Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 15934 del 28/11/2012


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 15934 Anno 2013
Presidente: BARDOVAGNI PAOLO
Relatore: ROCCHI GIACOMO

Data Udienza: 28/11/2012

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
1) CANDURRO VINCENZO N. IL 19/04/1952
2) PALMIERI GENNARO N. IL 03/10/1948
3) DE MARINO CIRO N. IL 08/08/1980
4) MIRANTE MARIANO N. IL 08/05/1978
5) BATTISTA GIUSEPPINA N. IL 29/07/1953
6) MISSI GIUSEPPE N. IL 06/07/1947
avverso la sentenza n. 105/2009 CORTE ASSISE APPELLO di
NAPOLI, del 10/12/2010
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 28/11/2012 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. GIACOMO ROCCHI
Udito il Procuratore Ggnerale in persona t Dott. IV..”\f) 1F-17-4Th
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RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 3/4/2012, la Corte d’assise di appello di Napoli,
pronunciando sull’appello proposto avverso la sentenza del Giudice dell’udienza
preliminare di Napoli, in parziale riforma della sentenza impugnata, per quanto
qui rileva, assolveva Palmieri Gennaro, Battista Giuseppina e Missi Giuseppe da
una delle imputazioni loro mosse, concedeva a Palmieri Gennaro e De Marino
Ciro le attenuanti generiche ritenute equivalenti alle aggravanti sussistenti e

Marino Ciro, Battista Giuseppina e Missi Giuseppe, revocando la misura della
libertà vigilata nei confronti di Mirante Mariano; confermava nel resto
l’impugnata sentenza.
Le imputazioni mosse nel presente processo e per le quali è stata
confermata la condanna hanno ad oggetto la partecipazione ad un’associazione
per delinquere di stampo camorristico armata promossa da Missi Giuseppe,
denominato “gruppo Misso” (imputati Candurro, Palmieri, De Marino e Mirante,
capo a dell’imputazione): per detta imputazione diversi soggetti sono già stati
condannati in via definitiva o vengono processati separatamente; Missi Giuseppe
è stato condannato quale promotore ed organizzatore.
L’imputazione, quanto all’epoca del delitto contestato, recita: “associazione
storicamente operante in Napoli sin dall’inizio degli anni ’80 e poi in epoca
successiva, in particolare dall’aprile 1999, con condotte di direzione e
partecipazione al sodalizio ulteriormente accertate nel 2007 e in ogni caso
perduranti”.
Viene altresì contestato il delitto di fittizia intestazione di beni di cui all’art.
12 quinquies d.l. 306/92, per avere Missi fittiziamente intestato un immobile a
Palmieri ed altri (imputati Missi e Palmieri); il medesimo delitto viene contestato
per la fittizia intestazione a Battista Giuseppina di un’impresa denominata
“Garage Cavour” da parte di Missi e Candurro (imputati Missi, Candurro e
Battista).
Ancora, Mirante Mariano è stato condannato per la partecipazione ad una
diversa associazione di stampo mafioso armata che si contrapponeva al clan
Misso, diretta ed organizzata da Torino Salvatore (capo I), per l’omicidio di
Prestigiacomo Vincenzo (capo n) e per la detenzione e porto delle armi (capo o).

I ricorrenti Missi Giuseppe, Mirante Mariano e De Marino Ciro, collaboratori
di giustizia, non avanzano contestazioni sul merito delle imputazioni. De Marino
Ciro aveva esplicitamente rinunciato ai motivi di appello, salvo quelli relativi alla
concessione delle attenuanti generiche e alla riduzione della pena.

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rideterminava le pene nei confronti di Candurro Vincenzo, Palmieri Gennaro, De

1.1. Con riferimento all’esistenza dell’associazione per delinquere di stampo
camorristico “clan Misso”, la Corte richiama precedenti sentenze che ne indicano
la nascita come gruppo autonomo negli anni ’80 del secolo scorso; dopo essere
entrato nell’orbita della Nuova Famiglia e avere avuto motivi di contrasto con il
clan Giuliano, il clan era stato coinvolto in un violento conflitto con i gruppi
camorristici dell’Alleanza di Secondigliano, nel corso del quale era stata uccisa
anche la moglie di Missi, Assunta Sarno.
Giuseppe Missi era rimasto detenuto dal 1985 al 1999, ma l’attività del clan

1.2. Nel trattare la posizione di Candurro Vincenzo, la Corte riportava le
dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Misso Giuseppe, Misso Emiliano Zapata,
Mazza Michelangelo, Frenna Maurizio, Gatto Pasquale, Spinosa Gennaro, Mirante
Mariano, Galeota Gennaro e Missi Giuseppe, che riferivano di conoscenza intima
tra il capo clan e Candurro fin dagli anni ’80 e di varie attività economiche lecite
e illecite poste in essere; le riteneva concordi e sosteneva l’irrilevanza della
circostanza, evidenziata dalla difesa, che il Candurro non fosse mai stato
controllato in compagnia di soggetti indicati nel capo di imputazione nonché di
quella che le conversazioni telefoniche intercettate non contenessero riferimenti
ad attività illegali, alla luce dello specifico ruolo svolto dall’imputato, addetto
all’investimento dei proventi illeciti del gruppo ed, in particolare, del denaro di
Missi in attività economiche, ruolo che lo induceva ad una particolare cautela.
Le intercettazioni telefoniche, comunque, dimostravano un’intensa
frequentazione di Candurro con Missi, la moglie e poi la compagna; in una
conversazione Palmieri Gennaro si riferiva a Candurro per il denaro versato alla
compagna di Missi.
Riscontri alle attività illecite riferite dai collaboratori provenivano dalla
condanna del 1991 per associazione per delinquere e violazione dell’ordinamento
del gioco del lotto e dal sequestro di una grande quantità di marche da bollo
contraffatte. Era stato rinvenuto un riscontro oggettivo dell’esportazione del
denaro in Svizzera da parte di Missi (realizzato con l’aiuto di altre persone),
mentre Candurro era sicuramente la persona adatta a recuperarlo, intrattenendo
rapporti con banche estere.
Gli accertamenti patrimoniali avevano dimostrato la disponibilità di un
grande patrimonio immobiliare, nonostante il reddito modestissimo denunciato,
nonché rapporti bancari con altri due associati, Palmieri e Molignano. La Corte
negava che, come prospettato dalla difesa, dalle precedenti sentenze emesse
dalla Corte d’appello di Napoli potesse evincersi la provenienza lecita del denaro.
Tali elementi conducevano la Corte a ritenere provato lo stabile inserimento

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era proseguita; alla sua scarcerazione Missi aveva ripreso il suo ruolo.

dell’imputato nel sodalizio criminoso facente capo a Missi Giuseppe, per il quale
Candurro aveva svolto, nel corso degli anni, disparate attività e, quale persona di
fiducia del capo, era stato implicato nella realizzazione di importanti affari
economici come quello del garage di Piazza Cavour.

1.3. La Corte respingeva l’istanza di revoca del provvedimento di confisca ex
art. 12 sexies d.l. 306 del 1992 avanzato dall’imputato: la valutazione globale
del materiale probatorio consentiva di ritenere provata la esistenza di una

proventi della loro attività economica e il valore dei beni posseduti, concordando
con il giudice di primo grado che i dati desumibili dalla relazione del consulente
della difesa non erano idonei a dimostrare l’origine lecita delle risorse
economiche adoperate per gli investimenti ed i primi acquisti di beni: negli anni
’80 il Candurro esercitava con il fratello una ditta individuale di parrucchiere, ma
nel periodo 1997 – 2001 aveva movimentato titoli azionari per oltre otto miliardi
di lire.
Ai fini dell’applicazione della confisca prevista dalla predetta norma, non vi
era necessità di collegamento tra i beni confiscati e il reato presupposto, tanto
che i beni potevano essere acquistati anche in epoca precedente al fatto-reato.
In mancanza di prova di capacità reddituali di Candurro o della moglie tali
da consentire la titolarità dei beni colpiti dalla misura patrimoniale e a fronte di
una vistosa sproporzione tra il valore dei beni posseduti e il reddito dichiarato o
l’attività svolta, la Corte riteneva adeguatamente dimostrata l’illecita provenienza
dei beni: quindi la richiesta di revoca non poteva essere accolta, nemmeno in
relazione all’immobile di Via Foria, asseritamente acquistato con il denaro
ricavato dalla vendita dell’appartamento ubicato in Via Nicolini, acquisito al
patrimonio del Candurro nel 1991.

1.4. Quanto a Palmieri Gennaro, il principale elemento di accusa per il
delitto di partecipazione all’associazione per delinquere era rappresentato dalle
dichiarazioni di numerosi collaboratori di giustizia, appartenenti sia al clan Misso
che ai gruppi Giuliano e Mazzarella: i collaboratori avevano riferito che Palmieri
era legato al Missi e avevano illustrato i suoi rapporti con esponenti del sodalizio
criminale operante nel rione Sanità. La Corte riassumeva le dichiarazioni di
Giuliano Salvatore, Lauro Gennaro, Saltalamacchia Nunzio, Misso Giuseppe,
Misso Emiliano Zapata, Mazza Michelangelo, Gatto Pasquale, Amatrudi Pasquale
e Missi Giuseppe.
Quest’ultimo aveva riferito di avere esportato in Svizzera denaro con l’aiuto
del Palmieri e, dopo la scarcerazione nel 1999, di avergli affidato duecento

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notevole sproporzione tra il reddito dichiarato dall’imputato e dalla moglie o i

milioni di lire in cambio di una rendita mensile di sei milioni di lire, nonché di
avere investito 150 milioni di lire nell’acquisto di una pensione, affare concluso in
società con Palmieri, Molignano e Perrella.
Le altre risultanze dimostravano il legame tra Palmieri e Missi fin dagli anni
’80, quando entrambi erano stati indagati per la partecipazione ad una
associazione sovversiva di estrema destra; alcuni controlli avevano dimostrato il
rapporto stretto tra i due, così come le intercettazioni telefoniche svolte nel
2003. La tesi difensiva secondo cui Palmieri era semplicemente vessato da Missi

la scarcerazione di questi nel 1999, Palmieri aveva ripreso i contatti e aveva
mantenuto i rapporti con lui ed altri associati. Come Molignano, anche Palmieri
aveva intrattenuto rapporti bancari con Candurro Vincenzo.

1.5. Come si è detto, gli imputati De Marino e Mirante non contestano nel
merito l’imputazione di partecipazione al clan Misso e il Mirante, nemmeno quella
relativa alla partecipazione ad altro clan e ad un omicidio da lui commesso: ciò
esime dalla relazione relativa a questi punti.
Con riferimento a De Marino, la Corte dà atto della rinuncia ai motivi di
appello diversi da quelli concernenti la concessione delle attenuanti generiche e
la riduzione della pena, osservando che tale rinuncia preclude il riesame della
parte concernente l’affermazione di responsabilità.

1.6. Quanto ai due delitti di fittizia intestazione di beni, di cui all’art. 12
quinquies d.l. 306 del 1992, il primo (capo f) è contestato a Missi Giuseppe,
Candurro Vincenzo e Battista Giuseppina (moglie di Candurro) – nonché,
originariamente a Circolo Maurizio – e riguarda le quote della società che
gestisce il Garage Cavour di Napoli.
Il Giudice di primo grado aveva escluso, quanto a Battista Giuseppina,
l’aggravante di cui all’art. 7 legge 203 del 1991, ritenendo che la fittizia
intestazione delle quote fosse stata posta in essere al solo fine di eludere le
disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione patrimoniale; la
Battista, per lo stesso episodio, veniva assolta dalla Corte territoriale
dall’imputazione di cui all’art. 648 ter cod. pen., basata sull’impiego nella società
di denaro di provenienza delittuosa del clan Misso.
Il Giudice di primo grado, d’altro canto, aveva già assolto dai medesimi reati
Circolo Maurizio, proprietario del SO% delle quote della società, ritenendolo
effettivo e legittimo proprietario. Il reato oggi contestato a Candurro e Battista,
quindi, riguarda solo l’altro 50%, conformemente alle dichiarazioni di Missi
Giuseppe e di altri collaboratori di giustizia.

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era smentita dalle risultanze acquisite, in particolare dalla circostanza che, dopo

Con riferimento a tale imputazione, gli elementi a carico della Battista erano
costituiti dalle dichiarazioni di Mazza Michelangelo, Missi Giuseppe e Mirante
Mariano. Giuseppe Missi aveva riferito che, dopo la scarcerazione aveva
recuperato, tramite Candurro Vincenzo, soldi illegalmente esportati in Svizzera
negli anni ’80, e li aveva reinvestiti per rilevare il 25% della società (versando
lire 150.000.000 a Candurro), mentre Candurro aveva acquisito l’altro 25%.
L’esportazione di valuta all’estero era stata accertata giudizialmente ed ammessa
da Palmieri Gennaro. Mazza e Mirante confermavano che Missi e Candurro erano

che Candurro e la moglie Battista Giuseppina frequentavano assiduamente Missi,
la moglie e poi la nuova compagna; in una conversazione, quest’ultima aveva
riferito alla Battista di avere ricevuto la richiesta di Mazza (nipote del capo clan,
Missi Giuseppe) di chiederle un aiuto economico per sostenere le spese
dell’avvocato.
La società era stata costituita il 10/11/2003: le intercettazioni dimostravano
che Candurro era l’effettivo proprietario del garage intestato alla moglie. La
Battista aveva dichiarato redditi irrisori e non era stata in grado di fornire alcuna
giustificazione circa la provenienza del denaro utilizzato per l’acquisto delle
quote: ella era, quindi, responsabile del delitto di cui all’art. 12 quinquies d.l.
306 del 1992 contestato, avendo accettato di fare da prestanome a Missi e al
marito al fine di eludere la possibile confisca alloro danni; Missi, infatti, che ella
frequentava, era già sottoposto a misure di prevenzione, mentre Candurro era
gravato da precedenti penali ed a conoscenza delle indagini in corso sul clan
Misso.
Secondo la Corte, l’elemento soggettivo sarebbe stato configurabile anche
se l’imputata avesse accettato l’intestazione fittizia del bene al solo fine di
preservare il coniuge da eventuali iniziative giudiziarie.

1.7. Con riferimento alla fittizia intestazione a Palmieri Gennaro (oltre che a
Molignano e a Prisco) di un immobile adibito ad albergo (Albergo Bassani) sito in
Napoli (capo d), secondo l’imputazione Missi Giuseppe aveva attribuito la formale
proprietà al momento dell’acquisto (3/1/2003) altre soggetti, tra cui Palmieri;
l’albergo era stato gestito da tale Perrella; successivamente, il 24/3/2006,
Palmieri e gli altri avevano venduto fittiziamente le quote ad una società
anonima con sede in Lugano che era nella disponibilità del clan Misso, come
dimostrava la circostanza che lo stesso Perrella lo aveva preso in locazione dalla
medesima società al canone annuo di 36.000 euro per adibirlo a struttura per
sublocazioni temporanee.
La Corte territoriale indicava come elementi di prova del reato le

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soci del 50% del garage. Inoltre le conversazioni telefoniche avevano dimostrato

dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Mazza Michelangelo, Misso Emiliano
Zapata, Galeota Gennaro, Mirante Mariano, Spinosa Gennaro e Missi Giuseppe.
Secondo quest’ultimo egli, dopo la scarcerazione del 1999 e il recupero del
denaro dalla Svizzera, aveva investito una quota di 150.000.000 di lire nella
pensione, concludendo l’affare in società con Molignano Salvatore, Palmieri
Gennaro e Perrella Giuseppe; a seguito del nuovo arresto (2003), aveva
gradualmente perso il controllo di quel denaro e non aveva più saputo niente
della pensione. A proporre l’acquisto era stato Gennaro Palmieri e come venditori
una Congregazione religiosa).
Alla luce del reddito dichiarato da Palmieri e dalla moglie (importo massimo,
nel 2002: euro 1.970,00), non risultava assolutamente giustificata la
provenienza del denaro utilizzato per l’acquisto, il cui valore risultava
sproporzionato alle possibilità economiche degli acquirenti (anche di Molignano e
di Prisco), né la regolarità formale dell’atto di acquisto permetteva di escludere il
reato contestato.
Gli accertamenti concernenti la vendita dell’immobile alla società svizzera e
le dichiarazioni del suo legale rappresentante e della moglie di Molignano
dimostravano che quella vendita, compiuta in un periodo in cui Missi e Molignano
erano detenuti ed erano già note le indagini in corso sui clan camorristici del
quartiere Sanità, era sicuramente simulata: non a caso la gestione era rimasta
del Perrella e, quindi, i proprietari continuavano ad averne la gestione.
In definitiva, secondo la Corte, l’immobile, di proprietà anche di Missi
Giuseppe, era un investimento dell’organizzazione camorristica.
2. Ricorre per cassazione Candurro Vincenzo personalmente, deducendo la
violazione dell’art. 606, comma 1, lett. c) cod. proc. pen. con riferimento all’art.
71 cod. pen..
Propone ricorso per cassazione il difensore di Candurro Vincenzo, articolando
distinti motivi.
In un primo motivo si deduce, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e)
cod. proc. pen., la violazione dell’artt. 416 bis cod. pen. L’imputazione è
contraddittoria, perché indica l’associazione per delinquere di stampo
camorristico come operante in Napoli sin dall’inizio degli anni ’80 e come unico
promotore ed organizzatore Missi Giuseppe a partire dall’aprile 1999 (periodo
della sua scarcerazione): ciò comporta che l’associazione preesistente a tale
epoca fosse cosa diversa dal “clan Misso” e che, quindi, le condotte contestate al
Candurro precedenti all’aprile 1999 dovessero ritenersi estranee all’imputazione

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erano intervenuti dei sacerdoti di Roma (l’immobile era, infatti, di proprietà di

di cui all’art. 416 bis cod. pen.. L’unica sentenza irrevocabile indicava, appunto,
l’associazione come operante dall’aprile 1999.
La sentenza impugnata erroneamente richiamava la massima di esperienza
secondo cui il capo detenuto può continuare a controllare il clan anche dallo stato
di detenzione; in questo caso tale massima si infrangeva contro due sentenze
irrevocabili: quella già menzionata, che indicava come l’epoca di promozione del
clan Misso da parte di Missi Giuseppe era avvenuto nell’aprile 1999, e quella
della Corte d’appello di Napoli del 22/10/1988 che aveva ritenuto Missi Giuseppe

imputazione di cui all’art. 416 bis cod. pen..

In un secondo motivo si deduce la violazione degli artt. 192 cod. proc. pen.
e 416 bis cod. pen. nonché l’illogicità della motivazione, ai sensi dell’art. 606,
comma 1, lett. b), c) ed e) cod proc. pen..
Le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia non erano convergenti sui temi
probatori utili alla dimostrazione della sussistenza

dell’affectio

societatis,

convergendo unicamente sulla vicinanza di Candurro a Missi Giuseppe. L’atto di
appello aveva evidenziato l’inattendibilità di alcuni collaboratori di giustizia, il
contrasto tra le loro dichiarazioni, la genericità delle affermazioni di alcuni e
l’estraneità al clan Misso di altri, chiedendo una rivalutazione da parte del
Giudice di appello. Tale rivalutazione era stata meramente apparente e i motivi
di appello erano stati sostanzialmente ignorati: cosicché la sentenza impugnata
difettava totalmente di un giudizio compiuto che, escludendo la rilevanza delle
incongruenze rilevate dalla difesa, motivasse sulla avvenuta dimostrazione
dell’affectio societatis. La Corte non aveva cercato la convergenza del molteplice,

ma si era limitata ad effettuare la sommatoria delle varie dichiarazioni; né la
prova del mero legame sussistente tra Missi Giuseppe e Candurro era sufficiente
ad affermare la responsabilità per il reato contestato.
In effetti, la valutazione atomistica della prova non aveva permesso di
comprendere la totale autonomia tra gli affari del ricorrente,

leciti, come

dimostrava l’assoluzione dal reato di riciclaggio, e quelli facenti capo al clan
Misso. I dati che indicavano tale autonomia, e quindi escludevano la
partecipazione di Candurro al clan camorristico, erano stati svalutati
singolarmente con argomentazioni apodittiche e congetturali.
La sentenza, poi, aveva omesso di spiegare perché la condotta contestata e
ritenuta non potesse essere qualificata ai sensi dell’art. 378 cod. pen., piuttosto
che come concorso esterno nel reato associativo.

Con un terzo motivo si deduce la mancanza di motivazione e la violazione

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responsabile di semplice associazione per delinquere, riqualificando l’originaria

del canone di giudizio della convergenza del molteplice, nonché la violazione
dell’art. 12 quinquies d.l. 306 del 1992 con riferimento all’intestazione fittizia del
Garage Cavour (capo F), ai sensi dell’art. 606, comma 1 lett. b) ed e) cod. proc.
pen.
Le argomentazioni della sentenza erano generiche, non contenevano alcun
riferimento alle emergenze probatorie in atti e non tenevano conto delle
doglianze difensive, né sottoponevano ad alcun vaglio critico le propalazioni – tra

Con un quarto motivo si deduce la contraddittorietà della motivazione della
sentenza impugnata con altre due sentenze emesse rispettivamente dalla Corte
d’appello di Napoli e dal G.I.P. Tribunale di Napoli: quelle sentenze avevano
affermato che il ricorrente aveva svolto un’attività di finanziamento lecita, stabile
e diffusiva, oltre ad altre attività finanziarie lecite e al commercio in nero di
schede telefoniche, ma la circostanza è negata dalla sentenza impugnata che,
quindi, è contraddittoria con riferimento al contenuto di quanto accertato in
quelle sedi.

Con un quinto motivo si deduce la violazione dell’art. 12 sexies d.l. 306 del
1992 e la mancanza di motivazione con riferimento alla disposta confisca.
La difesa aveva dimostrato la provenienza legittima dei beni confiscati dal
Giudice di primo grado, ma le deduzioni difensive non erano state analizzate dal
giudice di appello, che si era limitato a confermare la pronuncia appellata.
In particolare, quanto all’immobile sito in Via Farla, la consulenza ne aveva
dimostrato la provenienza lecita e altri provvedimenti giudiziari avevano escluso
che la genesi dell’acquisto fosse riferibile al compimento di attività illecite da
parte di Candurro. La sentenza taceva degli accertamenti della Guardia di
Finanza, che avevano dimostrato un’intensa attività imprenditoriale lecita
all’inizio degli anni ’80, e si era limitata a ritenere che i numerosi beni facenti
capo alla famiglia del ricorrente fossero un riscontro alle propalazioni dei
collaboratori di giustizia: ma un effettivo vaglio critico delle emergenze
probatorie avrebbe permesso di superare la presunzione di illiceità dei beni
intestati al ricorrente.

3. Ricorre per cassazione il difensore di Palmieri Gennaro, deducendo distinti
motivi.
In un primo motivo si deduce la erronea e contraddittoria applicazione
dell’art. 192 cod. proc. pen. ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e) cod.
proc. pen.. Le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia su Palmieri erano state

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loro contraddittorie – dei collaboratori di giustizia.

ritenute attendibili, univoche e convergenti, nonostante le macroscopiche
differenze tra di loro e la mancanza di riscontri obbiettivi. Del tutto
contraddittoria è la motivazione concernente le dichiarazioni de relato: i giudici
avevano ritenuto attendibili le informazioni rese da appartenenti al medesimo
gruppo criminale sulla base di notizie circolate nell’ambiente; ma ognuno dei
collaboratori attribuiva a Palmieri un ruolo completamente diverso: i
collaboratori, contraddicendosi l’uno con l’altro, risultavano inattendibili.

dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e) cod. proc. pen. in relazione all’art. 416 bis
cod. pen.. Si evidenzia la contraddittorietà esistente circa l’epoca della nascita
dell’associazione camorristica già riportata nel primo motivo di ricorso di
Candurro e si sostiene che non può contestarsi la partecipazione ad
un’associazione denominata clan Misso prima del 2000.
Quanto all’epoca precedente, nel 1985 Palmieri era stato prosciolto in
istruttoria, mai era stato arrestato per fatti di reato, come affermato dai
collaboratori di giustizia ma, piuttosto, era stato vessato da Missi, che lo aveva
costretto ad indebitarsi. Nessun riscontro oggettivo era stato rinvenuto.

In un terzo motivo si deduce violazione di legge e vizio della motivazione in
relazione all’art. 12 quinquies legge 356 del 1992 e all’art. 7 legge 203 del 1991,
con riferimento al reato contestato al capo d).
Palmieri aveva svolto, nell’acquisto dell’albergo Bassani, il ruolo di semplice
mediatore ed era stato compensato con una piccola quota di partecipazione. Le
doglianze difensive erano attendibili con riferimento alle dichiarazioni dei
collaboratori di giustizia, mentre le indagini di polizia giudiziaria non
rispecchiavano quanto dimostrato dalla difesa.

In un quarto motivo si deduce la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b)
ed e) cod. proc. pen. in relazione all’art. 12 sexies d.l. 306 del 1992.
La motivazione della sentenza sulla confisca dell’appartamento di Via Foria
intestato alla figlia del ricorrente era lacunosa e contraddittoria, atteso che dagli
atti risultava chiaramente il lecito acquisto del bene da parte di Palmieri e il
pagamento rateale del prezzo. La confisca disposta doveva, pertanto, essere
annullata.

4. Ricorre per cassazione il difensore di De Marino Ciro, deducendo distinti
motivi.
In un primo motivo si deduce la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b),

In un secondo motivo si chiede annullarsi la sentenza impugnata, ai sensi

c) ed e) cod. proc. pen. in relazione agli artt. 125, 129 e 546 cod. proc. pen. e
416 bis cod. pen..
A

seguito

dell’abolizione

del

cd.

patteggiamento

in

appello,

un’interpretazione costituzionalmente orientata della disciplina processuale fa
ritenere che il Giudice, anche in caso di rinuncia all’impugnazione, come nel caso
di specie, debba motivare adeguatamente sull’inesistenza di presupposti per il
proscioglimento dell’imputato ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen.. La sentenza

In un secondo motivo si denuncia la violazione dell’art. 606, comma 1, lett.
b) ed e) cod. proc. pen. in relazione agli artt. 62 bis e 133 cod. pen. per illogica
e contraddittoria motivazione in relazione alla mancata prevalenza delle
attenuanti generiche sulle aggravanti contestate e con riferimento alla mancata
indicazione dei criteri utilizzati nella determinazione in concreto della pena.
Numerosi erano gli elementi che permettevano il riconoscimento delle
attenuanti generiche: la rinuncia ai motivi di appello doveva indurre la Corte
territoriale a ritenerle prevalenti rispetto alle contestate aggravanti; né la
motivazione era adeguata nell’indicazione dei parametri sulla cui base
determinare la concreta entità della pena, tra l’altro particolarmente eccessiva.
Il ricorrente conclude per l’annullamento della sentenza impugnata.

5. Ricorre per cassazione il difensore di Mirante Mariano, deducendo, ai
sensi dell’art. 606, comma 1, lett.

e)

cod. proc. pen., la mancanza,

contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione con riferimento alla
statuizione in ordine alla determinazione della pena, lasciata invariata dalla Corte
d’assise di appello.
Il Mirante aveva contribuito in maniera assolutamente rilevante alle indagini
e le sue dichiarazioni erano state ritenute attendibili e riscontrate dalla polizia
giudiziaria: ma la Corte d’Assise di appello aveva negato le attenuanti generiche
al Mirante sulla considerazione del suo ruolo nel sodalizio criminoso; in questo
modo la Corte generava un trattamento pregiudiziale e diseguale tra gli imputati
in generale e gli imputati collaboratori di giustizia che, per loro natura,
necessariamente devono avere precedenti per il delitto di cui all’art. 416 bis cod.
pen.: la motivazione non era, quindi adeguata.
Il ricorrente conclude per l’annullamento dell’impugnata sentenza.

6. Ricorre per cassazione il difensore di Battista Giuseppina deducendo
distinti motivi.
In un primo motivo si deduce la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. e)

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impugnata non aveva svolto tale motivazione, dovendo così essere annullata.

cod. proc. pen. per contraddittorietà, manifesta illogicità e mancanza della
motivazione in ordine alla sussistenza dell’elemento psicologico del reato di cui
all’art. 12 quinguies d.l. 306/92.
La ricorrente era stata assolta dal reato di riciclaggio, mentre era stata
esclusa l’aggravante di cui all’art. 7 legge 203 del 1991 quanto al reato per il
quale era intervenuta condanna; inoltre il coimputato Circolo Maurizio era stato
assolto dalla Corte d’assise di appello, dovendosi quindi ritenere che il 50% delle
quote della società a lui intestate fosse di effettiva proprietà sua o di suo padre.
di legge in materia di misure di prevenzione patrimoniale. La Corte territoriale
aveva ritenuto che il SO% delle quote intestato alla Battista fosse, in realtà, per
metà facente capo a Missi Giuseppe e per metà a Candurro Vincenzo: ma la
motivazione sull’esistenza del dolo era contraddittoria, in quanto dava atto che
Candurro – e non la Battista – era a conoscenza delle indagini sul clan Misso.
La stessa Corte, d’altro canto, sembrava dar maggior credito all’ipotesi che
la Battista volesse rendere un servizio al marito, e non a Missi Giuseppe: ma
Candurro non aveva alcun motivo di temere iniziative giudiziarie, non avendo
precedenti per reati associativi di stampo mafioso ed essendo stato già prosciolto
dall’accusa di riciclaggio.
In un secondo motivo, si denuncia la violazione dell’art. 606, comma 1, lett.
e) cod. proc. pen. in relazione alla credibilità attribuita dalla sentenza alle
dichiarazioni dei collaboratori Missi, Mazza e Mirante, senza fornire alcuna
risposta agli specifici motivi di appello.
La difesa, nei motivi di appello, aveva dato prova certa di un accordo
intervenuto tra Missi e Mazza, ritenuti inattendibili per ciò dal Tribunale del
Riesame: di ciò la motivazione era del tutto carente. Il Mazza, poi, in un primo
momento non era nemmeno sicuro che la società proprietaria del Garage Cavour
fosse di proprietà della moglie del Candurro, di cui non sapeva nemmeno
indicare il nome; successivamente, invece, aveva espresso certezza e aveva
declinato le esatte generalità della Battista. Le dichiarazioni di Mirante, poi,
contraddicevano quelle di Missi sulla circostanza dell’essersi il primo occupato
dell’acquisto del garage, circostanza affermata da Mirante e negata da Missi.
In un terzo motivo si denuncia la violazione dell’art. 606, comma 1, tett. e)
cod. proc. pen. in relazione al punto dell’intestazione delle quote della Garage
Cavour s.a.s. di Circolo Maurizio, risultante dalla consulenza Galano nonché dagli
atti di indagine.
La Corte territoriale aveva erroneamente affermato che Battista Giuseppina

12

Il dolo specifico che permetteva la condanna era quello di eludere le disposizioni

avesse acquistato la quota del 50% della società, quando, al contrario, dagli atti
del processo si evinceva che, il 10/11/2003, ella aveva sottoscritta l’acquisto di
una quota pari al 25% della società, per un valore di euro 17.500, e che solo
dopo due anni, il 12/10/2005, aveva acquistato da Candurro Pina una ulteriore
quota del 25%, vendendo, poi, 17 mesi dopo, al padre di Candurro Pina un
immobile del valore di euro 35.000 di cui era proprietaria fin dal 1985: quindi,
per questo secondo acquisto, ella era stata in grado di dimostrare la provenienza
del denaro utilizzato per l’acquisto (risultando indifferente la sfasatura

travisato il fatto come emergeva dalla documentazione acquisita, con
conseguente necessità di annullare la sentenza impugnata o, in subordine, di
riconoscere la Battista legittima proprietaria di almeno il 25% delle quote
societarie.

In un quarto motivo la ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 606, comma 1,
lett. e) cod. proc. pen., la contraddittorietà della motivazione in relazione alla
valutazione operata sul colloquio telefonico n. 181, oggetto di specifico motivo di
appello.
La Corte territoriale, così come il Giudice di primo grado, aveva riportato
solo la prima parte della conversazione – quella in cui emergeva la richiesta di
aiuto economico di Mazza Antonio, nipote di Missi Giuseppe, alla Battista per
sostenere le spese legali – considerandola prova a carico dell’imputata,
omettendo di menzionare la risposta della donna, che, pure risultava trascritta:
che ella non conosceva Mazza Antonio e non sapeva cosa costui potesse volere
da lei; risposta di evidente valenza difensiva.

In un quinto motivo si deduce, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), la
mancanza di motivazione in ordine alla confisca di beni di proprietà
dell’imputata.
Mentre la confisca della quota societaria della società Garage Cavour
conseguiva alla condanna per il reato sub F, per la confisca degli altri beni la
Corte avrebbe dovuto accertare una sproporzione tra il valore dei beni economici
posseduti rispetto al reddito dichiarato o alle attività economiche dell’imputata;
la consulenza tecnica depositata dall’imputata dimostrava la disponibilità di
denaro e di immobili alla Battista in anni assai precedenti: ad esempio, ella
aveva venduto nel 1988 un immobile per lire 36.000.000, cifra corrispondente a
quella pagata per l’acquisto del box auto del valore di euro 18.120.000 oggetto
di confisca.
La obbligatorietà della confisca ex art. 12 sexies d.l. 306 del 1992 viene

13

temporale, giustificabile con i rapporti di parentela). La Corte territoriale aveva

meno se l’interessato fornisce dati che dimostrino la legittima provenienza
dell’acquisto: nel caso di specie la motivazione era stata del tutto omessa. La
ricorrente segnala che le erano stati confiscati persino i motocicli in uso ai figli,
del valore di qualche centinaio di euro.
La ricorrente conclude per l’annullamento della sentenza impugnata e, in via
subordinata, per l’annullamento della stessa in relazione alla confisca dei beni.
7. Ricorre per cassazione il difensore di Giuseppe Missi, articolando distinti
In un primo motivo si deduce la falsa applicazione dell’art. 12 sexies legge
356 del 1992 e l’omessa motivazione con riferimento alla confisca
dell’appartamento sito in Napoli venduto il 21/12/2006 da Palermo Giuseppe al
figlio dell’imputato Marco Missi, in virtù della donazione indiretta operata da
Giuseppe De Maio, nonno materno di Marco Missi.
L’appartamento era l’abitazione della famiglia della moglie di Missi, Carmela
Di Maio, fin dal 1974; la famiglia era ed è del tutto estranea all’attività criminosa
di Missi. Né Missi Giuseppe, né il figlio Marco erano stati indagati e tanto meno
condannati per il reato di cui all’art. 12 quinquies d.l. 306 del 1992 relativamente
a detto appartamento. Nessun collaboratore di giustizia aveva riferito della
disponibilità indiretta dell’appartamento da parte di Missi Giuseppe, né le due
sentenze avevano fornito spiegazioni della ritenuta disponibilità indiretta del
bene, che non può essere presunta nemmeno in caso di rapporti familiari.
Quanto al requisito della sproporzione tra valore dei beni rispetto ai redditi o
alla propria attività economica, la difesa aveva dato prova che Marco Missi aveva
pagato la somma di euro 120.000, per euro 70.000 con la donazione del nonno
materno Di Maio Giuseppe e per la restante somma di euro 50.000 con un mutuo
della Unicredit per il quale aveva prestato garanzia la madre Carmela Di Maio. La
somma donata dal nonno materno era del tutto ragionevole, se vista come frutto
di risparmi di molti anni e la donazione era verosimile, in quanto diretta
all’acquisto dell’immobile che i nonni materni di Marco Missi abitavano da molti
anni. L’accensione di un mutuo di euro 50.000, poi, era assai anomala per un
acquisto di tipo camorristico.
Quanto alla mancata giustificazione della provenienza della somma di euro
70.000, la Corte faceva riferimento alle persone di Scannapieco Vincenzo e
Palermo Vittorio nel passaggio di denaro, senza tenere conto che il primo agiva
da intermediatore finanziario e il secondo era padre del proprietario
dell’immobile; non erano mai stati sentiti i soggetti interessati.
Inoltre la Corte aveva omesso di analizzare le produzioni difensive sui
risparmi di Giuseppe De Maio e di valorizzare il dato che egli non aveva

14

motivi.

effettuato personalmente il bonifico al venditore per la mancanza di
dimestichezza con le banche.
Palese era la violazione del diritto di difesa di Missi Marco.
In un secondo motivo si deduce la falsa applicazione dell’art. 8 legge 203 del
1991 e dell’art. 62 bis codice penale e il vizio motivazionale, avendo la Corte
territoriale rigettato le richieste di applicazione della diminuente dell’art. 8 cit.
nella sua massima estensione e di applicazione delle attenuanti generiche.
del decisivo apporto fornito dal Missi, già capo dell’associazione camorristica, e
con il calcolo della diminuente nella stessa misura riconosciuta agli altri
collaboratori di giustizia. Eppure la Corte aveva aderito integralmente alla
ricostruzione dei fatti proposta dal Missi.
Quanto alla mancata concessione delle attenuanti generiche, la Corte
territoriale non aveva tenuto in alcun conto lo status di collaboratore di giustizia
del Missi, così falsamente applicando la norma e, inoltre, aveva fondato il rigetto
su circostanze estranee all’accertamento processuale, quale il ruolo egemonico
svolto dall’imputato nell’ambito dell’associazione per il quale egli, in questo
processo, non è imputato, i numerosi precedenti penali e la estrema gravità dei
fatti commessi (ma in questo processo Missi è stato condannato solo per due
intestazioni fittizie di beni). In realtà, la gravità dei reati da valutarsi ai fini della
concessione delle attenuanti generiche concerne i fatti per i quali l’imputato
viene condannato nel processo, non potendosi accedere ad un diritto penale
dell’autore. Contraddittoria era, del resto, la concessione del beneficio a diversi
imputati condannati per associazione per delinquere di stampo camorristico.
Il ricorrente conclude per l’annullamento senza rinvio della sentenza quanto
alla confisca dell’immobile sopra indicato o, in subordine per l’annullamento con
rinvio e per l’annullamento con rinvio della sentenza quanto alle questioni svolte
con il secondo motivo.
Il difensore del ricorrente ha depositato memoria in vista dell’odierna
udienza.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il primo e il secondo motivo di ricorso dedotti da Candurro Vincenzo
devono essere respinti.
Non sussiste la contraddizione denunciata riguardante il periodo di esistenza
dell’associazione a delinquere di stampo camorristico “clan Misso”: la lettura

15

Quanto al primo punto, la decisione era contraddittoria con la sottolineatura

dell’imputazione indica che Missi Giuseppe è ritenuto promotore fin dall’inizio
degli anni ’80; quando egli era stato arrestato, i suoi nipoti si erano riorganizzati
e avevano continuato l’attività del clan; quando Missi era stato scarcerato
nell’aprile 1999, aveva ripreso la sua posizione di comando: ciò è ampiamente
motivato nella sentenza impugnata, che riprende le motivazioni delle sentenze
irrevocabili già emesse.
Ne consegue che le condotte antecedenti al 1999 risultano significative e
rilevanti per l’affermazione della responsabilità del ricorrente nel clan

Con riferimento al secondo motivo di ricorso, non si può condividere la
censura, secondo cui la Corte territoriale avrebbe compiuto una semplice
sommatoria delle dichiarazioni dei collaboratori che sono, per quanto riportato,
per buona parte coincidenti: al contrario, ne ha valutato l’attendibilità e la
convergenza ed evidenziato i riscontri costituiti dalle intercettazioni telefoniche,
dalle sentenze già emesse, dall’esito delle perquisizioni, dai riscontri bancari.
Anche l’amicizia intima tra Missi e Candurro è stata valorizzata non in sé,
ma con riferimento alla gestione delle attività illecite del clan, evidenziando che
si trattava non solo di amici, ma di soci in affare.
In definitiva, non si riscontra alcuna manifesta illogicità dell’ampia
motivazione, né alcuna contraddittorietà con atti del processo, avendo la Corte
preso in esame le doglianze esposte nell’atto di appello, respingendole con
motivazione effettiva e non viziata.
Anche il quarto motivo di ricorso deve essere respinto: la Corte ha preso in
considerazione lo specifico motivo di appello (pag. 45 e ss.) e ha ritenuto
l’infondatezza della tesi difensiva, alla luce della lettura della sentenza della
Corte di appello di Napoli di assoluzione del Candurro dal reato di abusivo
esercizio della attività di concessione di finanziamenti e dei motivi di tale
decisione, giungendo a ritenere, con motivazione non manifestamente illogica,
che dalla decisione non si desumessero affatto elementi utili a dimostrare che il
Candurro aveva acquisito l’ingente patrimonio mediante attività lecite di
concessione di finanziamento, commercio di schede telefoniche e operazioni di
borsa.
2. Deve, invece, essere accolto il quinto motivo di ricorso concernente le
disposizioni sulla confisca.

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camorristico, che era già nato negli anni ’80.

La motivazione, benché ampia in punto di diritto, in punto di fatto è
apparente, limitandosi la Corte a condividere le conclusioni del giudice di primo
grado sulla mancata dimostrazione dell’origine lecita delle risorse economiche
adoperate per gli investimenti e i primi acquisti dei beni da parte dell’imputato e
sulla “vistosa” sproporzione tra il valore dei beni posseduti e il reddito dichiarato
o l’attività lavorativa svolta. La natura apparente della motivazione si evince, in
particolare, nel riferimento all’immobile di via Foria: la Corte dà atto che esso è
stato “asseritamente” acquistato con il denaro ricavato dalla vendita di un altro
(“asseritamente”) possa o meno ritenersi fondata.
Il motivo di appello è stato, quindi, in sostanza eluso, omettendo la Corte
l’analisi faticosa dei singoli dati economici e della correlazione con gli acquisti dei
vari beni di cui è stata disposta la confisca.
Ciò non è permesso nemmeno dal testo dell’art. 12 sexies d.l. 306 del 1992,
che non costituisce un “via libera” alla confisca dell’intero patrimonio dei soggetti
condannati per il reato di cui all’art. 416 bis cod. pen., ma pone dei limiti precisi
che la stessa Corte ricorda.
3. I ricorsi proposti da Candurro Vincenzo e Battista Giuseppina avverso le
condanne per il reato di cui all’art. 12 quinquies di. 306 del 1992, con
riferimento all’intestazione delle quote del “Garage Cavour s.a.s.” sono fondati e
comportano l’annullamento della sentenza impugnata; tale annullamento è senza
rinvio per la Battista, per essere il reato estinto per prescrizione, avendo già il
Giudice di primo grado escluso nei suoi confronti l’aggravante di cui all’art. 7
legge 203 del 1991, invece ritenuta sussistente per il Candurro per il quale,
quindi, opera un termine più lungo di prescrizione, non ancora decorso.
La motivazione della decisione sul punto appare decisamente viziata sotto i
profili evidenziati da entrambi i ricorrenti, così da imporre una rivisitazione
dell’intera vicenda.
Un primo profilo riguarda l’effettivo svolgersi della vicenda dell’acquisto delle
quote societarie della s.a.s Garage Cavour di Circolo Maurizio.
E’ pacifico che il SO% delle quote apparteneva a Circolo Maurizio
(prestanome del padre Ciro) e che l’acquisto della quota non aveva niente a che
vedere con Missi Giuseppe e l’attività del clan di cui egli faceva parte; la Corte dà
atto che il restante 50% era stato acquistato da Battista Giuseppina: quota che,
secondo la prospettazione accusatoria, era per metà di effettiva proprietà di
Candurro Vincenzo e per l’altra metà di Giuseppe Missi, che intendeva investire

17

appartamento, ma non scioglie il quesito se la tesi sostenuta dall’appellante

parte del denaro fatto rientrare, proprio con l’aiuto del Candurro, dalla Svizzera.
Peraltro, la consulenza contabile Galano riferisce che, in realtà, il
10/11/2003 (data del commesso reato, secondo l’imputazione), Battista
Giuseppina aveva sottoscritto solo il 25% delle quote societarie; l’altro 25% era
stato sottoscritto, invece, da Pina Candurro, figlia dello zio Giuseppe Candurro.
La perizia non è menzionata nella sentenza impugnata che, tuttavia, dà atto che,
dal 10/11/2003 al 21/10/2005, Pina Candurro era stata anch’ella socia
accomandante.
21/10/2005; secondo la difesa della Battista con denaro corrispondente al valore
di un immobile, successivamente ceduto a Giuseppe Candurro.
Lo sfasamento temporale di due anni tra l’acquisto del primo 25% della
società e l’acquisto del secondo 25% fa sorgere un quesito, che non può
rimanere senza risposta: quale delle due quote faceva capo a Giuseppe Missi e
quale, invece, a Candurro Vincenzo? Non si può non sottolineare che, per quanto
emerge, nessuna ipotesi di reato è stata formulata nei confronti di Pina Candurro
o di suo padre Giuseppe (nel caso ella fosse risultata nullatenente).
Il dato appena riportato, poi, evidenzia un contrasto con le affermazioni dei
collaboratori di giustizia che paiono menzionare (soprattutto Mariano Mirante,
per quello che si comprende dalla motivazione della sentenza) un unico acquisto
del 50% della quota della società.
La Corte territoriale, inoltre, nulla argomenta sulla contestazione
dell’attendibilità dei tre collaboratori di giustizia che hanno riferito della vicenda
formulata nei motivi di appello dalla difesa Battista e riassunta nei motivi di
ricorso: la difesa aveva fatto rilevare contraddizioni e accordi tra gli stessi.
L’analisi di queste contestazioni è necessaria, poiché della partecipazione di
Giuseppe Missi al capitale sociale della società che gestiva il garage Cavour non
vi è traccia oggettiva alcuna e, quindi, la prova della fittizia intestazione di parte
delle quote si fonda esclusivamente sulle affermazioni dei tre collaboratori di
giustizia: le conversazioni intercettate menzionate dalla Corte territoriale, infatti,
dimostrano il coinvolgimento di Candurro Vincenzo nella gestione del garage, ma
non quello di Giuseppe Missi e, quindi, al più riscontrano l’ipotesi di una fittizia
intestazione della quota dalla moglie al marito; né la frequentazione della coppia
Candurro – Battista con quella Missi – Jasinsky prima e Missi – Di Maio poi
costituiscono riscontro specifico della fittizia intestazione, così come nessun
riscontro specifico di essa proviene dalla conversazione telefonica tra la Di Maio e
la Battista risalente al 2007.

18

La Battista aveva acquistato da Pina Candurro la propria quota solo il

La manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata concerne
anche la prova dell’elemento soggettivo del reato contestato a Battista
Giuseppina.
Su questo aspetto, la Corte esprime, in primo luogo, una motivazione
dubbiosa, quando afferma che detto elemento soggettivo “sarebbe comunque
configurabile anche se l’imputata avesse accettato la intestazione fittizia del bene
al solo scopo di preservare il coniuge da iniziative giudiziarie”: dubbio espresso
in questa sede, ma che sembra far trasparire analogo dubbio sull’elemento
In ogni caso, l’affermazione presuppone che la Battista temesse che nei
confronti del marito fosse prossima l’adozione di misure di prevenzione
patrimoniale, dato soltanto affermato e niente affatto provato nella sentenza
impugnata.
Ma anche ritenendo che la Battista si sia prestata all’intestazione fittizia per
conto di Giuseppe Missi, è evidente che l’affermazione che Candurro Vincenzo
era a conoscenza delle indagini sul clan Misso non può riverberarsi sulla
conoscenza della Battista delle medesime circostanze; ma, più in generale, ciò
che sembra mancare è una prova convincente della consapevolezza da parte
della Battista della provenienza del denaro da Missi Giuseppe: in effetti, se quale moglie del Candurro – ella si prestava a rendersi intestataria di quote della
società per conto di suo marito, quale certezza sussiste che ella si fosse resa
conto che il denaro utilizzato nell’occasione (fermo restando il dubbio su quale
occasione: il 10/11/2003 o il 21/10/2005?) non derivasse dalle attività del

coniuge, ma provenisse dal Missi?
I restanti motivi dedotti dalla difesa di Battista Giuseppina restano assorbiti
dall’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata.
4. I primi due motivi di ricorso proposti da Gennaro Palmieri sono infondati.
Il secondo propone considerazioni analoghe a quelle svolte dalla difesa di
Candurro Vincenzo sull’epoca della nascita dell’associazione camorristica, per cui
è sufficiente richiamare le considerazioni ivi svolte.
Quanto al primo, la motivazione della sentenza impugnata non pare affatto
manifestamente illogica o contraddittoria: vengono riportate le dichiarazioni di
numerosi collaboratori di giustizia, la cui attendibilità viene vagliata; si riscontra
che esse non sono affatto del tutto differenti tra loro, ma in buona parte
coincidenti (fermo restando che ciascun collaboratore riferiva circostanze di cui

19

oggettivo del reato.

era a conoscenza in ragione del proprio ruolo e della propria posizione); vengono
evidenziati, infine, i numerosi riscontri oggettivi, sia risalenti nel tempo che
recenti, concludendosi per una vicinanza strettissima tra Palmieri e Giuseppe
Missi, a favore del quale il primo aveva svolto ruoli delicati e rischiosi.
Il terzo motivo di ricorso, attinente la condanna del Palmieri per il reato di
cui all’art. 12 quinquies d.l. 306 del 1992 con riferimento alla fittizia intestazione
dell’Albergo Bassani è, poi, del tutto generico: la Corte ripercorre analiticamente
vendita ad una società anonima svizzera e conclude, sulla base delle
dichiarazioni dei collaboratori di giustizia riscontrate dai dati oggettivi, che si
tratta di reimpiego delle somme di Giuseppe Missi e di altri componenti del clan
in un’attività economica.
Il ricorrente contrappone una ricostruzione fattuale diversa: egli sarebbe
stato solo il mediatore dell’affare, ricompensato con una piccola quota di
proprietà; non indica nemmeno un dato oggettivo che possa dimostrare tale
diversa ricostruzione (e che dimostri la contraddittorietà della motivazione con
atti specifici del processo, unico vizio che questa Corte può prendere in
considerazione) e non spiega affatto il motivo per cui, se il suo titolo di proprietà
derivava dal compenso per la mediazione, anch’egli aveva venduto l’immobile
alla società anonima svizzera.
Il quarto motivo di ricorso, concernente la confisca dell’immobile di Via

Foria, intestato alla figlia del Palmieri, è inammissibile per carenza di interesse,
atteso che è, appunto, la proprietaria del bene titolare dell’interesse ad opporsi
alla misura (Sez. 6, n. 29124 del 02/07/2012 – dep. 18/07/2012, Carlon e altri,
Rv. 253180; Sez. 2, n. 15474 del 20/01/2012 – dep. 23/04/2012, Biondillo, Rv.
252811; Sez. 5, n. 6208 del 21/10/2010 – dep. 18/02/2011, Bifulco, Rv.
249499).
5. Il ricorso di De Marino Ciro è inammissibile.
Come affermato da questa Corte in una fattispecie identica a quella oggetto
del ricorso, è inammissibile il ricorso per cassazione avverso la decisione del
giudice di appello che, rilevata la rinuncia dell’imputato ai motivi di appello
diversi da quelli relativi alla riduzione di pena, dichiari, in virtù degli art. 589,
commi secondo e terzo e 591, comma primo, lett.

d) cod. proc. pen.,

l’inammissibilità sopravvenuta dei motivi oggetto di rinuncia, omettendone
l’esame ai fini dell’applicazione dell’art. 129 cod. proc. pen., considerato che la
rinuncia ha effetti preclusivi sull’intero svolgimento processuale, ivi compreso il

20

le vicende concernenti l’acquisto dell’immobile, la sua intestazione, la sua

giudizio di legittimità. Pertanto, poiché, ex art. 597, comma primo, cod. proc.
pen., l’effetto devolutivo dell’impugnazione circoscrive la cognizione del giudice
del gravame ai soli punti della decisione ai quali si riferiscono i motivi proposti,
una volta che essi costituiscano oggetto di rinuncia, non può il giudice di appello
prenderli in considerazione, né può farlo il giudice di legittimità (Sez. 2, n. 3593
del 03/12/2010 – dep. 01/02/2011, Izzo, Rv. 249269).
La rinuncia ai motivi di appello aveva prodotto l’effetto dell’estinzione del
gravame, cosicché la Corte territoriale non poteva che prenderne atto (Sez. 2, n.
assenza di una esplicita declaratoria di inammissibilità dell’appello, la Corte
territoriale ha dato atto (pag. 74) di dover limitare la cognizione all’unico motivo
di impugnazione per il quale non era intervenuta rinuncia.
Anche il secondo motivo di ricorso è inammissibile: la Corte ha
adeguatamente motivato la concessione delle attenuanti generiche all’imputato e
la valutazione di equivalenza con le aggravanti contestate; il ricorso è del tutto
generico nel sostenere che, al contrario, dette attenuanti dovevano essere
ritenute prevalenti sulle aggravanti.
Identica caratteristica di genericità ha il motivo attinente alla
determinazione della pena base, sulla base della quale la Corte ha calcolato
quella definitiva: la Corte aggancia la valutazione ai parametri di cui all’art. 133
cod. pen., all’obbiettiva gravità del fatto e al rilevante ruolo svolto dal De Marino
nel sodalizio criminale; in nessun modo emerge una manifesta illogicità di tale
motivazione.
6. Il ricorso di Mariano Mirante è inammissibile.
Nessuna manifesta illogicità si riscontra nella motivazione della sentenza
impugnata, che sottolinea che i presupposti per la concessione dell’attenuante di
cui all’art. 8 della legge 203 del 1991 e quelli per la concessione delle attenuanti
generiche sono diversi, cosicché la concessione della prima non comporta
necessariamente il riconoscimento delle seconde.
Questa Corte ha ripetutamente affermato che la concessione delle
attenuanti generiche e la concessione della attenuante di cui all’art. 8 del decreto
legge 13 maggio 1991 n. 152, convertito in legge 12 luglio 1991 n. 203, si
fondano su distinti e diversi presupposti: mentre l’ad 62 bis cod. pen. attribuisce
al giudice la facoltà di cogliere, sulla base di numerosi e diversificati dati
sintomatici (motivi che hanno determinato il reato, circostanze che lo hanno
accompagnato, danno cagionato, condotta tenuta post delictum, ecc.), quegli
elementi che possono suggerire l’opportunità di attenuare la pena edittale,

21

25020 del 17/05/2012 – dep. 22/06/2012, Vasile e altro, Rv. 253078): pur in

l’attenuante di cui all’art. 8 legge 12 luglio 1991 n. 203 è conseguenza del valido
contributo fornito dall’imputato allo sviluppo delle indagini e della attività dallo
stesso posta in essere allo scopo di evitare le ulteriori conseguenze della attività
delittuosa (Sez. 1, n. 2137 del 05/11/1998 – dep. 19/02/1999, Favaloro M, Rv.
212531). Ne consegue che il riconoscimento della circostanza attenuante di cui
all’art. 8 cit. non implica necessariamente, data la diversità dei relativi
presupposti, il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche (Sez. 6, n.
20145 del 15/04/2010 – dep. 27/05/2010, Cantiello e altri, Rv. 247387; Sez. 1,

Quanto alla lamentata discriminazione tra gli imputati “comuni” e i
collaboratori di giustizia che, secondo il ricorso, non potrebbero mai godere delle
attenuanti generiche in quanto la loro collaborazione presuppone la
responsabilità nel delitto di cui all’art. 416 bis cod. pen., essa non sussiste: non
solo perché, al contrario, anch’essi possono godere delle attenuanti generiche
(ed infatti al ricorrente dette attenuanti sono state negate non per la condanna
per un determinato reato, ma in base ad una valutazione articolata) ma,
soprattutto, perché la condanna per il delitto di partecipazione ad associazione
mafiosa deve ascriversi alla responsabilità del collaboratore di giustizia.

7. Anche il ricorso di Giuseppe Missi è inammissibile.
Quanto al motivo attinente la confisca dell’appartamento venduto da
Palermo Giuseppe al figlio Marco Missi, risulta evidente la mancanza di interesse
del ricorrente.
Lo stesso sostiene che l’immobile è effettivamente di proprietà del figlio, in
quanto acquistato mediante mutuo e donazione indiretta del nonno materno:
quindi legittimato ad opporsi alla confisca è, appunto, Marco Missi, mentre
Giuseppe Missi è estraneo al provvedimento (Sez. 6, n. 29124 del 02/07/2012 dep. 18/07/2012, Carlon e altri, Rv. 253180; Sez. 2, n. 15474 del 20/01/2012 dep. 23/04/2012, Biondillo, Rv. 252811; Sez. 5, n. 6208 del 21/10/2010 – dep.
18/02/2011, Bifulco, Rv. 249499).

Anche il secondo motivo di ricorso è inammissibile: la Corte ha preso in
considerazione il motivo di appello concernente la mancata applicazione
dell’attenuante di cui all’art. 8 legge 203 del 1991 nella sua massima estensione
e ha ritenuto che la decisione del giudice di primo grado fosse proporzionata alla
misura del contributo, con una valutazione che in questa sede appare
insindacabile; quanto alla mancata concessione delle attenuanti generiche, il
motivo di ricorso è infondato quando fa riferimento allo status di collaboratore di
giustizia assunto dal Missi, per i motivi già esposti nel trattare il ricorso di

22

n. 14527 del 03/02/2006 – dep. 27/04/2006, Cariolo ed altri, Rv. 233938).

Mariano Mirante; è altrettanto infondato quando lamenta che la Corte avrebbe
preso in considerazione la condanna per il reato associativo estranea per detto
imputato al presente giudizio: ma, a parte che la relativa condanna deriva dal
medesimo procedimento, gli artt. 62 bis e 133 cod. pen. non vietano affatto di
valutare, ai fini della concessione delle attenuanti generiche, condotte diverse da
quelle giudicate nel processo nel quale il beneficio viene richiesto, come si evince
con chiarezza dai parametri indicati nell’art. 133, comma 2, cod. pen..

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di Battista
Giuseppina perché il reato ascrittole è estinto per prescrizione.
Annulla la sentenza impugnata nei confronti di Candurro Vincenzo
limitatamente all’imputazione di cui al capo E ed alle disposizioni di confisca;
rinvia per nuovo esame in proposito ad altra Sezione della Corte d’assise di
appello di Napoli. Rigetta nel resto il ricorso del Candurro.
Rigetta il ricorso di Palmieri Gennaro che condanna al pagamento delle
spese processuali.
Dichiara inammissibili i ricorsi di De Marino Ciro, Mirante Mariano e Missi
Giuseppe che condanna al pagamento delle spese processuali nonché di euro
1.000 ciascuno alla Cassa delle ammende.
Così deciso il 28 novembre 2012
Il Consigliere estensore

Il Presidente

P.Q.M.

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