Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 15866 del 04/04/2018


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Penale Sent. Sez. 6 Num. 15866 Anno 2018
Presidente: ROTUNDO VINCENZO
Relatore: CALVANESE ERSILIA

SENTENZA

sul ricorso proposto da
Raffaele Spasiano, nato a Napoli il 15/04/1951

avverso la sentenza del 06/03/2018 della Corte di appello di Napoli

visti gli atti, il provvedimento denunziato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Ersilia Calvanese;
udite le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore
generale Mariella De Masellis, che ha concluso chiedendo l’annullamento senza
rinvio della sentenza impugnata limitatamente al motivo di rifiuto di cui all’art.
18, lett. p), I. n. 69 del 2005;
udito il difensore, avv. Raffaele Esposito, anche in sostituzione del codifensore
avv. Giovanni Fariello Esposito, che ha concluso insistendo nei motivi di ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con la sentenza in epigrafe indicata, la Corte di appello di Napoli
disponeva la consegna, condizionata al rinvio a norma dell’art. 19, lett. c), I. n.
69 del 2005 e sospesa ai sensi dell’art. 24 della stessa legge, del cittadino
italiano Raffaele Spasiano, richiesta dalle autorità giudiziarie spagnole con

Data Udienza: 04/04/2018

mandato di arresto europeo per il suo perseguimento per i reati di partecipazione
ad associazioni dedite al narcotraffico e al riciclaggio.
La Corte di appello esponeva che al predetto era stato contestato di aver
fatto parte di un’associazione operante in Spagna, autonoma anche se collegata
al clan camorristico “Polverino”, nella quale si era occupato di dirigere
personalmente il traffico internazionale di droga tra la Spagna e l’Italia, nonché
il riciclaggio e il reinvestimento in Spagna di rilevanti capitali acquisiti dal
suddetto clan attraverso la propria attività criminale.

le ipotesi ostative previste dalle lettere o) e p) dell’art. 18 della legge n. 69 del
2005.
Relativamente alla ipotesi di cui alla lettera o) del citato articolo, secondo la
Corte di appello, era emerso che i fatti per i quali era stata richiesta la consegna
risultavano essere diversi da quelli per i quali lo stesso Spasiano era stato
condannato, in via non ancora definitiva, in Italia per il reato di cui all’art. 416bis cod. pen., in qualità dei partecipe del clan Polverino (reato in ordine al quale
aveva riportato la condanna, confermata in appello, ad anni 12 di reclusione):
l’associazione operante in Spagna, anche se collegata al clan dei Polverino, era
infatti autonoma nell’organizzare le attività criminali (lo Spasiano, pur ricevendo
ordini e danaro dal Polverino, gestiva poi in autonomia le attività illecite).
Non era neppure ravvisabile la fattispecie ostativa di cui alla lettera p) del
suddetto articolo, in quanto, pur essendo ravvisabili elementi di collegamento tra
l’associazione operante in Italia e quella oggetto del mandato di arresto europeo,
doveva prevalere un’esegesi della disposizione “conforme” alla decisione quadro
sul mandato di arresto europeo del 2005, che consentisse di prevedere il motivo
di rifiuto come facoltativo e non obbligatorio.
Secondo la Corte di appello, la disposizione ora richiamata doveva essere
disapplicata in quanto in «insanabile contrasto» con «la norma europea
direttamente efficace» per una serie di motivi. In primis, l’art. 4, par. 7, lett. a),

La Corte distrettuale riteneva che in ordine ai suddetti fatti non ricorressero

della decisione quadro del 2002 relativa al mandato d’arresto europeo prevedeva
il “potere” e non il “dovere” di rifiutare la consegna se la richiesta riguarda reati
che secondo la legge dello Stato membro di esecuzione sono commessi in tutto o
in parte nel suo territorio; e la disciplina dell’obbligatorietà del rifiuto nel caso
previsto dall’art. 18, comma 1, lett. p), cit. era stata espressamente criticata nel
rapporto della Commissione europea del 23 febbraio 2005 sull’attuazione della
decisione quadro.
In secondo luogo, la disciplina introdotta dal d.lgs. 15 febbraio 2016, n. 29,
recante disposizioni per conformare il diritto interno alla decisione quadro del
2009 del 30 novembre 2009, concernente la prevenzione e la risoluzione di

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(i

conflitti di giurisdizione penale tra i Paesi dell’Unione Europea, prevedeva
l’applicazione, in caso di giurisdizioni concorrenti, del criterio del luogo in cui si è
verificato prevalentemente il fatto costituente reato, ovvero altri criteri residuali.
Secondo la Corte di appello, quindi, doveva ritenersi il giudice spagnolo nella
migliore posizione per giudicare i fatti in contestazione.
La Corte di appello respingeva infine anche le istanze difensive in ordine al
motivo di rifiuto previsto dall’art. 18, comma 1, lett. m), I. n. 69 del 2005, in
quanto la sentenza emessa in Italia nei confronti dello Spasiano per il reato ex

2. Avverso la suddetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione
l’interessato, a mezzo dei suoi difensori di fiducia, deducendo i motivi di seguito
enunciati nei limiti di cui all’art. 173, disp. att. cod. proc. pen.:
– violazione degli artt. 1, comma 3, e 6, comma 1, lett. e) della I. n. 69 del
2005, in quanto, come evidente da una mera lettura del provvedimento
spagnolo, il mandato risulta del tutto generico in ordine alla descrizione delle
condotte illecite, limitandosi all’indicazione del nomen juris dei reati;
– violazione dell’art. 16 I. n. 69 del 2005, non avendo la Corte di appello
disposto l’acquisizione di informazioni aggiuntive per meglio comprendere le
condotte incriminate;
– violazione dell’art. 18, comma 1, lett. m), I. n. 69 del 2005, in quanto i
fatti attribuiti al ricorrente risulterebbero del tutto sovrapponibili a quelli per i
quali è stato condannato in Italia (in particolare, già risultava il ruolo di
mediatore di Giuseppe Polverino tra l’Italia e la Spagna, così come la sua attività
di imprenditore colluso al clan, l’episodio della società Vera costruzioni s.r.I.,
dedita al riciclaggio, la costruzione di 25 villini in Spagna);
– violazione dell’art. 18, comma 1, lett. p), I. n. 69 del 2005, poiché la Corte
di appello non avrebbe considerato che per altri coimputati del clan Polverino (Di
Maro Pasquale, Allegro Cristiano e Polverino Palma) era stata in passato rifiutata
la consegna per il suddetto motivo ostativo; inoltre, pur volendo considerare
facoltativo il motivo di rifiuto, avrebbe in modo frettoloso ed illogico ritenuto
preferibile la consegna alla Spagna, quando invece il giudice italiano era in
possesso di tutti gli elementi di prova per procedere in ordine ai fatti di cui al
mandato di arresto europeo, che avevano avuto la loro origine ed evoluzione
criminosa in Italia (era pur sempre Giuseppe Polverino, capo incontrastato di
entrambe le consorterie).

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art. 416-bis cod. pen. non era ancora irrevocabile.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso non può essere accolto per le ragioni di seguito indicate.

2. I primi due motivi sono inammissibili.
A fronte della sentenza impugnata che ha attestato che il mandato di arresto
europeo si presentava sufficientemente circostanziato in ordine alla descrizione
dei fatti illeciti, la censura proposta dal ricorrente è stata formulata in modo del
ictu ()cui/

non solo nella

motivazione della sentenza – là dove la Corte di appello ha proceduto ad
un’analisi specifica delle incolpazioni provvisorie mosse dalle autorità giudiziarie
spagnole al fine di verificare la sussistenza delle ipotesi ostative invocate dalla
difesa – ma anche dalle stesse critiche mosse dal ricorrente nei motivi versati nel
presente ricorso, che si diffondono in un’analisi comparativa tra la condotta
commessa in Spagna e quella oggetto del procedimento penale in Italia.

3. Il terzo motivo è manifestamente infondato e vieppiù aspecifico, avendo
la Corte di appello rilevato in via assorbente che la sentenza di condanna emessa
in Italia non era irrevocabile, come invece richiede la norma evocata dal
ricorrente (l’art. 18, comma 1, lett.

m, prevede il rifiuto della consegna se

“risulta che la persona ricercata è stata giudicata con sentenza irrevocabile per
gli stessi fatti da uno degli Stati membri dell’Unione europea purché, in caso di
condanna, la pena sia stata già eseguita ovvero sia in corso di esecuzione,
ovvero non possa più essere eseguita in forza delle leggi dello Stato membro
che ha emesso la condanna”).

4. Il quarto motivo non può trovare accoglimento anche se per ragioni
diverse da quelle indicate dalla Corte territoriale.
Ancorché il ricorrente non abbia sottoposto a specifica censura l’esegesi
accolta dalla Corte di appello, che ha ritenuto di ravvisare nell’ipotesi di cui
all’art. 18, comma 1, lett. p) della legge n. 69 del 2005 un motivo di rifiuto
facoltativo della consegna, appare opportuno preliminarmente affrontare questa
questione per verificare se la soluzione interpretativa fatta propria dalla sentenza
impugnata sia corretta.
4.1. La lettera p) dell’art. 18 citato prevede due distinte ipotesi di rifiuto
obbligatorio della consegna, ispirate da differenti ratio: la prima, riguarda il caso
in cui il mandato di arresto europeo sia stato emesso in relazione a «reati che
dalla legge italiana sono considerati reati commessi in tutto o in parte nel suo
territorio, o in luogo assimilato al suo territorio»; la seconda, attiene invece alla

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tutto generico, trovando comunque smentita

distinta fattispecie in cui i reati oggetto del mandato di arresto europeo «sono
stati commessi al di fuori del territorio dello Stato membro di emissione» e «la
legge italiana non consente l’azione penale per gli stessi reati commessi al di
fuori del suo territorio».
Entrambi i motivi ostativi corrispondono a tradizionali casi di rifiuto
dell’estradizione, peraltro disciplinati in sede pattizia in chiave solamente
facoltativa (cfr. art. 7 della Convezione europea di estradizione), che mirano alla
tutela del principio di territorialità della legge penale secondo differenti

di rifugio su fatti commessi sul suo territorio; il secondo, invece, risponde
all’esigenza di alcune legislazioni che non perseguono i reati commessi in
territorio estero.
Orbene, mentre quest’ultima ipotesi prevista dalla seconda parte della lett.
p) dell’art. 18 appare non avere di fatto alcuna rilevanza nel sistema penale
italiano che consente in via generale la punibilità di reati commessi all’estero,
attraverso gli artt. 7 e ss.gg. cod. pen. (non potendosi tener conto, nella
suddetta valutazione, della sussistenza in concreto delle condizioni di
procedibilità, cfr. in senso analogo, in materia estradizionale, Sez. 6, n. 21251
del 01/04/2003, Schumann, Rv. 226042), più problematica è risultata
l’applicazione della prima delle suddette cause di rifiuto della consegna.
Invero, nel regolare i rapporti tra l’ordinamento italiano e gli ordinamenti
stranieri, l’art. 6, secondo comma, cod. pen. si ispira al principio della forza
espansiva dell’applicazione della legge italiana (cfr. la Relazione ministeriale al
codice penale; Sez. 6, n. 7478 del 09/12/1992, dep. 1993, Carnana, Rv.
195046), secondo cui è sufficiente che sia avvenuta in Italia anche una minima
parte dell’azione o della omissione, pur se priva dei requisiti di idoneità e di
inequivocità richiesti per il tentativo, per far ritenere commesso in Italia il reato
che, considerando anche i collegati atti commessi all’estero, viene poi
concretamente individuato nella sua unitaria fisionomia in un reato consumato o
tentato (in senso conforme, tra le tante, Sez. 4, n. 6376 del 20/01/2017,
Cabrerizo Morillas, Rv. 269062).
Come è stato più volte evidenziato dalla dottrina, questa interpretazione
della citata disposizione del codice è funzionale ad evitare che l’applicazione del
principio di territorialità della legge penale implichi una mutilazione dell’azione o
dell’omissione delittuosa, a causa dell’esistenza delle frontiere internazionali, e
quindi la sola punibilità di quella parte di un fatto eseguita al di qua dei confini
nazionali.
Il legislatore ha infatti considerato il reato un’entità indivisibile, avendo
riguardo sia alla parte che si è verificata nel territorio nazionale sia a quella

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angolature: il primo è funzionale alla riserva di giurisdizione a favore dello Stato

verificatasi all’estero (cfr. la Relazione al re sul codice penale, n. 92:
«costituirebbe un’aberrante finzione quello di considerarlo tentato, mentre in
realtà esso fu consumato »).
Nell’interpretazione quindi della norma codicistica in un’ottica soltanto
funzionale alla punibilità di reati commessi in parte all’estero, la giurisprudenza,
in assenza peraltro di disposizioni sul punto, si è preoccupata soltanto di
ricercare un elemento di collegamento con il territorio dello Stato che
giustificasse l’attrazione del fatto illecito nell’ambito della giurisdizione italiana,

modo tale da collegare la parte della condotta realizzata in Italia a quella
realizzata in territorio estero.
Il legislatore non si è invece curato di coordinare questa disposizione con la
concorrente giurisdizione di altro Stato, il cui territorio sia stato parimenti
interessato dall’iter criminoso (a differenza invece della ipotesi del reato
commesso interamente all’estero, disciplinata dagli artt. 9 e 10 cod. pen., le cui
previsioni, che se pur ispirate ad una tendenza universalistica della legge penale,
ne condizionano il perseguimento nello Stato al bilanciamento tra le diverse
esigenze del rispetto di impegni internazionali e della repressione penale).
Anzi, la prospettiva del codice relativamente ai reati commessi in parte sul
territorio dello Stato, come dimostra plasticamente l’art. 11 cod. pen., è quella
della irrilevanza giuridica dell’esercizio della concorrente giurisdizione (Sez. 1, n.
708 del 08/04/1970, Tognolini, Rv. 115576).

E’ evidente che questa interpretazione dell’art. 6, secondo comma, cod. pen.
risulti inadeguata quando vengano in considerazione esigenze di cooperazione
internazionale, ponendosi in frizione con il mutato quadro internazionale ed in
particolare con il contesto dello spazio giudiziario europeo, nel quale la punibilità
di taluni gravi reati, tipicamente transnazionali, costituisce un obiettivo “comune”
delle politiche repressive degli Stati.
Queste considerazioni hanno ispirato talune interpretazioni ristrettive della
portata dell’art. 18, lett. p) , cit., che tuttavia non appaiono condivisibili.
Da un lato, è parso possibile addivenire ad una nozione di “parte” del reato
diversa (e meno espansiva) da quella fornita dall’art. 6, secondo comma, cod.
pen. Tuttavia, tanto la norma europea quanto la suddetta disposizione rinviano
alla nozione interna di parte del reato.
Dall’altro, come dimostra la sentenza impugnata, si è cercato di attenuare
l’impatto della disposizione, conferendo alla ipotesi in essa descritta soltanto
l’effetto di ostacolare facoltativamente la consegna.
Questa Corte di recente ha già avuto modo di pronunciarsi sulla natura
obbligatoria di questa ipotesi di rifiuto in un caso in cui il giudice di merito,

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spesso individuato anche solo in un apprezzabile “frammento” della condotta in

accedendo ad un’interpretazione adeguatrice della citata norma nei medesimi
termini esposti nella sentenza ora in esame, aveva rifiutato la consegna (Sez. 6,
n. 5549 del 01/02/2018, Manco, non ancora massimata).
In tal caso, la Suprema Corte ha escluso che si potesse accogliere una
siffatta esegesi, sul rilievo che la formulazione del motivo di rifiuto in questione
nella legge sul mandato di arresto europeo, in termini espressamente
obbligatori, non evidenziava alcun «insanabile contrasto» con la disposizione
contenuta nella decisione quadro del 2002, che ha invece adottato una formula

mandato d’arresto europeo… se il mandato d’arresto europeo riguarda reati ..
che dalla legge dello Stato membro di esecuzione sono considerati commessi in
tutto o in parte nel suo territorio, o in un luogo assimilato al suo territorio»), così
consentendo ad ogni Stato, in sede di adattamento, di optare per il regime
ritenuto più compatibile con il proprio ordinamento.
Piuttosto, secondo la Corte di legittimità, la diretta applicazione della norma
europea avrebbe avuto l’effetto di lasciare del tutto indefinita la facoltà di rifiuto
attribuita al giudice italiano, stante la totale assenza di specificazioni circa
l’ambito di discrezionalità da riconoscere all’autorità giudiziaria dello Stato di
esecuzione.
Nel citato arresto, la Suprema Corte ha infatti escluso che l’interpretazione
proposta dai giudici di merito potesse trovare accoglimento, facendo leva sulla
disciplina concernente la prevenzione e la risoluzione di conflitti di giurisdizione
penale tra i Paesi dell’Unione europea, intervenuta successivamente alla
decisione quadro del 2002 in tema di mandato di arresto europeo (ed alla legge
n. 69 del 2005), posto il d.lgs. n. 29 del 2016, contenente la relativa normativa
di adattamento, prevede sia specifiche competenze, di natura giurisdizionale ma
anche politica, sia lo svolgimento di un articolato iter procedimentale ai fini della
decisione di concentrare il procedimento penale in altro Stato membro, da
concludere con una sentenza di improcedibilità dell’azione penale in Italia.
La decisione di “trasferire” il procedimento penale per il quale sussiste anche
la giurisdizione italiana con la sentenza che decide sulla richiesta di consegna in
esecuzione di mandato di arresto europeo verrebbe pertanto ad implicare una
violazione delle competenze, delle procedure e delle articolate valutazioni
previste dal d.lgs. n. 29 del 2016 in presenza di procedimenti penali paralleli.
Coerentemente a questo quadro normativo, un limite al divieto di consegna
di cui all’art. 18, comma 1, lett. p), della legge n. 69 del 2005 è stato individuato
dalla Suprema Corte piuttosto nel caso in cui, nel rispetto delle competenze e
procedure previste dal d.lgs. n. 29 del 2016, sia stato raggiunto un accordo sulla
concentrazione dei procedimenti penali e sia stata pronunciata, dal giudice del

di tipo “elastico” («L’autorità giudiziaria dell’esecuzione può rifiutare di eseguire il

procedimento o del processo, sentenza di improcedibilità dell’azione penale in
Italia.
4.2. Nel ribadire che il motivo di rifiuto in esame ha natura obbligatoria, il
Collegio intende peraltro effettuare alcune precisazioni, a corollario dei principi
ora esposti.
Come si è accennato poc’anzi e come ha più volte evidenziato la
giurisprudenza di legittimità, il suddetto motivo di rifiuto corrisponde ad una
tradizionale ipotesi di rifiuto dell’estradizione prevista dai trattati in materia.
Non si è mancato di osservare che costituiva ius receptum nell’esegesi di

legittimità che la commissione del reato in Italia non escludeva la concorrente
giurisdizione straniera, né impediva l’estradizione fondata sulla Convenzione
europea del 1957, in virtù della quale siffatta ipotesi può dar luogo solo al rifiuto
facoltativo di estradizione (ex art. 7), che non è di competenza dell’autorità
giudiziaria, ma che rientra nelle attribuzioni esclusive del Ministro della Giustizia
(tra tante, Sez. 6, n. 9119 del 25/01/2012, Topi, Rv. 252040).
Quindi la tutela della riserva di giurisdizione, in ambito estradizionale,
restava confinata in una dimensione squisitamente politica, rilevando in sede
giurisdizionale soltanto i casi in cui fosse già pendente nello Stato un
procedimento penale per i medesimi fatti ovvero che lo stesso si fosse concluso
con sentenza irrevocabile (ex artt. 8 e 9 della Convenzione europea cit. e art.
705, comma 1, cod. proc. pen.), entrambi costituenti ipotesi necessariamente
ostative alla estradizione.
La scelta operata dal codice di rito di non annoverare tra le ipotesi ostative
all’estradizione anche quella del reato commesso nel territorio dello Stato
trovava la sua ratio nei rapporti tra giurisdizioni statuali, che non impediva in via
di principio la creazione di procedimenti penali “paralleli” per il medesimo fatto.
Pertanto, era rimesso alle valutazioni di opportunità da effettuarsi in relazione al
caso concreto stabilire l’esistenza di un vulnus all’esercizio della giurisdizione
italiana derivante dalla disposta estradizione di una persona per un reato
commesso sul territorio dello Stato.
Invero, in linea generale la mancata materiale disponibilità della persona
non impedisce di perseguirla in ordine a tale fatto, potendo farsi luogo ad un
processo di tipo contumaciale, salvo poi pervenire ad un giudicato di condanna a
pena detentiva non eseguibile senza la presenza fisica dell’interessato.
Il quadro in sede europea è mutato con il riconoscimento del principio del ne
bis in idem con la Convenzione di Schengen del 19 giugno 1990: nell’assetto dei

rapporti tra Stati dell’Unione europea, una volta giudicata una persona con
sentenza definitiva in uno Stato membro, la stessa non può essere più
sottoposta ad un procedimento penale per i medesimi fatti in altro Stato a

(

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condizione che, in caso di condanna, la pena sia stata eseguita o sia
effettivamente in corso di esecuzione attualmente o, secondo la legge dello Stato
contraente di condanna, non possa più essere eseguita (art. 54).
Il che significa che, una volta consegnata la persona perché sia giudicata per
un reato commesso in parte sul territorio dello Stato richiedente e dello Stato
richiesto (situazione questa che non legittima alcuna riserva al principio del ne
bis in idem, ai sensi dell’art. 55 della Convenzione di Schengen), quest’ultimo

Stato avrà ben limitate

chance

per esercitare la propria giurisdizione

del giudizio, dalla preclusione derivante dal giudicato nel frattempo formatosi
all’estero.
In questa prospettiva, la scelta operata dal legislatore in sede di
adattamento alla decisione quadro sul mandato di arresto europeo di prevedere
in forma obbligatoria il rifiuto della consegna in siffatte ipotesi appare coerente
con il diverso assetto dei rapporti tra giurisdizioni concorrenti derivante dalla
disciplina suddetta, in funzione di una tutela “avanzata” del principio di
sovranità.
Peraltro, il rifiuto della consegna non impedisce allo Stato di emissione di
procedere egualmente in ordine al fatto commesso nel territorio italiano, ben
potendo, come si è detto, perseguire l’imputato in contumacia (nulla impedisce
infatti al suddetto Stato di procedere alle notifiche a mezzo posta, come
prevedono le fonti pattizie applicabili in ambito europeo, né le notificazioni
eseguite per altra via sono ostacolabili a motivo della litispendenza, come si
evince dall’art. 726-bis cod. proc. pen.) e pervenire ad un giudicato che rischia
comunque di inibire la prosecuzione del procedimento penale nazionale.
Va a tal riguardo rammentato che l’art. 50 della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea, che ha riconosciuto il principio del ne bis in
idem quale garanzia generale da invocare nello spazio giuridico europeo (Sez. 6,

n. 54467 del 15/11/2016, Resneli, Rv. 268931), ogni qualvolta il caso sottoposto
al giudice nazionale presenti un elemento di collegamento con il diritto
dell’Unione, ha una portata più ampia della norma pattizia sopra indicata,
sancendo il diritto di non essere giudicati o puniti due volte per lo stesso reato
(«nessuno può essere perseguito o condannato per un reato per il quale è già
stato assolto o condannato nell’Unione a seguito di una sentenza penale
definitiva conformemente alla legge»), eliminando quindi tanto la condizione
della esecuzione (anche in corso) della pena quanto le riserve previste dalla
precedente normativa.
Conseguentemente, in presenza di reati, quali quelli di criminalità
organizzata, la cui repressione trova la sua fonte nel diritto dell’Unione europea

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concorrente, potendo la stessa essere paralizzata, ancor prima della conclusione

(cfr. la decisione quadro 2008/841/GAI del Consiglio del 24 ottobre 2008 relativa
alla lotta contro la criminalità organizzata) e che si realizzano tipicamente in una
dimensione transnazionale, il mero rifiuto della consegna non viene di per sé a
tutelare la riserva di giurisdizione dello Stato di rifugio, con l’effetto perverso di
poter disporre fisicamente dell’imputato, ma di non poterlo poi giudicare o
sottoporre a sanzione a causa del

ne bis idem.

In tal modo, il rischio

dell’applicazione generalizzata della causa di rifiuto potrebbe condurre
paradossalmente all’impunità di fatto della persona.
La esigenza di coordinare l’esercizio dell’azione penale in presenza di reati

dall’Unione europea, tanto da già prevedere in nuce nella ora citata decisione
quadro del 2008 un meccanismo per consentire di “accentrare” il procedimento
penale in un unico Stato membro.
Meccanismo che ha trovato poi nella decisione quadro del 2009 sulla
prevenzione e la risoluzione dei conflitti relativi all’esercizio della giurisdizione nei
procedimenti penali la sua puntuale disciplina.
4.3. Orbene, tirando le fila del discorso, l’esegesi della disposizione di cui
all’art. 18, comma 1, lett. p), I. n. 69 del 2005 non può prescindere da un lato
dall’incidenza del principio del ne bis in idem e dall’altro dalla disciplina dettata
dalla decisione del 2009 ora citata.
Invero, come si visto, una indiscriminata tutela della riserva di giurisdizione
in presenza di quel “frammento” della condotta sufficiente, secondo la
consolidata giurisprudenza di legittimità, ai fini dell’affermazione della
giurisdizione italiana, ai sensi dell’art. 6, secondo comma, cod. pen. potrebbe
non sortire alcun effetto sul concreto esercizio della giurisdizione stessa, a causa
del ne bis in idem, con l’effetto tuttavia di paralizzare tout court il meccanismo di
consegna.
Inoltre, la soluzione prefigurata da precedenti arresti di legittimità, secondo
cui ogni qual volta il giudice italiano rifiuti la consegna, a tutela della
giurisdizione territoriale, sia tenuto a trasmettere conseguentemente gli atti alla
Procura della Repubblica territorialmente competente per i seguiti di competenza
in ordine ai suddetti fatti, risulta contraria alle finalità della citata decisione
quadro del 2009, nella misura in cui il rifiuto della consegna viene esso stesso a
costituire il presupposto per dar vita ad un procedimento penale parallelo
“superfluo”, nell’ottica dell’Unione europea. Come ha chiarito la suddetta
decisione quadro, «nello spazio comune di libertà, sicurezza e giustizia il
principio di obbligatorietà dell’azione penale, che informa il diritto processuale in
vari Stati membri, dovrebbe essere inteso e applicato in modo da ritenerlo

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coinvolgenti più Stati dal punto di vista territoriale era stata già avvertita

soddisfatto quando ogni Stato membro garantisce l’azione penale in relazione ad
un determinato reato».
Invero, la decisione quadro si prefigge non solo di indicare le modalità per
risolvere consensualmente il conflitto di giurisdizione tra Stati membri in
presenza di «procedimenti paralleli» già in corso, ma anche significativamente si
rivolge agli Stati membri affinché siano evitati «procedimenti penali paralleli
superflui che potrebbero determinare la violazione del principio del

ne bis in

idem».

di arresto europeo, in conformità di quanto stabilisce la decisione quadro del
2009, «non dovrebbe dar luogo ad un conflitto nell’esercizio della giurisdizione
che altrimenti non si verificherebbe», non potendo la mera esecuzione del
mandato di arresto europeo dar vita essa stessa ad un procedimento penale che
si riveli superfluo, in quanto già lo Stato membro di emissione garantisce l’azione
penale in relazione a quel determinato reato.
Il che significa, coerentemente con quanto già affermato da questa Corte
con la sentenza n. 5549 del 01/02/2018, Manco, cit., che solo l’esistenza nello
Stato di un procedimento penale parallelo per il fatto, oggetto del mandato di
arresto europeo, commesso in tutto o in parte nel suo territorio, o in luogo
assimilato al suo territorio, giustifica il rifiuto della consegna ai sensi della lettera

p) dell’art. 18 cit., in quanto in tal caso la soluzione del conflitto (già esistente e
non meramente potenziale) deve trovare necessaria soluzione nel meccanismo
disciplinato dalla decisione quadro del 2009 e dal d.lgs. n. 29 del 2016.
In tal caso il rifiuto della consegna viene effettivamente a tutelare le
prerogative dello Stato di esecuzione in funzione della composizione del conflitto
(non impedendo, è bene precisare, una successiva richiesta di consegna per il
medesimo fatto, nel caso di accordo sulla concentrazione del procedimento nello
Stato membro di emissione).
La lettura ora proposta della norma non verrebbe in ogni caso a duplicare
l’ipotesi di rifiuto prevista dalla lettera o) dell’art. 18 cit., che riguarda la diversa
ipotesi di reato non commesso neppure in parte nello Stato (in tal senso si era
espresso il Consiglio di Europa con riferimento all’analogo motivo di rifiuto
previsto dall’art. 8 della Convenzione europea di estradizione, cfr. Rapporto
esplicativo, pag. 8) e comunque di reato del tutto sovrapponibile a quello
oggetto del mandato di arresto europeo, nel caso in cui sia «in corso un
procedimento penale in Italia». Evenienza questa che si realizza, a differenza
della ipotesi di cui alla lettera p) cit., solo quando è stata esercitata l’azione
penale ovvero è stata emessa un’ordinanza applicativa della custodia cautelare

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Quindi, deve ritenersi che anche la applicazione della disciplina sul mandato

(cfr. in tema di estradizione, tra le tante, Sez. 6, n. 26290 del 28/05/2013,
Paredes Morales, Rv. 256565).
4.4. Va infine aggiunto un ulteriore tassello a giustificazione dell’esegesi ora
accolta della lettera p) dell’art. 18 cit.
La Corte di giustizia, con riferimento alle ipotesi di rifiuto della consegna
previste dalla decisione quadro del 2002, ha avuto modo di chiarire (sentenza 29
giugno 2017, C-579/15) che, laddove sia previsto il rifiuto della consegna in
funzione della priorità data alla giustizia nazionale (nella specie, per consentire

Stato di esecuzione non può rifiutare la consegna solo sulla astratta possibilità di
esercitare la suddetta opzione, ovvero senza aver proceduto prima del rifiuto alla
verifica in concreto della “presa in carico” dell’azione (nella specie esecutiva).
Diversamente, si verrebbe a creare un rischio di impunità del ricercato, che non
può essere considerato conforme alla citata decisione quadro.
Invero, la ipotetica ed astratta rappresentazione al giudice della consegna
della commissione nel territorio dello Stato di quel “frammento” della condotta
sufficiente, secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità, ai fini
dell’affermazione della giurisdizione italiana, ai sensi dell’art. 6, secondo comma,
cod. pen. porterebbe quindi anche ad un’interpretazione che non assicura la
piena efficacia della decisione quadro nel senso ora precisato.
Né la verifica richiesta dalla Corte di giustizia può trasformare la natura del
controllo affidato allo Stato di esecuzione che, considerati anche i tempi contratti
che la contraddistinguono, non può sfociare giammai nell’esame del merito dei
fatti contestati (Sez. U, n. 4614 del 30/01/2007, Ramoci, Rv. 235348), con
l’acquisizione dell’intero dossier processuale straniero al fine di stabilire con
affidabile certezza l’effettiva consumazione anche parziale del reato sul territorio
dello Stato.
Invero l’unico riferimento in possesso del giudice nazionale per valutare la
territorialità del reato resta pur sempre la relazione trasmessa dallo Stato
richiedente (o gli atti ad essa equipollenti, tra le tante, Sez. 6, n. 38850 del
20/10/2011, Estrada Ortiz, Rv. 250793), nella quale sono contenute sintetiche
informazioni, funzionali a consentire il “controllo sufficiente” richiesto dalla
decisione quadro, in ordine alle quali, come osservato dalla dottrina, lo Stato di
emissione non ha vieppiù spesso alcun interesse a far emergere dati fattuali
idonei a far radicare all’estero la commissione di parte della condotta illecita.
4.5. Venendo quindi al caso in esame, la censura del ricorrente non può
essere accolta, in quanto, come emerge dalla sentenza impugnata e dalle stesse
allegazioni difensive, la applicazione dell’art. 6, secondo comma, cod. pen. è
stata prospettata in termini solamente astratti, senza che risulti alcuna iniziativa

12

l’esecuzione nello Stato della pena oggetto del mandato di arresto europeo), lo

investigativa in atto in Italia sui fatti (diversi da quelli per i quali si procede in
Italia) oggetto del mandato di arresto europeo.

5. Sulla base di quanto premesso, il ricorso va rigettato con le conseguenze
di legge.
La Cancelleria provvederà alle comunicazioni di rito.
P.Q.M.

processuali.
Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 22, comma 5, I. n.
69 del 2005.
Così deciso il 04/04/2018.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese

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