichiarato essere ingenti, senza alcuna specificazione o verifica e in

assenza di basi di calcolo assodate e controllate, né tenendo conto della non

operata detrazione di componenti negative del reddito, di spese e di costi

inerenti.

Al contrario, quale dato oggettivo e definito, che consentiva di identificare e

calcolare in concreto il danno per il fallimento e la sua entità, vi era solo

Era, peraltro, onere dell’accusa provare la sussistenza dell’aggravante nella

sua ampiezza economica effettiva e non meramente supposta, con conseguente

vulnus per la difesa, non posta in grado di contestare nulla, né tenuta a

dimostrare che il danno non era delle proporzioni ipoteticamente enunciate

dall’accusa.

In ogni caso, il denaro che rileva ai fini dell’art. 216 legge fall. è quello

sperperato o speso in largo eccesso (“dissipato”), e come tale distratto dal

potenziale utilizzo a fini sociali, cui deve intendersi, e solo per tale parte,

vincolato insieme agli altri beni aziendali, e non tutto il denaro incassato, che

non può ritenersi predestinato a fini produttivi o di garanzia per gli obblighi

aziendali.

5.3.2. In definitiva, ad avviso del ricorrente, all’ammontare accertato per

crediti non onorati dal fallimento, in sé alquanto modesto, andava riportato e

congiuntamente valutato l’importo corrispondente alle tasse e ai contributi

assicurativi effettivamente omessi per potersi stabilire, attraverso il raffronto tra

dette unità di misura, se sussisteva o meno, nel complesso, il preteso danno di

rilevante gravità, mentre la Corte ha solo citato gli obblighi assicu:ivi indefiniti

e un imponibile indimostrato, più corrispondente al fatturato dell’azienda che

all’utile residuo tassabile, omettendo l’effettiva individuazione del danno

cagionato alla massa attiva in rapporto alla correlata modesta entità certa del

danno arrecato ai creditori, che non poteva prescindere da adeguata prova.

5.4. Con il quarto motivo il ricorrente si duole della insufficiente e illogica

motivazione sull’amministratore di fatto.

Secondo il ricorrente, costituiscono presupposto del contestato concorso nel

reato di bancarotta con il correo Tippi l’identità del fine criminoso e il comune

sforzo per raggiungerlo, mentre il Tribunale ha accertato che il denaro

proveniente dall’azienda seguiva flussi diversi verso ciascuno di essi, con

separati conti correnti e separate posizioni aziendali.

Inoltre, mentre il Tippi era il titolare della società fallita, egli è stato solo il

contabile, e, anche ammettendo che egli abbia contribuito in maniera rilevante

alla gestione della società, il suo apporto sì è limitato alla gestione finanziaria e

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l’ammontare dello stato passivo.

contabile, senza estendersi alla codirezione dell’attività aziendale ovvero al

compimento di scelte implicanti l’esercizio sistematico di funzioni gerarchico

funzionali nella società.

La sostanziale separazione di gestioni, riconosciuta nella sentenza

impugnata, avrebbe, anzi, dovuto far intendere le intese tra i correi come

semplici scelte di rapporti di lavoro a vantaggio reciproco delle due aziende,

inidonee a integrare un concorso ex art. 110 cod. pen.

Tali considerazioni, ad avviso del ricorrente, refluiscono anche sulla

finale rappresentativa di tale danno può derivare in astratto solo unificando a

tutti gli effetti separati comportamenti e diversi vantaggi patrimoniali, oltre ai

danni derivati dal fallimento dell’azienda del Tippi.

5.5. Con il quinto motivo il ricorrente deduce la violazione del giudicato

penale, perché il correo Tippi è stato condannato con sentenza del 5 ottobre

2010, passata in giudicato, a seguito di patteggiamento per bancarotta

fraudolenta aggravata ai sensi dell’art. 219, comma 2, legge fall., mentre è

rimasta esclusa l’aggravante di cui all’art. 219, comma 1, legge fall., che,

preclusa dalla indicata sentenza irrevocabile, non poteva essergli azel itta.

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CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso, infondato o manifestamente infondato ovvero inammissibile nei

proposti motivi, deve essere rigettato. Le deduzioni svolte dal ricorrente con il primo motivo attengono alla

denunciata incorsa violazione degli artt. 88 e 89 cod. pen. e si sviluppano, in

relazione alla contestata valutazione della sua incapacità di intendere e di volere,

sotto i concorrenti profili dell’omesso apprezzamento della gravità e intensità dei

suoi accertati disturbi di personalità in rapporto al reato ascritto e al momento

della sua commissione, dell’operato richiamo alla perizia di ufficio del dott.

Novello e della mancata assunzione, in sede di appello, di una prova decisiva,

rappresentata dal ricorso ad adeguati approfondimenti e dall’audizione per

chiarimenti del consulente di parte dott. Norcio, che, per tale ruolo, era stato

revocato nell’incarico di perito di ufficio (prima dell’annullamento della sentenza)

dalla Corte di appello che lo aveva nominato per rispondere alle censure opposte

alla perizia del dott. Novello.

Tali deduzioni, che, nella perseguita contestazione dell’accertamento peritale

disposto dal Tribunale ed espletato dal detto perito, sono correlate con la

questione afferente alla sussistenza e al grado della capacità di intendere e di

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riferibilità a lui del danno di rilevante gravità contestatogli, poiché la somma

volere del ricorrente alla data del fatto, ritenuta piena dal perito di ufficio e tale

apprezzata dai Giudici del doppio grado del merito, sono prive di fondamento.

2.1. La Corte di appello ha svolto un coerente ragionamento probatorio, con

il quale, seguendo un percorso argomentativo (sintetizzato sub 4.1 del “ritenuto

in fatto”) concordante con lo sviluppo decisionale della sentenza di primo grado,

ha ripercorso le valutazioni del perito dott. Novello, nominato in primo grado, e,

illustrate le ragioni di doglianza dell’imputato appellante e richiamati e condivisi i

pertinenti principi di diritto, ha logicamente rappresentato le ragioni che hanno

Giudice condividendo le conclusioni peritali, circa l’esistenza del reclamato vizio,

totale o parziale, di mente dell’imputato.

La Corte, infatti, nel dare atto che le indagini peritali avevano accertato,

previo esame obiettivo, che l’imputato presentava “disturbi di personalità, con

alcuni tratti forse border-line, altri di tipo narcisistico”,

e, con dettagliata e

precisa motivazione tecnico-scientifica, che tali disturbi non assumevano “valore

di infermità rilevante in relazione agli artt. 88 e 89 c.p.”,

ha rimarcato –

condividendo e facendo proprie le valutazioni tecniche del perito, che aveva

anche confutato, in termini precisi ed esaustivi, le opposte argomentazioni

difensive- che, in coerenza a già affermati principi di diritto (tra i quali, in

termini, Sez. 6, n. 12621 del 25/03/2010, dep. 31/03/2010, non massinnata sul

punto), non erano evidenziate intensità e qualità dei rilevati disturbi, tali da

valere come infermità in senso medico-legale, ovvero come sintomi

psicopatologici dì uno specifico quadro clinico.

Né era emerso, nel giudizio della Corte, un “rapporto motivante con il fatto

commesso, inteso come correlazione psicoemotiva rispetto al fatto illecito”,

indicato dalla stessa richiamata giurisprudenza come qualità del disturbo della

personalità per essere penalmente rilevante, valorizzando -al fine della

esclusione della incidenza concreta ed effettiva della psicodinamire del rilevato

disturbo nell’attuazione dei fatti di bancarotta- la ripetizione delle condotte

distrattive dell’imputato in arco temporale prolungato e il suo coinvolgimento

“attivo, cosciente e coerente” nell’attività della società fallita, ritenuti tali da

escludere valenza, in specifica relazione e connessione con l’imputazione di

bancarotta, ai rilievi, relativi alla impulsività propria del disturbo border-line, dei

consulenti di parte (dott. Marasco in primo grado e dott. Norcio in appello).

2.2. L’analisi svolta, che, senza vuoti argomentativi, ha conc!uso, alla luce

delle conclusioni del perito di ufficio e degli elementi probatori disponibili, nel

senso della piena imputabilità dell’imputato all’epoca della commissione dei fatti

di bancarotta e in relazione agli stessi, nella rilevata insussistenza in atti di

elementi concreti riconducenti a una menomazione delle funzioni intellettive e

volitive, anche tralasciando i riferimenti, fatti dal primo Giudice e i dppresentati

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sorretto la conferma del giudizio finale negativo, cui era pervenuto il primo

dallo stesso imputato, alla intrapresa psicoterapia, non ha neppure prescisso dal

sottolineare -a fronte della svolta disamina- la superfluità della nuova perizia

psichiatrica chiesta dall’imputato ovvero dell’audizione del dotf- Norcio, già

nominato perito e poi revocato perché già designato consulente di parte, la cui

acquisita relazione non aveva apportato elementi di novità.

Tale apprezzamento è del tutto coerente con il consolidato orientamento di

questa Corte in tema di controllo sulla motivazione nel caso di adesione alle

conclusioni del perito di ufficio da parte del giudice (tra le altre, Sez. 4, n. 34379

17/02/2009, dep. 17/06/2009, Panini e altro, Rv. 243791).

Esso è anche in linea con i ribaditi principi che presiedono alla rinnovazione

della istruzione in appello, secondo cui, anche prescindendo dalle problematiche

connesse alla riconducibilità dell’accertamento peritale al concetto di prova

decisiva (tra le altre, Sez. 6, n. 43526 del 03/10/2012, dep. 09/11/2012, Ritorto

e altri, Rv. 253707; Sez. 4, n. 7444 del 17/01/2013, dep. 14/02/2u13, Sciarra,

Rv. 255152), l’accoglimento della richiesta di rinnovazione dell’istruzione

dibattimentale suppone una valutazione di insussistenza di elementi sufficienti

per decidere contro la presunzione di completezza dell’indagine istruttoria con le

acquisizioni processuali, mentre il giudice di appello, ove ritenga di respingere la

richiesta, può anche motivarne implicitamente il rigetto, evidenziando la

sussistenza di elementi sufficienti per una compiuta valutazione (tra le altre, Sez.

1, n. 19022 del 10/10/2002, dep. 22/04/2003, Di Gioia, Rv. 223985; Rv.

245009; Sez. 5, n. 15320 del 10/12/2009, dep. 21/04/2010, Pacini, Rv. 246859;

Sez. 3, n. 24294 del 07/04/2010, dep. 25/06/2010, D. S. B., Rv. 247872; Sez.

6, n. 30774 del 16/07/2013, dep. 17/07/2013, Trecca, Rv. 257741).

2.3. In tale articolato contesto, ancorato alle risultanze ragionate delle

evidenze disponibili, non possono trovare accoglimento le censure difensive, che

oppongono, in sovrapposizione argomentativa rispetto al ragionamento

probatorio svolto e senza correlarsi con i suoi passaggi motivi, infondate

deduzioni di dissenso quanto alla completezza dell’analisi della personalità

borderline del ricorrente, alla esatta interpretazione dei principi fissati dalla

giurisprudenza di questa Corte e alla coerenza delle ragioni della decisione

rispetto alla storia e al vissuto del medesimo ricorrente e alle caratteristiche del

fatto, e tendono a impegnare questa Corte, esulando dai limiti dei sindacato di

legittimità, in una revisione delle logiche e corrette valutazioni effettuate e delle

conclusioni raggiunte dagli stessi Giudici.

2.4. Né il ricorrente, che si duole della omessa motivazione in ordine alla

consulenza di parte, considera, mentre non tiene conto dell’apprezzamento della

Corte del gravame circa l’inidoneità della consulenza di parte a giustificare un

diverso giudizio quanto alla struttura della sua personalità (già sinterizzato sub 4

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del 12/07/2004, dep. 11/08/2004, Spapperi, Rv. 229279; Sez. 1, n. 25183 del

del “ritenuto in fatto”), che, alla luce del già richiamato principio di diritto, non è

configurabile vizio di motivazione quando il giudice ritenga di aderire alle

conclusioni del perito di ufficio, ritenute affidabili e complete, in difformità da

quelle, non condivise e quindi disattese, del consulente di parte, la cui erroneità

non deve autonomamente dimostrare, salvo che queste, oggetto di specifica

deduzione, nella specie mancante, siano tali da dimostrare in modo inconfutabile

ed evidente l’erroneità e inattendibilità delle conclusioni peritali.

2.5. Tali considerazioni sorreggono anche il giudizio di infondatezza della

doveva invece essere disposta alla luce degli opposti rilievi tecnici, dovendo

riaffermarsi che l’attività di apprezzamento del contenuto delle prove, anche

tecniche, acquisite, è riservata in via esclusiva al giudice del merito, che non è

tenuto, alla luce del già richiamato orientamento, a fornire un’autonoma

dimostrazione dell’esattezza scientifica delle conclusioni cui è pervenuto il perito

ma solo di valutarle, non ignorando le argomentazioni pertinenti sul punto del

consulente di parte, come ampiamente operato nella specie dalla Corte di

merito.

Destituito di fondamento è anche il secondo motivo che censura il rigetto

della richiesta escussione testimoniale del curatore.

3.1. La motivazione della Corte di merito che ha giustificato il diniego della

richiesta è, invero, congrua e logicamente coordinata con le emergenze acquisite

e disponibili, essendosi plausibilmente rilevato, con congruente giudizio

incensurabile in questa sede, che, avendo il Curatore già reso dichiarazioni sul

suo operato, oggetto di specifica sintesi, la sua riaudizione era priva di alcuna

utilità; né rilevava la sua escussione con riguardo ai quesiti ulterieri posti dalla

difesa con la richiesta depositata nel giudizio di rinvio, auto riguardo alla già

intervenuta precisazione da parte del Curatore della sua conoscenza solo

nominale dell’imputato per mezzo delle indicazioni ricevute dall’amministratore di

diritto Tippi e della sua attività essenzialmente volta al recupero dei crediti della

società; né era necessaria la conferma da parte del Curatore di atti provenienti

da lui stesso ovvero dei bonifici relativi alle paghe degli operari, non essendo

stati gli uni e gli altri oggetto di contestazione.

3.2. Tale giudizio di irrilevanza della richiesta e di concludenza degli

elementi probatori disponibili resiste ai rilievi difensivi, che, mentre introducono,

sotto l’aspetto della contestazione della congruenza e completezza delle

valutazioni, deduzioni e osservazioni non correlate con le risposte già ricevute ad

analoghe deduzioni già sostenute e discusse dinanzi alla Cone di appello,

neppure tengono conto della specifica disamina svolta dalla stessa Corte,

secondo linee logiche concordanti con la sentenza di primo grado, delle

11

contestata omessa rinnovazione della istruzione, che, secondo il ricorrente,

emergenze istruttorie -e in particolare degli accertamenti bancari e contabili,

condotti dalla Guardia di finanza, di cui alla documentazione richiamata in

sentenza e alle dichiarazioni rese in udienza dai finanzieri, pertinenti agli incassi

dall’attività di prevenzione e antincendio, alle somme distratte dall’imputato

ricorrente e dal coimputato Tippi per gli anni 1993/1995, all’entità dell’IVA evasa

in rapporto agli imponibili ricostruiti per i detti anni, alle omesse dichiarazioni

fiscali e all’omesso versamento dei contributi previdenziali-, valorizzate in

sentenza come dimostrative dei fatti distrattivi, che il ricorrente, invece, assume

Il terzo motivo riguarda la denunciata carenza di prova dez.. . sussistenza

dell’aggravante di cui all’art. 219, comma 1, legge fall.

4.1. Questa Corte, annullando la sentenza del 27 settembre 2011 della

Corte di appello, che aveva ritenuto non suscettibile di valutazione, ai fini della

intervenuta e dichiarata prescrizione del reato di bancarotta fraudolenta, perché

non formalmente contestata, l’aggravante a effetto speciale del danno di

rilevante gravità, prevista dall’indicato art. 219, comma 1, legge fall., ha

riaffermato il principio di diritto alla cui stregua, ove siano contestati in fatto gli

elementi che la rendano oggettivamente configurabile, la circostanza aggravante

può essere ritenuta sussistente anche in mancanza di formale richiamo, nella

relativa imputazione, alla norma che la prevede, demandando al giudice di rinvio

di procedere a nuovo esame circa la sua sussistenza o meno in concreto.

4.2. Si rileva in diritto che, secondo principi di diritto fissati dalla

giurisprudenza assolutamente prevalente di questa Corte, in tema di reati

fallimentari e ai fini dell’applicazione delle circostanze di cui all’art. 219 legge

fall., l’entità obiettiva del danno provocato dai fatti configuranti bancarotta

patrimoniale va commisurata al valore complessivo dei beni che sono stati

sottratti all’esecuzione concorsuale, piuttosto che al pregiudizio offerto da

ciascun partecipante al piano di riparto dell’attivo, e indipendentemente dalla

relazione all’importo globale del passivo o alla differenza tra attivo e passivo e

dalla intera e dettagliata ricostruzione della entità dell’attivo e delle distrazioni

operate (tra le altre, Sez. 1, n. 12087 del 10/10/2000, dep. 23/11/2000, Di

Muni, Rv. 217403; Sez. 5, n. 15590 del 12/03/2004, dep. 02/04/2004, Dossena,

Rv. 227631; Sez. 5, n. 5300 del 16/01/2008, dep. 01/02/2008, De Biase, Rv.

239118; Sez. 5, n. 49642 del 02/10/2009, dep. 28/12/2009, Olivieri, Rv.

245822; Sez. 5, n. 13285 del 18/01/2013, dep. 21/03/2013, Pastorello, Rv.

255063).

4.3. La Corte di appello, procedendo all’esame richiesto con la sentenza

rescindente, e facendo esatta interpretazione e applicazione degli indicati

condivisi principi, ha ritenuto la sussistenza della indicata aggravante per avere

12

che, indimostrati, dovevano formare oggetto della escussione del curatore.

l’entità delle distrazioni attinto con rilevante gravità i diritti della massa dei

creditori.

Richiamati, in fatto, gli accertamenti svolti dalla Guardia di finanza, dei quali

si è dato conto anche sub 3.2., la Corte ha rappresentato l’entità, superiore al

miliardo di lire, dell’IVA evasa e non versata, in rapporto agli imponibili s’i come

ricostruiti per gli anni 1993/1995, le ingenti somme sottratte all’Erario n

dipendenza dell’omessa presentazione delle dichiarazioni ai fini delle imposte

dirette e dei sostituti d’imposta per gli stessi anni, e l’importo, del pari

all’INPS.

Tali evidenze sono state, quindi, apprezzate come dimostrative della

particolare gravità del danno prodotto ai creditori collettivamente considerati,

correttamente rimarcandosi in diritto che, contrariamente all’assunto difensivo,

la valutazione del danno andava effettuata non con riferimento all’entità dello

stato passivo della procedura fallimentare, limitato ai creditori concorsuali, ma

con riguardo alla perdita patrimoniale cagionata ai creditori dai fatti di

bancarotta, costituendo questi fatti e non il fallimento l’illecito penale, e

ragionevolmente sottolineandosi -in distonia con gli incongrui dati dell’attivo e

del passivo fallimentare, e avendo riguardo al movimento consistente degli affari

della società fallita, leader all’epoca dei fatti nel settore di competenza,

ricostruito dai finanzieri, e all’entità del fatturato, tratto dai contratti stipulati con

i centri commerciali- l’accertata rilevante e ingiustificata locupletazione di somme

dovute all’Erario e a istituti finanziari e previdenziali, “cui erano funzionali le

condotte di irregolare tenuta e distruzione della contabilità dolosamente

preordinate a coprire, mediante l’impossibilità di ricostruzione del consistente

movimento degli affari, le condotte distrattive”.

4.4. Non sussiste in tale contesto il vizio della violazione di legge, avendo la

Corte interpretato le norme applicate, alla luce di condivisi principi di diritto, cui

il ricorrente contrappone l’interpretazione seguita dalla giurisprudenza di giudici

di merito, la cui diversità rispetto agli indicati principi è, peraltro, solo affermata;

né ricorre alcun vizio della motivazione, avendo la Corte dato conto

adeguatamente -come illustrato sub. 4.3.- delle ragioni della propria decisione,

sorretta da motivazione né apodittica, né manifestamente illogica e, pertanto,

sottratta a sindacato di legittimità, mentre le deduzioni e le doglianze espresse,

oltre che aspecifiche nella omessa correlazione con le ragioni sottese ai passi

argomentativi censurati, si sviluppano come doglianze di merito, non consentite

per legge con il ricorso per cassazione.

5. Sono prive di alcuna fondatezza le censure, svolte con il quarto motivo,

che riguardano, sotto il profilo del vizio di motivazione, la contestata conferma

13

miliardario, corrispondente ai contributi attinenti allo stesso periodo, non versati

della sentenza di primo grado sul punto relativo alla qualità del ricorrente quale

coamministratore di fatto della società fallita.

5.1. La Corte, che ha richiamato la sentenza di primo grado -che aveva

illustrato i principi pertinenti alla nozione di amministratore di fatto, espressi sul

piano dogmatico e normativo e dalla giurisprudenza di questa Corte, e li aveva

applicati al caso di specie, dando diffuso conto degli esiti della istruttoria

dibattimentale e delle circostanze ritenute paradigmatiche della gestione da

coannministratore del ricorrente-, ha evidenziato, in replica alle contrarie

ragionamento inferenziale, gli elementi che fondavano il condiviso rilievo del

determinante contributo prestato dall’imputato alla gestione societaria, e in

particolare nella sfera amministrativa, contabile e organizzativa

dei rapporti di

lavoro, nell’ambito della suddivisione di ruoli e compiti societari con

l’amministratore di diritto e di fatto Tippi Furio.

A tal fine la Corte (sì come sintetizzato sub 4.2. del “ritenuto in fatto”) ha

ricostruito i dati di fatto risultanti dalle emergenze processuali e, apprezzando il

significato e il valore delle relative fonti di prova, ha ragionevolmente rimarcato i

contenuti degli accordi economici e gestionali tra l’imputato e il Tippi, gli

accorgimenti adottati per separare le gestioni della società fallita e quella della

Tecnocoop (della quale erano formalmente soci-lavoratori i dipendenti effettivi

della prima) e la gestione dei ricavi da quella dei pagamenti dei dipendenti,

l’ampia autonomia gestionale dell’imputato nel settore di sua competenza in

pieno accordo con il Tippi senza vincoli di dipendenza gerarchica o di direttive da

parte di quest’ultimo, i rapporti economici tra i due attestati dal “libro giallo” poi

sequestrato, le concordate omissioni delle dichiarazioni fiscali e dei versamenti di

somme per imposte, tasse e contributi; ha, inoltre, logicamente ritenuto

significativa la distruzione della documentazione contabile, presa in consegna

dall’imputato all’atto del suo subentro di fatto nella compagine .›ociale, e la

chiusura da parte del medesimo, poco prima dell’inizio dell’indagine, di tutti i

conti, pure oggetto di analisi, e ha ulteriormente sottolineato l’imputazione non

al solo imputato, subentrato in società nel 1993, e quindi anche allo stesso oltre

che al Tippi, della distrazione delle ingenti somme per mancati versamenti

all’Erario per IVA e imposte e all’INPS per mancato versamento di contributi

assicurativi.

5.2. A fronte di detta motivazione, priva di carenze logico-giuridiche,

esaustiva nella ricostruzione e valutazione dei dati di fatto e nella individuazione

delle ragioni rispetto alle quali la conclusione adottata si presenta

consequenziale, il ricorrente svolge, nella sostanza, ragioni che costituiscono una

critica del logico e argomentato apprezzamento dei fatti e degli elementi di

14

asserzioni e alle produzioni documentali della difesa e con articolato

prova, condotto -per la formazione del suo convincimento- dalla Corte d, merito

entro i confini della plausibile opinabilità di apprezzamento e valutazione.

Tali prospettazioni difensive, che vorrebbero estrapolati dal contesto, in cui

sono inseriti, singoli enunciati dati o elementi, in contrato con la regola di

giudizio che ne impone il confronto con il complesso quadro probatorio e la

verifica complessiva della valenza dimostrativa, sono, peraltro, ai limiti

dell’ammissibilità in quanto tendenzialmente volte, nel diffuso dissenso di merito

che esprimono, a impegnare questa Corte in una non consentita diversa lettura e

complessiva, resiste al proposto loro ridimensionamento sul piano soggettivo ed

oggettivo.

6. Privo di giuridico pregio è il quinto motivo, che attiene alla dedotta

preclusione all’attribuzione al ricorrente di una fattispecie oggettiva, più grave e

diversa, con conseguente diverso trattamento sanzionatorio, rispetto a quella per

la quale il correo Tippi, sulla base dell’identico capo d’imputazione contestato in

concorso, ha patteggiato la pena e la cui relativa sentenza del 5 ottobre 2010,

allegata al ricorso, è divenuta irrevocabile.

6.1. E invero -mentre non può comunque trovare accoglimento la richiesta

di applicazione dell’istituto processale dell’estensione dell’impugnazione in favore

del coimputato non impugnante (o l’impugnazione del quale sia stata dichiarata

inammissibile), di cui all’art. 587 cod. proc. pen., il cui fondamento e i cui effetti

(Sez. U, n. 9 del 24/3/1995, dep. 23/6/1995, Cacciapuoti, Rv. 201304, e, tra le

successive, Sez. 5, n. 15446 del 17/02/2004, dea. 01/04/2004, Koshi, Rv.

228758; Sez. 1, n. 52972 del 07/10/2014, dep. 19/12/2014, Roman, Rv.

261698) sono infondatamente prospettati come applicabili alla ipotesi in esame

per giustificare l’estensione della efficacia preclusiva della sentenza definitiva di

patteggìamento, quanto alla immutabilità del fatto contestato, al ricorrente di

questo distinto procedimento- è assorbente il rilievo preliminare che la verifica

della sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 219, comma 1, legae fall. è stata

richiesta al giudice del rinvio con la sentenza di annullamento.

Detta sentenza, peraltro successiva alla definitività della indicata sentenza di

patteggiamento, ha anche fissato il principio di diritto, alla cui stregua il giudice

di appello, ai sensi dell’art. 597, comma 3, cod. proc. pen., può “dare al

medesimo fatto, già compiutamente contestato all’imputato e sul quale, quindi,

questi aveva avuto la possibilità di difesa, una più grave qualificazione giuridica,

quale appunto derivante dalla ritenuta sussistenza dell’aggravante del danno di

rilevante gravità, ferma restando, naturalmente, la esclusione di qualsivoglia

aggravamento del trattamento sanzionatorio ma con salvezza, quanto al resto, di

15

reinterpretazione delle evidenze disponibili, la cui operata analisi, articolata e

ogni altro effetto giuridico quale, in particolare, il prolungamento dei termini di

prescrizione”.

6.2. Non vi è, quindi, spazio per ulteriori riflessioni sulla questlone posta dal

ricorrente, poiché la sentenza impugnata ha proceduto nei limiti del devoluto e,

ritenuta sussistente anche l’indicata aggravante, ha confermato la sentenza di

primo grado e, pertanto, l’inflitto trattamento sanzionatorio, né sussistendo

contestazioni al riguardo.

condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese

processuali.

Così deciso in Roma, il 14 maggio 2015

Il Consigliere estensore

Al rigetto del ricorso, alla luce delle svolte considerazioni, segue la

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