Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 15788 del 11/10/2017

Penale Sent. Sez. 3 Num. 15788 Anno 2018
Presidente: CAVALLO ALDO
Relatore: RENOLDI CARLO

SENTENZA
sul ricorso proposto da
B.B.,
A.A.
XX S.p.A.,
avverso la sentenza del 14/07/2016 della Corte d’appello di Brescia;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Carlo Renoldi;
udito il Pubblico Ministero, in persona del sostituto Procuratore generale, dott.ssa
Marilia Di Nardo, che ha concluso chiedendo la declaratoria di inammissibilità dei
ricorsi proposti da B.B. e A.A.e l’annullamento, senza rinvio, della sentenza
impugnata relativamente a XX S.p.A.;
uditi, per í ricorrenti, gli avv.ti Alessandro Mainardi (per B.B.), Fabio Lattanzi
(per A.A.), Marco Schicchitano, comparso in sostituzione dell’avv. Giacomo
Lombardi (per XX S.p.A.), i quali hanno concluso chiedendo
l’accoglimento dei rispettivi ricorsi.

RITENUTO IN FATTO
1. B.B. e A.A. erano stati tratti a giudizio davanti al
Tribunale di Brescia per rispondere di una serie di delitti in materia tributaria e,
nel caso del solo A.A., contro la pubblica amministrazione, nonché del delitto
di associazione per delinquere finalizzata alla commissione di una pluralità
indeterminata di violazioni finanziarie e contro la pubblica amministrazione. In

Data Udienza: 11/10/2017

particolare, secondo l’ipotesi di accusa, B.B. aveva costituito, organizzato e
gestito un’associazione per delinquere volta alla commissione di delitti di natura
fiscale, attraverso la pianificazione contabile dell’attività, la costituzione di
società “cartiere” incaricate di emettere fatture per operazioni inesistenti e
fungendo, le stesse, da fittizie intestatarie dei contratti di lavoro nei cantieri della
società dello stesso B.B; associazione strutturata su tre livelli, al vertice della
quale vi sarebbe stata la XX  S.p.A., società appaltatrice di
importanti opere pubbliche, al secondo livello la società P.F.S., riconducibile ai

cartiere riferibili ad altri tre coimputati Dario Scarsetti, Santino Garibotti e Carlo
Vezzoli (tutti giudicati separatamente). All’interno di tale sodalizio, A.A.
avrebbe poi svolto l’attività di commercialista e di consulente contabile delle
società cartiere coinvolte, partecipando, attraverso la prestazione di un
essenziale contributo tecnico-consultivo, al complesso meccanismo di frode
fiscale costituente attuazione degli scopi sociali dell’organizzazione criminale.
1.1. Con sentenza in data 14/05/2015, pronunciata all’esito di una istruttoria
dibattimentale caratterizzata da numerose testimonianze e dall’esame dei due
imputati, dalla trascrizione di intercettazioni telefoniche e dalle produzioni offerte
dalle varie parti processuali, nonché da un memoriale con cui B.B.
aveva reso ampia confessione in relazione ai delitti contestati ai capi B) e C)
della rubrica, il Tribunale di Brescia aveva affermato la responsabilità penale
dello stesso B.B e di A.A. in relazione a soltanto alcuni dei reati agli
stessi ascritti e segnatamente: quanto al primo, in relazione ai delitti, unificati
dal vincolo della continuazione, previsti dall’art. 2 del d.lgs. n. 74 del 2000 per
avere indicato, nella sua qualità di amministratore della XX
S.p.A. ed al fine di evadere le imposte sui redditi e sul valore aggiunto, nelle
dichiarazioni relative agli anni di imposta 2008, 2009 e 2010, elementi passivi
fittizi, avvalendosi di fatture e di altri documenti per operazioni inesistenti emessi
dalle società e per i valori indicati in imputazione (capo B), nonché dall’art. 8 del
medesimo decreto, per avere, nella stessa qualità, al fine di consentire la
evasione delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto, emesso fatture per
operazioni inesistenti per i valori indicati nei prospetti indicati in imputazione
(capo C); e, quanto a A.A., in relazione ai delitti, unificati dal vincolo della
continuazione, previsti dagli artt. 110 cod. pen., 10-quater del d.lgs. n. 74 del
2000 per avere, in concorso con numerosi coimputati, tutti giudicati
separatamente, creato, in capo alle società cartiere indicate in imputazione,
crediti non spettanti o inesistenti, così consentendo la loro utilizzazione ex art.
17 del d.lgs. n. 241 del 1997 in compensazione delle somme dovute a titolo di
contributi previdenziali e assistenziali per i lavoratori dipendenti per gli anni
2008, 2009, 2010 e 2011, per i valori anch’essi indicati in imputazione (capo D),

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coimputati Moris Salvoni e Alberto Piceni e, infine, al terzo livello, le società

dagli artt. 61 n. 2 cod. pen. e 10 del d.lgs. n. 74 del 2000, per avere, in
concorso con i menzionati Garibotti, Scarsetti e Vezzoli, al fine di commettere i
delitti di cui ai capi precedenti o, comunque, per conseguire l’impunità per gli
stessi, distrutto o comunque occultato le scritture contabili e i documenti della
società Bresco Edil S.r.l. in modo da non consentirne la ricostruzione dei redditi o
del volume degli affari (capo I), nonché dagli artt. 110, 319 e 321 cod. pen., per
avere, in concorso sempre con Garibotti, Scarsetti e Vezzoli, promesso e quindi
consegnato a Nicola Gatto, pubblico ufficiale in servizio presso la Cassa Edile di
Lodi, la somma di 1.500 euro per fargli omettere un atto del suo ufficio,
Veca

consistente nei controlli ispettivi presso il cantiere gestito dalle società

Costruzioni e Prisma Costruzioni S.r.l. (capo K). Pertanto, i due imputati erano
stati condannati, B.B., alla pena di tre anni e di tre mesi di reclusione (con le
attenuanti generiche) e, A.A., a qualla di tre anni di reclusione, oltre a varie
pene accessorie, con confisca diretta e per equivalente di una serie di beni mobili
e immobili riferibili ad entrambi.
1.2. B.B. e A.A. erano stati, invece, assolti dal delitto di associazione per
delinquere ad essi contestata al capo A). Ciò in quanto, secondo la valutazione
del tribunale, doveva riconoscersi “un’intrinseca debolezza del quadro
accusatorio circa la sussistenza della fattispecie associativa, destinata a cedere il
passo a una più verosimile (e di fatto dimostrata) situazione di compravendita di
servizi (illeciti) da parte delle società di terzo livello” (ovvero le cartiere) “verso
una società (la XX S.p.A. di B.B.) in progressivo e profondo affanno,
destinata ad essere travolta dal meccanismo stesso che le società cartiere
avevano offerto come il sistema per la risoluzione delle problematiche di
liquidità” (v. p. 108 della sentenza di primo grado). Significativi, a questo
riguardo, erano stati ritenuti dal tribunale sia il fatto che, alla stregua delle
copiose produzioni della difesa di B.B. e dei contenuti del suo memoriale
difensivo, Scarsetti, unitamente a Garibotti e Vezzoli, avesse realizzato, fin dagli
anni ’90, una rete di società cartiere destinate a breve vita, che iniziavano ad
operare con un credito Iva conseguito mediante l’emissione di false fatture di
vendita, emesse da una loro società (poi chiusa) alla nuova società; sia il fatto
che tali “cartiere” operavano nel territorio lombardo a favore di vari committenti
e che, alla stregua delle testimonianze “assistite” rese in sede dibattimentale, ex
art. 197-bis cod. proc. pen., da Piceni, Scarsetti e Salvoni, fosse emersa,
diversamente da quanto dagli stessi riferito in sede di interrogatorio reso quando
si trovavano in custodia cautelare, “l’assenza di qualsivoglia ordine proveniente
dall’alto e cioè da B.B., il quale aveva certo illustrato”, a costoro, “per sommi
capi, il meccanismo dei subappalti ma non aveva certo imposto alcuna
condotta”, circa assunzioni o dismissioni degli operai nonché quello della
costituzione delle società cartiere, limitandosi, nel caso del teste Salvoni, a

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illustrare, nel corso di un abboccamento, come risparmiare sui dipendenti (v. p.
107 della sentenza del tribunale).
Ritenuta l’assenza di prova circa il ruolo di vertice dell’intero 91 sodalizio
svolto da B.B., costui era stato, inoltre, assolto dall’accusa relativa al delitto
contestato al capo D) della rubrica. Secondo il Tribunale, infatti, come già
osservato, il credito di imposta delle società cartiere “era preesistente
all’affacciarsi di B.B. nel complessivo impianto delittuoso, come affermato in
particolar modo da Scarsetti”, il quale aveva riferito “di essersi offerto egli stesso

essendo a credito Iva” (v. p. 95 della sentenza del tribunale).
Il Tribunale aveva, inoltre, assolto le società XX S.p.A. e
P.F.S. Costruzioni S.r.I., con la formula “perché il fatto non sussiste”, in relazione
all’illecito amministrativo alle stesse contestato rispettivamente ai capi R) e S)
della rubrica. Secondo la contestazione, la responsabilità dell’ente sarebbe
scaturita dall’avere commesso, i loro legali rappresentanti, il delitto di
associazione per delinquere di cui al capo A), nell’interesse o comunque a
vantaggio della società, senza che fossero stati previamente adottati modelli di
organizzazione e di gestione idonei a prevenire delitti della specie di quello
contestato al predetto capo.
2. A seguito di impugnazione del pubblico ministero e degli stessi B.B. e
A.A., la Corte d’appello di Brescia, con sentenza in data 14/07/2016, emessa
in parziale riforma della pronuncia di primo grado, dichiarò la responsabilità
penale di B.B. anche per i reati allo stesso ascritti ai capi A) e D) della rubrica,
con esclusione, per quanto concerne quest’ultimo delitto, delle compensazioni
operate da Unicoop S.r.l. e Veca Costruzioni S.r.I., nonché di A.A. anche per il
delitto contestato al capo A), per l’effetto rideterminando la pena, nei confronti di
entrambi, rispettivamente in sei anni di reclusione e in quattro anni di reclusione.
Inoltre, la Corte territoriale dichiarò le società
P.F.S. Costruzioni S.r.I.,

XX S.p.A. e

in persona dei rispettivi curatori fallimentari,

responsabili dell’illecito amministrativo alle stesse ascritto, applicando a ciascuno
dei curatori la sanzione amministrativa pecuniaria prevista dagli artt. 24-ter e 10
del d.lgs. n. 231 del 2001, per complessivi 250.000,00 euro.
2.1. Quanto, in particolare, al delitto contestato al capo A), la Corte
territoriale ritenne che fosse stata dimostrata la sussistenza di un reato
associativo, realizzato attraverso un consolidato

modus operandi

attuato

nell’ambito di una organizzazione piramidale, costituita allo scopo di realizzare
un vantaggio economico per la società XX. In particolare, secondo la Corte
territoriale grazie all’utilizzo di alcune società cartiere era stato realizzato uno
schema illecito, ripetuto negli anni ed articolatosi attraverso alcuni meccanismi
tipici del sistema frodatorío: il primo posto in essere, con la finalità di creare un
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all’B.B. come risolutore delle sue problematiche affermando di poterlo fare

ingente credito Iva a favore di XX, mediante l’uso di false fatture di
acquisto emesse nei confronti di tale società da alcune “cartiere”, i cui formali
amministratori e gestori di fatto avevano agito secondo le direttive di B.B. ; il
secondo consistente nell’emissione, sempre da parte di XX, di false fatture
in reverse charge nei confronti delle società cartiere, con la restituzione dell’Iva
da parte di queste ultime, al netto dell’aggio del 7%, in denaro contante. Inoltre,
la Corte territoriale aveva ritenuto che, in forza di un fittizio contratto di
subappalto, i lavori eseguiti nei cantieri di XX fossero stati effettuati, in
realtà, dalle società cartiere, le quali avevano preventivamente assunto la

manodopera su impulso di XX ; che l’obbligo di pagare i contributi agli
operai era stato trasferito, in tal modo, alle società cartiere, le quali lo avevano
compensato con il credito Iva conseguito grazie ai falsi acquisti di materiali da
parte di XX e, perciò, con emissione di fatture “ivate”; che benché non vi
fosse prova documentale, relativamente al capo C), del fatto che le fatture
emesse da B.B. in regime di reverse charge fossero state utilizzate dalle
cartiere, l’imputato era certamente responsabile del delitto di frode fiscale,
essendo quest’ultimo un reato di pericolo di mera condotta; che B.B. doveva
rispondere del fatto contestato al capo D) in quanto era stato lui a creare la
società P.F.S. tramite due suoi conoscenti, Salvoni e Piceni, e proprio al fine di
abbattere il costo della manodopera; che, ancora, era stato B.B. a
programmare “a tavolino” il meccanismo di costituzione e di organizzazione delle
società in tre livelli; che la manodopera era affidata a P.F.S. Costruzioni ma a
beneficio delle esigenze di XX ; che, sempre con riferimento al capo D), le
società di terzo livello compensassero i contributi per gli operai in base alle false
fatture emesse da B.B. ; che quest’ultimo aveva indirettamente rapporti con
tutti i consociati, ivi compreso il commercialista delle cartiere, A.A., con il
quale pure non erano stati documentati contatti: e ciò grazie all’intermediazione
di Scarsetti, Garibotti e Vezzoli. Secondo la Corte territoriale, dunque, le
circostanze riportate e le argomentazioni sviluppate relativamente ai reati-fine
consentivano di ricostruire congruamente anche la consumazione del reato
associativo. Secondo i giudici di appello, infatti, non era certo prospettabile, da
un punto di vista logico, che B.B. si fosse rivolto a Scarsetti e Garibotti per
fronteggiare talune diffidenze del ceto bancario in ordine alle aperture di credito,
come da lui sostenuto; le società utilizzate dal sistema frodatorio non avevapa “K-avrebbero avuto ragione di interfacciarsi con B.B., in quanto certamente le
false fatturazioni tra costui e la “triade” (Garíbotti, Scarsetti e Vezzoli) erano
risalenti nel tempo; a detta di Salvoni era stato B.B. a organizzare l’incontro
tra lui e Piceni con Garibotti, Scarsetti e Vezzoli in base ad una strategia unitaria,
desumibile da svariate intercettazioni telefoniche; il dato dichiarativo offerto da
Scarsetti e Salvoni dimostrava che era stato B.B. a proporre a Salvoni e Píceni

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la costituzione del secondo livello per creare un diaframma tra XX e le
cartiere: e di ciò vi era finanche il conforto delle copiose intercettazioni.
3. Avverso la sentenza d’appello hanno proposto ricorso per cassazione
B.B. e A.A. a mezzo dei rispettivi difensori fiduciari.
Ha, inoltre, proposto ricorso l’avv. Giacomo Lombardi per conto della XX
Costruzioni S.p.A..
3.1. Muovendo dalla disamina del ricorso proposto dall’avv. Alessandro
Mainardi nell’interesse di B.B., l’impugnazione si articola in sei

la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen..
3.1.1. Con il primo di essi, il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 606, comma
1, lett. B), C) ed E), cod. proc. pen., l’inosservanza o erronea applicazione della
legge penale in relazione agli artt. 416 cod. pen. e 192, commi 3 e 4 cod. proc.
pen., nonché la manifesta illogicità della motivazione in relazione alla “omessa
disamina di plurime decisive risultanze probatorie nonché al travisamento di altre
ulteriori fonti di prova”.
In particolare, la sentenza avrebbe omesso di confrontarsi con le osservazioni
difensive svolte dall’imputato in sede di esame dibattimentale, asseritamente
suffragate dalla documentazione in atti (costituita dalle visure delle società
riferibili a Garibottí Scarsetti e Vezzoli, attestanti la costituzione delle cartiere sia
prima che dopo i fatti per cui è processo, secondo quanto confermato dal tenente
colonnello De Gasperi della Guardia di Finanza e, quanto alla esistenza di
cartiere, dallo stesso Luogotenente Abbaterusso), da plurime deposizioni
testimoniali (in particolare di Silvano Mombelli e di Fabio Migliorati, nonché dei
testi assistiti Moris Salvoni, Dario Scarsetti e Alberto Piceni) e dal contenuto di
svariate intercettazioni telefoniche. Osservazioni difensive da cui sarebbe emerso
che B.B., a fronte dell’esigenza di sostenere il rilevante apporto
del credito bancario e non potendo più utilizzare le “riba” fittiziamente create da
società del suo gruppo, nel 2008 aveva chiesto a Scarsetti, Garibotti e Vezzoli – i
quali, da molti anni e ben prima della vicenda per cui è processo avevano
ampiamente rodato e affinato il sistema delle società cartiere messe a
disposizione del “mercato” – di poter emettere, a favore di alcune delle loro
società, fatture in reverse charge, in modo da poter depositare presso gli istituti
di credito delle “riba” a loro carico. Ed inoltre, che per poter finanziare tale
artificio, si era stabilito di far emettere da altre società, comunque riferibili agli
stessi Scarsettí, Garibotti e Vezzolí, fatture con Iva relativa a forniture di
materiali alla sua società XX S.p.a.; e che in questo modo, mediante il
pagamento da parte di XX delle fatture ivate, i tre utilizzassero la provvista
così conseguita per pagare le “riba”. Pertanto, la Corte territoriale avrebbe errato
nel ritenere che le società cartiere con cui B.B. si era rapportato fossero state

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motivi di impugnazione, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per

costituite appositamente per assecondarne il progetto frodatorio nonché
nell’escludere che Scarsetti, Garibotti e Vezzoli avessero offerto al mercato, in
autonomia, società alle quali formalmente intestare la manodopera con la
prospettiva di compensare i contributi previdenziali con il credito Iva, “già in
pancia” delle nuove società cartiere e, infine, nell’assegnare alla P.F.S. di Salvoni
e Piceni la funzione di “secondo livello” dell’associazione, funzionale alla
realizzazione di uno schermo tra la XX e le società cartiere in relazione
all’impiego della manodopera nei cantieri edili. Circostanza, quest’ultima, esclusa

Mombelli e Fabio Migliorati, da cui sarebbe emerso che le società di Salvoni e
Piceni operavano per svariati clienti e non già soltanto per XX, talché la
P.F.S. avrebbe fatturato per XX, in relazione alle prestazioni d’opera di
carpenteria, soltanto un quarto del suo fatturato complessivo. Sotto altro profilo,
nell’affermare che la P.F.S. fosse stata costituita come società di secondo livello,
la Corte territoriale avrebbe violato le disposizioni dettate dall’art. 192, commi 2,
3 e 4 cod. proc. pen. in relazione alla valutazione delle dichiarazioni dei testi
assistiti, Scarsetti, Salvoni e Piceni, utilizzando meri brani delle loro deposizioni
ed omissando altri passaggi significativi. In particolare, dalle dichiarazioni rese
da Scarsetti sarebbe emerso che fosse stato quest’ultimo ad avere offerto

i

propri servizi ad B.B., sicché non sarebbe stato quest’ultimo a ordinare la
realizzazione della cartiere. Analogamente, Piceni, pur smentendo quanto
affermato in sede di interrogatorio davanti al pubblico ministero, avrebbe
affermato di essere stato sempre a conoscenza del sistema per risparmiare i
contributi, di sapere da tempo dell’attività cartiera di Scarsettí, Garibotti e
Vezzoli, sicché erroneamente la Corte territoriale avrebbe affermato che fosse
stato B.B. a veicolare la PFS verso le società cartiere, tanto più che sulla scorta
delle produzioni difensive effettuate il 17/11/2014 e della testimonianza di
Mombelli, sarebbe risultato provato che Picení e Salvoni si fossero serviti di
alcune cartiere del trio Scarsetti, Garibotti e Vezzoli, già all’epoca in cui essi
operavano con la cooperativa

COGECA. Infine, Salvoni avrebbe chiarito che

B.B. gli aveva illustrato, solo per sommi capi, il meccanismo dei subappalti,
senza però imporre alcuna condotta, tanto meno le assunzioni o le dismissioni
degli operai o il passaggio degli stessi da una società all’altra. Dunque, né
Salvoni e Piceni avrebbero attestato che i rapporti di false fatturazioni tra B.B.
e la “triade” erano risalenti nel tempo, né Scarsetti avrebbe affermato che la sua
conoscenza con B.B. risaliva a prima del 2008 ed aveva già riguardato rapporti
di illecita fatturazione; né Salvoni e Piceni avrebbero riferito che B.B. avesse
loro indicato di costituire la P.F.S. “per creare un passaggio intermedio” tra
XX e le cartiere.

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dalle produzioni effettuate il 17/11/2014 e dalle testimonianze di Silvano

Conclusivamente, il ricorrente rappresenta che secondo le acquisizioni
istruttorie:
– i rapporti di B.B. con Garibotti, Scarsetti e Vezzoli fossero afferenti ai reati
sub B) e C) della rubrica nei modi descritti dall’imputato e non pianificabili, ma di
volta in volta determinati dall’insorgere di problematiche finanziarie da parte di
B.B. ;
– i rapporti tra PFS di Salvoni e Piceni con Scarsetti, Garibotti e Vezzoli
sarebbero stati autonomamente intrapresi fin dal 2006/2007 come sarebbe
COGECA (società cooperativa degli stessi

Salvoni e Piceni), e, di volta in volta, rinnovati in base alle esigenze di
manodopera di PFS;
– i rapporti di B.B. con Garibotti, Scarsetti e Vezzoli, consistiti nello scambio
fatture in reverse charge con fatture ivate a fini di ri.ba sarebbero stati
ontologicamente diversi dai rapporti tra società cartiere e P.F.S.;
– il furto di 2.200.000 euro perpetrato da Garibotti, Scarsetti e Vezzolí in
danno di Massimiliano B.B. , come da costui riferito e risultante dalle
intercettazioni telefoniche del giugno-agosto 2010, sarebbe stato dimostrativo
dell’inesistenza di un’organica pianificazione dei rapporti dare-avere.
3.1.2. Con il secondo motivo, la difesa di B.B. censura, ex art. 606, comma
1, lett. B) ed E), cod. proc. pen., l’inosservanza o erronea applicazione della
legge penale nonché la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della
motivazione in relazione all’art. 6 CEDU. e agli artt. 533 e 603, comma 3 cod.
proc. pen.. La Corte territoriale avrebbe riformato la sentenza assolutoria di
primo grado in ordine al reato associativo affermando la penale responsabilità
eminentemente sulla base di una diversa valutazione di attendibilità delle
dichiarazioni di Dario Scarsetti, Alberto Piceni e Moris Salvoni, senza procedere a
nuova escussione degli stessi e, dunque, in violazione al’orientamento
giurisprudenziale, da ultimo riaffermato con la sentenza Sez. Un., n. 27620 del
28/04/2016, dep. 6/07/2016, Dasgupta, secondo cui il giudice di appello non
può pervenire a condanna in riforma della sentenza assolutoria di primo grado
basandosi esclusivamente, o comunque in modo determinante, su una diversa
valutazione delle fonti dichiarative delle quali non abbia proceduto anche d’ufficio
a una rinnovata assunzione. Nel caso di specie, le anzidette dichiarazioni
sarebbero state evocate dalla Corte territoriale quale elemento probatorio
decisivo al fine di attribuire ad B.B. l’ordine di costituzione delle cartiere
utilizzate, nonché l’ordine di costituzione della società PFS – il cd. secondo livello
– al fine di farne uno schermo per l’utilizzo della manodopera in nero.
3.1.3. Con il terzo motivo, il ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 606, comma
1 lett. B) ed E), cod. proc. pen., l’inosservanza o erronea applicazione della legge
penale nonché la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della
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dimostrato dall’elenco fornitori di

motivazione in relazione alla compartecipazione di B.B. al delitto previsto
dall’art. 10-quater del d.lgs. n. 74 del 2000, ascritto, in concorso tra loro, a
Garibotti, Scarsetti e Vezzoli in relazione alla compensazione attuata dalle
società cartiere tra i crediti Iva e gli importi dovuti a titolo di ritenute
previdenziali.
3.1.4. Con il quarto motivo, il ricorrente si duole, ai sensi dell’art. 606,
comma 1, lett. B) ed E), cod. proc. pen., dell’inosservanza o erronea
applicazione della legge penale nonché della mancanza, contraddittorietà e

previsto dall’art. 8 del d.lgs. n. 74 del 2000 e contestato al capo C). Secondo la
tesi difensiva, non essendo stata dimostrata l’effettiva emissione delle fatture in
reverse charge

da parte della

XX S.p.A.,

né l’effettiva

utilizzazione delle stesse, da parte delle società “cartiere”, al fine di evadere le
imposte sui redditi, il delitto non avrebbe potuto essere integrato, tanto più che
la sentenza non avrebbe vagliato le giustificazioni addotte da B.B. in ordine al
fatto che le fatture sarebbero state emesse unicamente per emettere, a loro
volta, delle ricevute bancarie da scontare presso gli istituti di credito.
3.1.5. Con il quinto motivo, la difesa di B.B. denuncia, ai sensi dell’art. 606,
comma 1 lett. B) ed E), cod. proc. pen., l’inosservanza o erronea applicazione
della legge penale in relazione agli artt. 81 cpv., 132 e 133 cod. pen. nonché la
mancanza della motivazione in relazione alla mancata esplicazione delle ragioni
per le quali, una volta determinata la pena base per il più grave delitto di cui al
capo A), l’aumento in relazione ai delitti contestati ai capi B), C) e D) sia stato
determinato in misura pari a un anno di reclusione per ciascuno di essi.
3.1.6. Con il sesto motivo, il ricorrente censura, ai sensi dell’art. 606, comma
1 lett. B), cod. proc. pen., l’inosservanza o erronea applicazione della legge
processuale penale in relazione agli artt. 523, 525, comma 1 e 544 cod. proc.
pen., con conseguente nullità della sentenza ai sensi dell’art. 178 del codice di
rito. Il dispositivo della sentenza impugnata recherebbe non la data della sua
lettura, ovvero il 14/07/2016, corrispondente all’udienza di rinvio per eventuali
repliche delle parti, in realtà mai formulate; quanto quella, ad essa anteriore, del
12/07/2016. Pertanto, non essendo mai stata avviata la procedura per
correzione dell’errore materiale, si deduce che la deliberazione sia avvenuta
prima dell’udienza per eventuali repliche e della formale chiusura del
dibattimento, con conseguente violazione delle regole processuali e nullità della
pronuncia.
3.2. Venendo, quindi, al ricorso proposto dagli avv.ti Fabio Lattanzi e Luigi
Giugliano nell’interesse di A.A., l’impugnazione si articola in sei distinti
motivi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione
ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen..

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manifesta illogicità della motivazione in relazione alla configurabilità del delitto

3.2.1. Con il primo di essi, il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 606, comma
1, lett. B) ed E), cod. proc. pen., l’inosservanza o erronea applicazione della
legge penale in relazione all’art. 416 cod. pen. nonché la mancanza,
contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione all’art. 125,
comma 3 cod. proc. pen.. Sotto un primo profilo, la sentenza impugnata avrebbe
erroneamente affermato l’esistenza di una associazione per delinquere a partire
dal dato, invero, non concludente, relativo all’esistenza di una struttura
societaria, senza che però sia stata dimostrata l’esistenza di un vincolo

appello avrebbero errato nell’affermare che fosse stata dimostrata la
partecipazione di A.A. al sodalizio, apoditticamente rinvenuta nella asserita
necessità che la presunta associazione disponesse di figure professionali in grado
di muoversi consapevolmente in ambito fiscale. La sentenza, infine, sarebbe

illogica laddove avrebbe ritenuto ininfluente la circostanza che B.B. V, indicato
come il dominus del sodalizio, nell’ambito del quale sarebbe stato necessario
realizzare una gestione contabile accentrata, non conoscesse e non avesse avuto
alcun contatto con lo stesso A.A. , ovvero con il soggetto al quale sarebbe
stata affidata l’intera gestione contabile delle cartiere.
3.2.2 Con il secondo motivo, la difesa di A.A. censura, ex art. 606, comma
1, lett. B) ed E), cod. proc. pen., l’inosservanza o erronea applicazione della
legge penale in relazione all’art. 10-quater del d.lgs. n. 74 del 2000, contestato
al capo D) della rubrica, nonché la mancanza, contraddittorietà e manifesta
illogicità della motivazione in relazione all’art. 125, comma 3 cod. proc. pen.. La
sentenza di secondo grado, infatti, avrebbe omesso di rispondere alle doglianze
con le quali, nell’atto di appello, era stato dedotto che nel capo D)
dell’imputazione non fossero state indicate le fatture relative alle operazioni
asseritamente inesistenti, né le società che le avrebbero emesse; e con le quali
era stato opinato che le operazioni inesistenti contestate al capo D), che secondo
l’ipotesi accusatoria sarebbero state utilizzate in compensazione, sarebbero
state, in realtà, esenti da Iva e, come tali, inidonee allo scopo. Inoltre, in
relazione alla mancata dimostrazione della consapevolezza di A.A.dell’attività
di illecita compensazione, la sentenza avrebbe illogicamente tratto argomento a
favore della piena conoscenza dell’attività illecita dal fatto che il commercialista
si interfacciasse con i gestori di fatto delle cartiere e come, in presenza di palesi

indici di anomalia delle società in questione, egli dovesse certamente avvedersi
della loro “operatività solo fittizia”.
3.2.3. Con il terzo motivo, il ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 606, comma
1 lett. E), cod. proc. pen., la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità
della motivazione in relazione all’art. 125, comma 3 cod. proc. pen. in relazione
all’affermazione di responsabilità di A.A. per il delitto di distruzione o

10

associativo stabile e di un programma criminoso. Sotto altro profilo, i giudici di

occultamento delle scritture contabili, non avendo la Corte territoriale
adeguatamente valorizzato alcuni elementi di fatto pacificamente provati nel
corso del dibattimento: la circostanza che fosse stata depositata la quietanza
relativa alla consegna a Proto, da parte di A.A., dei documenti contabili; che
la non operatività della Bresco era dovuta al recente trasferimento della sede;
che la posta della società veniva ritirata non da A.A.  ma dalle sue impiegate,
su richiesta di quelle della Bresco; che le intercettazioni tra Forlani e Garibotti
avrebbero dimostrato che A.A. fosse convinto dell’avvenuto allagamento dei

3.2.4. Con il quarto motivo, la difesa di A.A. si duole, ai sensi dell’art.
606, comma 1 lett. B) ed E), cod. proc. pen., dell’inosservanza o erronea
applicazione della legge penale in relazione agli artt. 319 e 321 cod. pen. nonché
della mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in
relazione all’art. 125, comma 3 cod. proc. pen.. I giudici di appello non
avrebbero dimostrato il coinvolgimento di A.A. nella dazione della somma al
funzionario corrotto, Nicola Gatto, che sarebbe stata ordita a sua insaputa dai
coimputati Vezzoli e Scarsetti, come emergerebbe da una intercettazione
telefonica tra i due. La circostanza che l’incontro con Gatto, nel corso del quale
aveva avuto luogo la dazione della somma, fosse avvenuto nello studio di
A.A. non ne proverebbe la compartecipazione illecita, tenuto conto del fatto
che lo stesso A.A. prestava la propria opera professionale a favore delle
società controllate e che, quindi, l’incontro nel suo studio, ove era disponibile la
documentazione utile al controllo, sarebbe stato del tutto giustificato.
3.2.5. Con il quinto motivo, il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 606,
comma 1 lett. E), cod. proc. pen., la mancanza, contraddittorietà e manifesta
illogicità della motivazione in relazione all’art. 125, comma 3 cod. proc. pen.
sotto il profilo del mancato riconoscimento delle attenuanti generiche, che la
sentenza avrebbe apoditticamente giustificato con la “evidente gravità del
comportamento tenuto”, senza considerare gli elementi a favore evidenziati dalla
difesa, quali la corretta condotta professionale svolta per molti anni, la sua
irreprensibile condotta di vita, il leale comportamento processuale.
3.2.6. Con il sesto motivo, la difesa di A.A. lamenta, ai sensi dell’art. 606,
comma 1 lett. B) ed E), cod. proc. pen., l’inosservanza o erronea applicazione
della legge penale in relazione all’art. 322-ter cod. proc. pen. nonché la
mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione
all’art. 125, comma 3 cod. proc. pen.. Sotto un primo aspetto, si rileva come la
Corte territoriale non abbia risposto alla questione, posta in sede di appello,
relativa alla necessità di scomputare alcune somme (quali quella relativa ai
crediti oggetto di indebita compensazione di alcune società che A.A. non
aveva assistito professionalmente, nonché quella detratta dalla Edil Com S.r.I.,

11

locali in cui era custodita la documentazione contabile.

che non sarebbe mai stata cliente dell’imputato). Sotto altro profilo, si osserva
come i giudici di appello abbiano erroneamente ritenuto che il bene sottoposto a
confisca, pur formalmente intestato alla moglie dell’imputato, fosse in realtà
appartenente a quest’ultimo. In particolare, la sentenza impugnata non avrebbe
risposto alle censure svolte in appello circa l’acquisto dell’immobile con i fondi
presenti su un conto corrente bancario intestato alla donna e alimentato da
prestiti e donazioni di amici e parenti, nonché utilizzando somme che le
sarebbero state fornite dal marito, il quale le avrebbe, in realtà, restituito quanto

3.3. Con atto depositato in data 26/11/2016 ha proposto per cassazione
anche l’avv. Giacomo Lombardi in nome e per conto della XX
S.p.A., il quale, dopo avere sunteggiato i punti principali della presente vicenda
processuale, ha dedotto due distinti motivi di impugnazione.
3.3.1. Con il primo di essi, il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 606, comma
1, lett. c) cod. proc. pen., l’inosservanza di norme processuali stabilite a pena di
nullità in relazione agli artt. 39, 40, 41, 42, 43, 56, 59 del d.lgs. n. 231 del
2001, 178, comma 1, lett. c), 185 cod. proc. pen., atteso che l’illecito
amministrativo da cui è conseguita l’adozione del sequestro preventivo e
l’irrogazione della sanzione amministrativa pecuniaria non sarebbe mai stato
notificato al dott. Morelli, liquidatore e legale rappresentante della

XX

S.p.A., mai indagato e quindi in situazione di non incompatibilità a
ricevere la contestazione dell’illecito, secondo quanto ritualmente e
tempestivamente eccepito fin davanti al giudice dell’udienza preliminare (e,
successivamente, al tribunale e alla stessa Corte di appello). Secondo la difesa,
infatti, la società, pur dopo il fallimento, conserverebbe la sua soggettività e la
conseguente legittimazione processuale in relazione ai profili cautelari e
sanzionatori, secondo quanto desumibile dall’art. 39 del d.lgs. n. 231 del 2001.
Su tali basi, il primo motivo di ricorso invoca l’annullamento della sentenza in
relazione sia alla disposta condanna alla menzionata sanzione pecuniaria, sia al
sequestro preventivo.
3.3.2. Con il secondo motivo, il ricorrente censura, ai sensi dell’art. 606,
comma 1, lett. b) cod. proc. pen., l’inosservanza e l’erronea applicazione della
legge penale in relazione agli artt. 24-ter, 69, 39, 40, 41, 42, 43, 56, 59 del
d.lgs. n. 231 del 2001, 322-ter cod. pen., atteso che l’illecito amministrativo
sarebbe prescritto, che in base al d.lgs. n. 231 del 2001 non potrebbe
configurarsi alcuna responsabilità amministrativa dell’ente nel caso di reato
associativo finalizzato alla commissione di reati tributari.
4. Con successivo motivo aggiunto, la difesa di B.B. ha dedotto la nullità
della sentenza ex art. 606, comma 1, lett. b), c) ed e) cod. proc. pen. in
relazione agli artt. 322-ter cod. pen. e 321 cod. proc. pen., avendo la Corte di
12

in precedenza ella gli avrebbe dato in prestito.

appello respinto la richiesta di revoca della confisca per equivalente dei beni
mobili e immobili nonché dei valori mobiliari e delle quote societarie oggetto di
sequestro preventivo, sul presupposto che, vigendo il principio di solidarietà dei
correi fosse legittima la confisca per equivalente del profitto sull’ammontare
complessivo del danno tributario al netto delle somme nel frattempo riscosse
dall’Agenzia delle Entrate sul patrimonio di B.B. oltre che su quello del
coimputato Va rlese.
Invero, dalla documentazione depositata davanti al Tribunale sarebbe emerso

euro, l’Erario avesse già riscosso la cifra di 9.282.240,51 di euro, apprestandosi
a riscuotere il restante ammontare della fideiussione per circa 15 milioni di euro
complessivi, di talché doveva ritenersi l’evidente sproporzione tra il valore dei
beni attinti dalla confisca rispetto al profitto illecito asseritamente attribuito ad
B.B. . Erroneamente la Corte territoriale avrebbe ritenuto che B.B. fosse
soggetto al principio di solidarietà relativamente al profitto conseguito da altri
soggetti coimputati per diversi fatti di reato, risultando inconsistente l’ipotesi
delittuosa di cui all’art. 416 cod. pen. e perciò della possibile solidarietà tra
correi. Ed invero il profitto illecito attribuito al ricorrente sarebbe risultato essere
pari a 11.341.277,00 euro, come indicato dalla stessa sentenza impugnata e
B.B. avrebbe già corrisposto 9.282.240,51 euro; circostanza che la Corte
territoriale avrebbe, però, omesso di considerare, senza effettuare alcuna
comparazione tra il valore dei beni assoggettati alla misura ablativa e quello
ancora dovuto all’Erario, pur risultando facilmente riscontrabile dagli atti del
processo la sproporzione tra il valore dei beni in sequestro e la somma capitale
di imposta evasa ancora dovuta. Per consolidata giurisprudenza la Corte
territoriale avrebbe dovuto motivare circa la sproporzione tra beni in sequestro e
il profitto dei reati non ancora soddisfatti, ma la Corte si sarebbe sottratta a tale
incombente non avendo formulato alcuna valutazione circa il valore dei beni a
suo tempo sequestrati ad B.B. rispetto al danno erariale da risarcire, pur
risultando chiaramente la necessità di effettuare tale verifica.
5. In data 26/09/2017, la difesa di XX S.p.A. ha depositato
motivi nuovi, con i quali ha dedotto la prescrizione dell’illecito amministrativo,
atteso che il sistema di contestazione del medesimo, così come il regime
prescrizionale, sarebbero quelli del diritto civile; sicché la contestazione avrebbe
dovuto essere portata a conoscenza del dott. Morelli, liquidatore della società e
non del curatore fallimentare della società fallita. Né avrebbe rilevanza il fatto
che l’art. 43, comma 2 del d.lgs. 231 del 2001 consideri valida la notifica e la
conoscenza dell’incolpazione al legale rappresentante della società ancorché
imputato e quindi incompatibile, considerato che, nella specie, il legale
rappresentante sarebbe stato il citato dott. Morelli.

13

che con polizze fideiussorie, da lui garantite personalmente fino a 15 milioni di

Pertanto e conclusivamente, considerato che la contestazione del reato è
stata compiuta fino al 2011 e che quella dell’illecito amministrativo non sarebbe
stata ritualmente svolta, quest’ultimo sarebbe ormai prescritto. In ogni caso, la
conoscenza fattuale del procedimento da parte del ricorrente, sarebbe comunque
successiva al decorso del termine prescrizionale, considerato che la
contestazione del reato associativo, riferita a tutto l’anno 2011, sarebbe stata in
realtà eccedente rispetto ai fatti, essendo i reati-scopo pacificamente
antecedenti.

1. I ricorsi proposti da B.B. e da A.A. sono fondati
solo parzialmente e, pertanto, devono essere accolti per quanto di ragione.
2. Partendo dall’analisi dei motivi di impugnazione proposti nell’interesse di
B.B. , deve innanzitutto rilevarsi la manifesta infondatezza del sesto motivo,
con il quale il ricorrente deduce la nullità della sentenza impugnata, il cui
dispositivo recherebbe non la data della sua lettura pubblica, ovvero il
14/07/2016, quanto piuttosto quella, ad essa anteriore, del 12/07/2016; ciò che
dimostrerebbe il fatto che la deliberazione sia avvenuta prima dell’udienza
destinata a eventuali repliche e della formale chiusura del dibattimento.
La tesi difensiva, infatti, prova troppo, non potendo assumersi dagli elementi
appena riportati un indice univoco della avvenuta deliberazione della decisione
prima della formale chiusura dell’istruttoria dibattimentale. Molto più probabile,
infatti, è che vi sia stato un mero errore materiale nella indicazione della data in
questione. E la circostanza che non vi sia stata, quantomeno fino alla data del
ricorso, l’attivazione della relativa procedura ex art. 130 cod. proc. pen. non è
parimenti significativa, attesa la mancanza di un termine, sia pure ordinatorio,
entro il quale provvedervi.
2.1. Muovendo, quindi, nella disamina delle ulteriori doglianze è necessario
delibare, secondo l’ordine logico delle questioni dedotte, il secondo motivo, con il
quale la difesa di B.B. censura la violazione degli artt. 6 CEDU, 533 e 603,
comma 3 cod. proc. pen.. La Corte territoriale avrebbe riformato la sentenza
assolutoria di primo grado in ordine al reato associativo affermando la penale
responsabilità eminentemente sulla base di una diversa valutazione di
attendibilità delle dichiarazioni di Dario Scarsetti, Alberto Piceni e Moris Salvoni,
senza procedere a nuova escussione degli stessi e, dunque, in violazione
ek021’orientamento giurisprudenziale, secondo cui il giudice di appello non può
pervenire a condanna in riforma della sentenza assolutoria di primo grado
basandosi esclusivamente, o comunque in modo determinante, su una diversa
valutazione delle fonti dichiarative delle quali non abbia proceduto anche d’ufficio
a una rinnovata assunzione.
Il motivo è fondato.

14

CONSIDERATO IN DIRITTO

2.1.1. Secondo l’opinione autorevolmente affermata dalle Sezioni Unite di
questa Corte, la previsione contenuta nell’art. 6, par. 3, lett. D) della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali, relativa al diritto dell’imputato di esaminare o fare esaminare i
testimoni a carico ed ottenere la convocazione e l’esame dei testimoni a
discarico, come definito dalla giurìsprudenza consolidata della Corte EDU – che
pur non traducendosi in norma direttamente applicabile nell’ordinamento
nazionale, costituisce parametro interpretativo al quale il giudice nazionale è

appello, investito della impugnazione del pubblico ministero avverso la sentenza
di assoluzione di primo grado, anche se emessa all’esito del giudizio abbreviato,
con cui si adduca una erronea valutazione delle prove dichiarative, non può
riformare la sentenza impugnata, affermando la responsabilità penale
dell’imputato, senza avere proceduto, anche d’ufficio, ai sensi dell’art. 603,
comma 3, cod. proc. pen., a rinnovare l’istruzione dibattimentale attraverso
l’esame dei soggetti che abbiano reso dichiarazioni sui fatti del processo, ritenute
decisive ai fini del giudizio assolutorio di primo grado (Sez. U, n. 27620 del
28/04/2016, dep. 6/07/2016, Dasgupta, Rv. 267487).
A tal fine, inoltre, costituiscono prove decisive quelle che, sulla base della
sentenza di primo grado, hanno determinato, o anche soltanto contribuito a
determinare, l’assoluzione e che, pur in presenza di altre fonti probatorie di
diversa natura, se espunte dal complesso materiale probatorio, si rivelano
potenzialmente idonee ad incidere sull’esito del giudizio, nonché quelle che, pur
ritenute dal primo giudice di scarso o nullo valore, siano, invece, nella
prospettiva dell’appellante, rilevanti – da sole o insieme ad altri elementi di prova
– ai fini dell’esito della condanna (Sez. U, n. 27620 del 28/04/2016, dep.
6/07/2016, Dasgupta, Rv. 267491).
Peraltro, la necessità per il giudice dell’appello di procedere, anche d’ufficio,
alla rinnovazione dibattimentale della prova dichiarativa nel caso di riforma della
sentenza di assoluzione sulla base di un diverso apprezzamento dell’attendibilità
di una dichiarazione ritenuta decisiva, non consente distinzioni a seconda della
qualità soggettiva del dichiarante e vale: a) per il testimone “puro”; b) per quello
c.d. assistito; c) per il coimputato in procedimento connesso; d) per il
coimputato nello stesso procedimento (fermo restando che, in questi ultimi due
casi, l’eventuale rifiuto di sottoporsi all’esame non potrà comportare
conseguenze pregiudizievoli per l’imputato); e) per il soggetto “vulnerabile”
(salva la valutazione del giudice sulla indefettibile necessità di sottoporre il
soggetto debole, sia pure con le dovute cautele, ad un ulteriore stress); f) per
l’imputato che abbia reso dichiarazioni “in causa propria”, dal cui rifiuto non
potrebbe, tuttavia, conseguire alcuna preclusione all’accoglimento della

15

tenuto a ispirarsi nell’applicazione delle norme interne – implica che il giudice di

impugnazione (Sez. U, n. 27620 del 28/04/2016, dep. 6/07/2016, Dasgupta, Rv.
267488).
Consegue alle considerazioni che precedono, che deve ritenersi affetta da
vizio di motivazione ex art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., per mancato
rispetto del canone di giudizio “al di là di ogni ragionevole dubbio” di cui all’art.
533, comma 1, cod. proc. pen., la sentenza di appello che, su impugnazione del
pubblico ministero, affermi la responsabilità dell’imputato, in riforma di una
sentenza assolutoria, operando una diversa valutazione di prove dichiarative

dell’art. 603, comma 3, cod. proc. pen.. Pertanto, al di fuori dei casi di
inammissibilità del ricorso, qualora il ricorrente abbia impugnato la sentenza di
appello censurando la mancanza, la contraddittorietà o la manifesta illogicità
della motivazione con riguardo alla valutazione di prove dichiarative ritenute
decisive, pur senza fare specifico riferimento al principio contenuto nell’art. 6,
par. 3, lett. D), della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali, la Corte di cassazione deve annullare con
rinvio la sentenza impugnata (Sez. U, n. 27620 del 28/04/2016, dep. 6/07/2016,
Dasgupta, Rv. 267492).
2.1.2. Nel caso di specie, la Corte territoriale ha riformato la sentenza
assolutoria di primo grado, relativamente al reato associativo, affermando la
penale responsabilità dell’imputato sulla base di una diversa valutazione di
attendibilità delle dichiarazioni dei testi assistiti Dario Scarsetti, Alberto Piceni e
Moris Salvoni, le quali sono state utilizzate quale elemento probatorio “decisivo”,
nella accezione richiamata dalle Sezioni unite, quale elemento di riscontro al fine
di attribuire ad B.B. sia l’ordine di costituzione delle cartiere utilizzate per
intestare formalmente la manodopera, onde compensare i contributi
previdenziali con il credito Iva, sia l’ordine di costituzione della società PFS – il
cd. secondo livello dell’associazione – al fine di farne uno schermo tra la XX
e le società cartiere in relazione all’impiego della manodopera nei cantieri edili.
Infatti, la sentenza di primo grado, nel giungere alla pronuncia assolutoria,
aveva ritenuto che la fattispecie associativa contestata al capo A) dovesse
“cedere il passo a una più verosimile (e di fatto dimostrata) situazione di
compravendita di servizi (illeciti) da parte delle società di terzo livello” (ovvero le
cartiere) “verso una società (la

XX S.p.A. di B.B. ) in progressivo e

profondo affanno, destinata ad essere travolta dal meccanismo stesso che le
società cartiere avevano offerto come il sistema per la risoluzione delle
problematiche di liquidità” (v. p. 108 della sentenza di primo grado).
Centrale, nella ricostruzione accolta dal tribunale, era stata la circostanza
che, come già evidenziato, Piceni, Scarsetti e Salvoni, sentiti in sede
dibattimentale come testimoni “assistiti”

16

ex art.

197-bis cod. proc. pen.,

ritenute decisive, delle quali non sia stata disposta la rinnovazione a norma

avessero riferito, diversamente da quanto dagli stessi riportato in sede di
interrogatorio reso quando si trovavano in custodia cautelare, circa “l’assenza di
qualsivoglia ordine proveniente dall’alto e cioè da B.B., il quale aveva certo
illustrato”, a costoro, “per sommi capi, il meccanismo dei subappalti ma non
aveva certo imposto alcuna condotta”, circa assunzioni o dismissioni degli operai
nonché circa quello di costituzione di società cartiere, limitandosi, nel caso del
teste Salvoni, a illustrare, nel corso di un abboccamento, come risparmiare sui
dipendenti (v. p. 107 della sentenza del tribunale).

sussistenza del reato associativo, realizzato allo scopo di far conseguire un
vantaggio economico della società

XX

amministrata da B.B.. In

particolare, secondo la Corte territoriale era stata raggiunta la prova del fatto
che l’imputato avesse creato a tavolino” un meccanismo, costituito su tre livelli
societari, attraverso il quale, da un lato, creare un ingente credito Iva a favore di
XX  mediante l’uso di false fatture di acquisto emesse dapprima dalle
società cartiere a beneficio della stessa XX e, quindi, con l’emissione di
altre fatture, anch’esse per operazioni inesistenti, nella direzione opposta (da
XX

a beneficio delle società cartiere); e, dall’altro lato, consentire

l’utilizzazione dei crediti fittizi relativi all’Iva da portare in detrazione in
compensazione delle somme dovute a titolo di contributi previdenziali e
assistenziali per i lavoratori dipendenti, fittiziamente operanti a favore di
XX ma assunti formalmente dalle stesse cartiere, al fine di abbattere il
costo della manodopera. E in questo contesto la costituzione della società P.F.S.
era stata funzionale alla creazione di un diaframma tra XX e le cartiere,
onde dissimulare l’esistenza dei rapporti illeciti tra di esse.
Centrale nel ragionamento probatorio compiuto dalla Corte territoriale è
stato, ancora una volta, il contributo dichiarativo di alcuni coimputati, utilizzato
per corroborare il contenuto di talune intercettazioni telefoniche; contributo che
però è stato valutato in maniera del tutto opposta rispetto al giudizio espresso
dal tribunale.
In particolare, è stato sottolineato come la creazione della società P.F.S. da
parte di B.B. , per il tramite dei suoi conoscenti, Salvoní e Piceni, fosse proprio
finalizzata ad abbattere il costo della manodopera; e tale giudizio è stato fondato
sulle dichiarazioni rese da Scarsetti e Salvoni, i quali avevano significativamente
sottolineato come lo stesso B.B. li avesse aiutati nell’avviamento dell’impresa,
offrendo garanzie per l’ottenimento del leasing volto ad acquistare il capannone
e i relativi appoggi bancari. E nello stesso tempo sono state le dichiarazioni di
Salvoni a indurre la Corte territoriale a ritenere che B.B. , perseguendo una
strategia unitaria, avesse organizzato l’incontro presso gli uffici di XX tra lo
stesso Salvoni e Picení, da un lato, e Garíbottí, Scarsettí e Vezzolí, dall’altro lato.
17

Viceversa, la sentenza di appello ha ritenuto che fosse stata dimostrata la

Quanto poi al ruolo apicale di B.B. , esso è stato fondato anche sulle
dichiarazioni di Scarsetti, secondo il quale le cartiere e la P.F.S. lavoravano per
XX , tanto è vero che i relativi importi venivano decisi proprio da B.B. .
Tale operazione di ricostruzione fattuale è stata, nondimeno, compiuta senza
procedere a nuova escussione degli stessi dichiaranti e, dunque, in violazione
della richiamata cornice di principio, onde si rende necessario procedere, in
relazione al delitto previsto al capo A) della rubrica, ad una nuova valutazione
del materiale probatorio con riferimento alla posizione di B.B. , sul

2.1.3. Le considerazioni che precedono impongono di addivenire ad analoga
soluzione con riferimento al delitto previsto dall’art. 10-quater del d.lgs. n. 74
del 2000, contestato al capo D). Anche in questo caso, infatti, l’affermazione di
responsabilità dell’imputato in relazione alla compensazione attuata dalle società
cartiere tra i crediti Iva e gli importi dovuti a titolo di ritenute previdenziali è
stata fondata su una diversa valutazione, da parte dei giudici di merito, di prove
dichiarative decisive.
Il tribunale, invero, aveva ritenuto che il credito di imposta delle società
cartiere fosse “preesistente all’affacciarsi di B.B. nel complessivo impianto
delittuoso, come affermato in particolar modo da Scarsetti”, il quale aveva
riferito “di essersi offerto egli stesso B.B. come risolutore delle sue
problematiche affermando di poterlo fare essendo a credito Iva” (v. p. 95 della
sentenza del tribunale).
Come anticipato, la Corte di appello è, invece, pervenuta ad affermare il
ruolo determinante svolto da B.B. nell’intero sistema fraudolento, costruito
proprio in funzione delle esigenze di XX. Nondimeno, per giungere a tale
approdo conclusivo i giudici di appello hanno dovuto, ancora una volta, attribuire
un ruolo determinante le dichiarazioni, come quelle di Scarsetti e Salvoni, che
hanno ricondotto in capo ad B.B. l’iniziativa relativa alla creazione di P.F.S.
Costruzioni S.r.l. quale schermo tra la XX e le società cartiere.
Ne consegue che, anche con riferimento al capo D), si impone l’annullamento
con rinvio della sentenza impugnata, onde consentire alla Corte di appello una
nuova valutazione del materiale probatorio alla luce della più sopra richiamata
cornice di principio.
2.1.4. A diversa conclusione deve, invece, pervenirsi con riferimento al
quarto motivo di impugnazione, con il quale il ricorrente censura la
configurabilità del delitto previsto dall’art. 8 del d.lgs. n. 74 del 2000 e
contestato al capo C) dell’imputazione. Secondo la tesi difensiva, non essendo
stata dimostrata l’effettiva emissione delle fatture in

reverse charge da parte

della XX S.p.A., né l’effettiva utilizzazione delle stesse, da parte

delle società “cartiere”, al fine di evadere le imposte sui redditi, il delitto non
18

punto annullando, con rinvio, la sentenza di secondo grado.

avrebbe potuto essere integrato, tanto più che la sentenza non avrebbe vagliato
le giustificazioni addotte da B.B. in ordine al fatto che le fatture sarebbero
state emesse unicamente per consentire la successiva emissione delle ricevute
bancarie da scontare presso gli istituti di credito.
Osserva, nondimeno, il Collegio che la sentenza impugnata ha
condivisibilmente richiamato i principi posti dalle Sezioni unite di questa Corte in
relazione al carattere di reato di pericolo proprio del delitto in esame (Sez. U, n.
1235 del 28/10/2010, dep. 19/01/2011, Giordano ed altri, Rv. 248869);
circostanza che rende irrilevante, ai fini della integrazione della fattispecie,

l’effettiva utilizzazione delle fatture false, peraltro indimostrabile proprio a
cagione della condotta di occultamento della contabilità, mai rinvenuta. Quanto
alle ulteriori censure, i giudici di appello hanno, per un verso, evidenziato come
la circostanza che le fatture fossero state emesse in regime di inversione
contabile dovesse ritenersi non contestata, essendo stato calcolato l’importo
della frode fiscale al netto dell’IVA; e, per altro verso, che la finalità di evasione
fiscale potesse trarsi, secondo una massima di comune esperienza, dalla
considerazione del complessivo meccanismo fraudolento realizzato, chiaramente
orientato a consentire un risparmio di imposta, in sé non incompatibile con
l’ottenimento di nuove linee di credito.
A fronte di tali puntuali argomentazioni, la difesa del ricorrente si è limitata
ad una pedissequa riproposizione delle medesime questioni già esaustivamente
affrontate dalla sentenza impugnata, incorrendo, conseguentemente, nel difetto
di specificità dei motivi di impugnazione.
2.1.5. Il quinto motivo di doglianza, con il quale la difesa di B.B. ha
denunciato la mancata esplicazione del criterio seguito ai fini dell’aumento per la
continuazione disposto, una volta determinata la pena base per il più grave
delitto di cui al capo A), con riguardo ai delitti contestati ai capi B), C) e D), deve
ritenersi assorbito a seguito dell’accoglimento del secondo e del terzo motivo di
doglianza.
3. Venendo, quindi, all’esame delle doglianza articolate dalla difesa di
A.A., occorre muovere dal primo motivo di ricorso, con il quale il ricorrente ha
dedotto la violazione di legge ed il vizio della motivazione in relazione
all’esistenza dell’associazione per delinquere e alla partecipazione di A.A.al
sodalizio criminoso.
Osserva, in proposito, il Collegio che anche in questo caso debbono ribadirsi
le considerazioni precedentemente svolte in merito alla mancata osservanza
dell’onere, incombente sul giudice di appello, di procedere, in caso di totale
riforma di una sentenza assolutoria, alla nuova audizione di coloro i quali, in
primo grado, avevano reso dichiarazioni decisive e diversamente valutate da
parte del giudice di prime cure. Dovendo procedersi, infatti, ad un nuovo giudizio

19
\_i

in ordine all’esistenza stessa del sodalizio per quanto concerne la posizione di
B.B., non può che addivenirsi alla medesima soluzione anche per quanto
riguarda A.A., presupponendo l’accertamento del loro ruolo personale la
verifica, preliminare, dell’esistenza dell’associazione per delinquere.
3.2. Manifestamente infondato è, invece, il secondo motivo di impugnazione,
con il quale la difesa di A.A.deduce violazione di legge e vizio di motivazione
in relazione al delitto di cui all’art.

10-quater del d.lgs. n. 74 del 2000,

contestato al capo D) della rubrica.

argomento per sostenere la piena consapevolezza, da parte dell’imputato,
dell’attività illecita, dal fatto che A.A. avesse solidi e rapporti con i gestori di
fatto delle cartiere (ovvero Scarsetti, Garibotti e Vezzoli, la cd. triade) e come, in
presenza di palesi indici di anomalia delle società del secondo e del terzo livello
(connesse all’ingentissimo importo di fatture relative all’acquisto di beni non
corrispondenti ad alcun pagamento, attesa l’indisponibilità finanziaria della
società, appena costituita), egli certamente non potesse che avvedersi, alla luce
della sua conclamata competenza professionale, della loro “operatività solo
fittizia”; tanto più ove si consideri che egli era il commercialista dell’intera
galassia delle cartiere ruotanti intorno a

Orceana, come tale dotato di una

conoscenza d’insieme delle loro dinamiche.
Quanto, poi, alla mancata risposta, da partentenza di secondo grado, in
ordine ad alcune doglianze formulate nell’atto di appello, giova osservare,
quanto alla mancata indicazione, al capo D) dell’imputazione, delle fatture
relative alle operazioni inesistenti, né delle società che le avevano emesse, che
in ogni caso l’indicazione cumulativa, riportata nella rubrica, dei debiti verso
l’erario, degli importi versati e di quelli compensati, nonché delle società cui
questi erano riferibili in relazione alle singole annualità, consentiva certamente di
definire l’oggetto della contestazione e, correlativamente, di esercitare
pienamente, da parte dell’imputato, i propri diritti di difesa.
Manifestamente infondata è, poi, la doglianza con la quale il ricorrente opina
che le operazioni contestate al capo C) non avrebbero potuto essere utilizzate in
compensazione in quanto esenti da Iva. Anche in tal caso la sentenza impugnata
ha esaustivamente spiegato (v. pag. 26), come l’assoggettamento delle fatture
al regime cd. di reverse charge non comportasse, in termini assoluti, una
sottrazione al regime impositivo dell’operazione fatturata, quanto una diversa
allocazione degli oneri da adempiere, dal soggetto erogante la prestazione
(attestata dalla fattura) alla società destinataria della stessa; e come fosse
proprio quest’ultima ad operare la relativa compensazione illecita.

20

Sotto un primo profilo, in maniera niente affatto illogica la sentenza ha tratto

3.3. Il terzo motivo, con il quale il ricorrente deduce il vizio di motivazione in
relazione all’affermazione di responsabilità di A.A. per il delitto di distruzione
o occultamento delle scritture contabili, è, del pari, manifestamente infondato.
L’impugnazione, infatti, lamenta che la Corte territoriale non abbia
adeguatamente valorizzato alcuni elementi di fatto provati nel corso del
dibattimento, che secondo la tesi difensiva dimostrerebbero l’assenza di dolo in
capo all’odierno imputato: dal deposito della quietanza relativa alla consegna a
Proto, da parte di A.A. , dei documenti contabili, al fatto che la Bresco non

veniva ritirata non da A.A. ma dalle sue impiegate, su richiesta di quelle della
Bresco; fino al fatto che le intercettazioni tra Forlani e Garibotti avrebbero
dimostrato che A.A.fosse convinto dell’avvenuto allagamento dei locali in cui
era custodita la documentazione contabile.
Osserva, tuttavia, il Collegio che la Corte territoriale ha fornito una
giustificazione del proprio convincimento del tutto adeguata sul piano della
stretta aderenza alle emergenze istruttorie e della lettura logica del dato
probatorio, costituito dal contenuto delle intercettazioni delle conversazioni
occorse tra alcuni dei sodali, evidenziando: la mancata dichiarazione da parte di
Salvatore Proto, in occasione del controllo effettuato il 6/10/2010 dalla Guardia
di finanza, di avere ricevuto la documentazione contabile da A.A., circostanza
successivamente dedotta una volta che i sodali avevano concordato,
telefonicamente, tale versione; ed ancora la significativa mancanza di una
tempestiva denuncia dell’allagamento dei locali, da cui sarebbe derivata la
distruzione dei documenti contabili.
A fronte di tale ricostruzione, le censure svolte dalla difesa di A.A. con il
presente motivo di impugnazione, nondimeno, sono chiaramente finalizzate ad
offrire una versione alternativa a quella accolta dai giudici di appello; operazione
pacificamente preclusa in sede di legittimità, ove il controllo del giudice è
circoscritto alla congruenza sul piano logico del tessuto argomentativo che regge
la decisione.
3.4. Manifestamente infondato è, ancora, il quarto motivo di doglianza,
concernente l’episodio corruttivo contestato al capo K).
La Corte territoriale ha, infatti, puntualmente richiamato (v. pag. 37 e ss.) i
plurimi elementi acquisiti in istruttoria che, secondo la interpretazione offerta,
frutto di corretta ermeneutica sul piano logico, fondano la responsabilità di
A.A. in relazione al predetto episodio.
In particolare i giudici di appello hanno osservato come sia stato proprio
l’imputato ad adoperarsi fattivamente, peraltro conseguendo il relativo risultato,
in vista della posticipazione dell’ispezione a carico della Prisma Costruzioni S.r.l.
da parte di Nicola Gatto, ispettore della

21

Cassa edile, costituente il frutto

fosse operativa a causa del recente trasferimento della sede e che la posta

dell’accordo corruttivo. Ed ancora come sia stato sempre A.A. a rappresentare
a Vezzoli la necessità di incontrare l’ispettore; e come sia l’incontro che il
pagamento del corrispettivo dell’accordo corruttivo siano avvenuti nello studio
professionale dell’imputato. Inoltre, la Corte ha fornito una spiegazione, non
manifestamente illogica, come tale riferibile ad un non censurabile
apprezzamento di merito, in relazione al contenuto della intercettazione tra
Vezzoli e Scarsetti, con la quale il primo aveva detto “di non essersi fatto vedere
da nessuno”, sottolineando come il riserbo tenuto fosse giustificato dalla

in alternativa, dalla necessità di non far conoscere al commercialista
(‘ammontare preciso del denaro, che i due avrebbero anche potuto volere non
fosse portato a conoscenza dell’imputato (v. pag. 38 della sentenza di appello).
In presenza di un percorso ricostruttivo immune da censure di tipo logico, il
ricorso si è, dunque, limitato a proporre, ancora una volta, un diverso percorso
di ricostruzione del fatto, peraltro attraverso una differente lettura del dato
probatorio; operazione che, si ribadisce, è pacificamente preclusa in sede di
legittimità.
3.5. Dall’accoglimento del motivo di doglianza relativo al delitto contestato al
capo A), al quale consegue l’annullamento con rinvio sul punto, deriva
l’assorbimento del quinto motivo, concernente il mancato riconoscimento delle
attenuanti generiche; giudizio che dovrà essere riformulato, in sede di giudizio di
rinvio, nell’ambito del nuovo pronunciamento che dovrà essere compiuto anche
in relazione al predetto delitto.
3.6. Manifestamente infondato è il sesto motivo di doglíanza proposto da
A.A. , con il quale egli lamenta, sotto un primo profilo, che la Corte territoriale
non abbia risposto alla questione, posta in sede di appello, relativa alla necessità
di scomputare alcune somme (quali quella relativa ai crediti oggetto di indebita
compensazione di alcune società che A.A. non aveva assistito
professionalmente, nonché quella detratta dalla Edil Com S.r.l., che non sarebbe
mai stata cliente dell’imputato).
Osserva, tuttavia, il Collegio che la Corte territoriale ha fatto puntuale
riferimento al principio di solidarietà tra í concorrenti al fine di spiegare le ragioni
per le quali la confisca per equivalente sia stata correttamente disposta per
l’intero ammontare del profitto illecito, senza che, pertanto, possa procedersi ad
alcuna decurtazione (v. pag. 53).
Quanto, poi, alla legittimità dell’ablazione di un bene formalmente intestato
alla moglie, i giudici bresciani hanno evidenziato, in maniera articolata, l’insieme
degli elementi che, a loro giudizio, fondano l’assenta fittizietà della intestazione
(v. pag. 54). Pertanto, anche sotto tale profilo deve ritenersi la palese
infondatezza della dedotta censura motivazionale.

22

eventuale presenza di terzi soggetti, oltre a A.A., al momento della dazione o,

4. Venendo, infine, all’impugnazione proposta nell’interesse di

Orceana

Costruzioni S.p.A., il ricorrente ha eccepito, sotto un primo profilo, la nullità della
richiesta di rinvio a giudizio e, a seguire, degli atti consequenziali: ciò in quanto
l’illecito amministrativo non sarebbe mai stato contestato formalmente al dott.
Alberto Morelli, liquidatore e legale rappresentante della

Orceana Costruzioni

S.p.A.. Costui, infatti, pur dopo il fallimento della società, conserverebbe la
legittimazione processuale in relazione ai profili cautelari e sanzionatori, atteso
che, pur dopo questo momento, la società conserverebbe la sua soggettività; e

dello stesso dott. Morelli e non, come invece avvenuto, del curatore fallimentare
della società fallita. Né avrebbe rilevanza il fatto che l’art. 43, comma 2 del d.lgs.
231 del 2001 consideri valida la notifica e la conoscenza dell’incolpazione al
legale rappresentante della società ancorché imputato e quindi incompatibile,
considerato che, nella specie, il legale rappresentante sarebbe stato il citato dott.
Morelli.
Nel merito, la difesa opina che, da un lato, in base al d.lgs. n. 231 del 2001
non potrebbe configurarsi alcuna responsabilità amministrativa dell’ente nel caso
di reato associativo finalizzato alla commissione di reati tributari e che, dall’altro
lato, in ogni caso, l’illecito, quand’anche esistente, sarebbe ormai prescritto. Ciò
in quanto il sistema di contestazione del medesimo, così come il regime
prescrizionale, sarebbero quelli del diritto civile e considerato che la
contestazione del reato è stata compiuta fino al 2011, laddove i reati-scopo
sarebbero stati pacificamente antecedenti, che quella dell’illecito amministrativo
non sarebbe stata ritualmente svolta e che, in ogni caso, la conoscenza fattuale
del procedimento da parte del ricorrente, sarebbe comunque successiva al
decorso del termine prescrizionale.
4.1. Preliminare all’analisi delle questioni poste con i due motivi del ricorso
introduttivo e con l’ulteriore deduzione in sede di motivi aggiunti, è, invero, la
questione della legittimazione alla proposizione dell’odierna impugnazione da
parte del dott. Alberto Morelli, liquidatore della Orceana Costruzioni S.p.A..
Sul punto, va premesso, in fatto, che la contestazione di cui al capo R)
concerne l’illecito amministrativo ascritto alla predetta società in relazione al
delitto di associazione per delinquere commesso dal suo legale rappresentante,
B.B. , nell’interesse o comunque a vantaggio della società, senza
avere previamente adottato modelli di organizzazione e di gestione idonei a
prevenire delitti della specie di quello contestato al predetto capo; e che
l’imputazione indica la commissione del medesimo illecito fino all’anno 2011.
Successivamente, in data 12/11/2012, il Tribunale di Brescia aveva
dichiarato il fallimento della

Orceana Costruzioni S.p.A.,

curatore il dott. Federico Prignacca.

23

nominando come

per tale motivo la contestazione avrebbe dovuto essere portata a conoscenza

Ciò nonostante, il sequestro preventivo, disposto dal Giudice per le indagini
preliminari di Brescia il 27/06/2013, era stato eseguito sui beni della stessa
Orceana Costruzioni S.p.A.; e, per tale motivo, questa Sezione della Suprema
Corte, con sentenza n. 31457 del 31/03/2016, aveva dichiarato inammissibile il
ricorso proposto dal curatore fallimentare in nome e per conto del fallimento
della società in questione, ravvisando in capo a tale organo un difetto di
legittimazione, connessa al fatto che il curatore, in quanto “soggetto terzo”

sequestro, né potrebbe agire in rappresentanza dei creditori, non essendo anche
ets2Z-‘
questi ultimi, prima ssegnazione dei beni e della conclusione della procedura
concorsuale, titolari di alcun diritto sugli stessi.
Nondimeno, gli atti del presente processo, a partire dall’avviso di conclusione
delle indagini ex art. 415-bis cod. proc. pen. e dalla successiva richiesta di rinvio
a giudizio (del 30/07/2013), erano stati notificati all’avv. Carlo Bonardi, in
qualità di difensore del fallimento e successivamente all’avv. Anna Fadenti,
difensore di ufficio, sempre per conto della società fallita e del curatore
fallimentare, dott. Prignacca, senza che alcun atto processuale fosse stato
notificato al liquidatore della Orceana Costruzioni S.p.A..
Coerentemente con tale impostazione, con sentenza del 14/07/2016 la Corte
di appello di Brescia ha condannato la Orceana Costruzioni S.p.A. in persona del
suo curatore fallimentare.
Dunque, nonostante che nella procedura cautelare sia stato configurato un
deficit di legittimazione del fallimento alla proposizione del ricorso avverso il
sequestro preventivo, nel procedimento principale di merito tutti gli avvisi e,
corrispondentemente, la condanna è stata pronunciata nei confronti del
fallimento.
Ora, la difesa del dott. Morelli, legale rappresentante della

Orceana

Costruzioni S.p.A. fino al suo fallimento, opina che, non realizzando il fallimento
della società una estinzione della stessa ed anzi mantenendo essa, pur dopo il
fallimento, la sua soggettività, il suo legale rappresentante conserverebbe la
legittimazione processuale nell’ambito sia del procedimento cautelare che di
quello di merito, secondo quanto stabilito dall’art. 39 del d.lgs. n. 231 del 2001.
4.2. Tanto premesso, deve osservarsi che in tema di responsabilità da reato
degli enti, il fallimento della persona giuridica non determina l’estinzione
dell’illecito amministrativo previsto dal d.lgs. n. 231 del 2001 (Sez. U, n. 11170
del 25/09/2014, dep. 17/03/2015, Uniland Spa e altro, Rv. 263682). Ciò in
quanto l’instaurazione della procedura concorsuale non integra una situazione
assimilabile a quella della morte dell’autore del reato (Sez. 5, n. 4335 del
16/11/2012, dep. 29/01/2013, Franza e altro, Rv. 254326; Sez. 5, n. 44824 del
26/09/2012, dep. 15/11/2012, P.M. in proc. Magiste International S.A., Rv.
24

rispetto al procedimento cautelare, non sarebbe titolare di diritti sui beni in

253482). Il fallimento, infatti, non determina alcun mutamento soggettivo della
società, la quale viene sottoposta semplicemente a una procedura di gestione
della crisi ad opera di un pubblico ufficiale (il curatore) e sotto il controllo
dell’autorità giudiziaria. L’estinzione dell’ente, del resto, che non si produce,
automaticamente, nemmeno alla chiusura della procedura concorsuale, essendo
necessario un atto formale di cancellazione della società da parte del curatore
(Sez. 5, n. 47171 del 2/10/2009, dep. 11/12/2009, Vannuzzo). Fino a quel
momento, dunque, la società rimane in vita, mantenendo funzioni limitate ed

dei poteri gestionali ed amministrativi degli organi sociali (Sez. 5, n. 44824 del
26/09/2012, dep. 15/11/2012, P.M. in proc. Magiste International S.A., in
motivazione).
In questa prospettiva, la sentenza che dichiara il fallimento priva la società
fallita dell’amministrazione e della disponibilità dei suoi beni esistenti a quella
data, assoggettandoli alla procedura esecutiva concorsuale finalizzata al
soddisfacimento dei creditori; fermo restando che tale effetto di spossessamento
non si traduce in una perdita della proprietà, in quanto la società resta titolare
dei beni fino al momento della vendita fallimentare (Sez. U, n. 29951 del
24/05/2004, dep. 9/07/2004, C. fall. in proc. Focarelli, Rv. 228164).
Ne consegue che, durante il fallimento, la società continua ad essere
soggetto passivo della sanzione pecuniaria, di cui risponde con il suo patrimonio
ai sensi dell’art. 27 del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231; e la sanzione irrogata nel
corso del fallimento potrà legittimare la pretesa creditoria dello Stato al recupero
dell’importo di natura economica mediante la insinuazione al passivo.
Per tali ragioni, dunque, il legislatore delegato non prevede il fallimento tra le
vicende modificative disciplinate dalla sezione 2^ del Capo 2 del D.Lgs. n. 231,
atteso che il fallimento non comporta una modifica soggettiva dell’ente e non è
assimilabile in alcun modo alle fattispecie colà contemplate. Ma vi è anche una
ragione di politica criminale, connessa alla finalità preventiva e sanzionatoria
perseguita dal legislatore con la previsione della responsabilità amministrativa;
finalità che impone di scoraggiare soluzioni di calcolo preventivo del costo
dell’illecito nella valutazione economica delle conseguenze delle condotte da
adottare. In questa prospettiva, si comprende anche la ragione per la quale la
sanzione continui a gravare sul patrimonio dell’ente anche quando, per
l’incapacità di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni, sia stato
dichiarato il fallimento di quest’ultimo (per tali considerazioni Sez. 5, n. 4335 del
16/11/2012, dep. 29/01/2013, Franza e altro, in motivazione).
4.3. Poste queste premesse, deve ulteriormente osservarsi che, in linea
generale, il curatore cumula la legittimazione ad agire che gli deriva dalla
gestione patrimoniale degli affari del fallito e la legittimazione ad agire che gli

25

ausiliarie e potendo comunque ritornare in bonis, con conseguente riespansione

deriva dalla rappresentanza degli interessi patrimoniali dei creditori che, ai sensi
dell’art. 51 I. fall., non possono iniziare o proseguire azioni esecutive individuali,
ma devono sottoporre la loro pretesa all’accertamento degli organi fallimentari
secondo le regole proprie del concorso. In questa prospettiva, come
recentemente osservato da questa Sezione della Suprema Corte (Sez. 3, n.
37439 del 7/03/2017, dep. 22/07/2017, Cosentino, non massimata), il curatore
è un soggetto che a) ai sensi dell’art. 31 L.fall., ha l’amministrazione del
patrimonio fallimentare e compie tutte le operazioni della procedura sotto la

funzioni ad esso attribuite, stando in giudizio con l’autorizzazione del giudice
delegato, salvo che in alcuni casi specificati dalla legge; b) ai sensi dell’art. 42 L.
fall., a seguito della sentenza che dichiara il fallimento, ha l’amministrazione e la
disponibilità dei beni del fallito esistenti alla data della dichiarazione di
fallimento, a meno che il curatore, previa autorizzazione del comitato dei
creditori, non abbia rinunciato alla relativa acquisizione; c) ai sensi dell’art. 43 L.
fall., sta in giudizio nelle controversie, anche in corso, relative ai rapporti
patrimoniali del fallito, il quale può intervenire in giudizio personalmente solo per
le questioni dalle quali può dipendere un’imputazione di bancarotta a suo carico
o se l’intervento è previsto dalla legge (o, va aggiunto, se il curatore ha mostrato
disinteresse rispetto a quella lite, per esempio l’impugnativa di un avviso di
accertamento tributario o di una cartella esattoriale); d) ai sensi dell’art. 240 L.
fall. può costituirsi parte civile nel procedimento per bancarotta fraudolenta a
carico del fallito con la puntualizzazione che, laddove abbia manifestato il relativo
disinteresse, alla costituzione possono provvedere i creditori in proprio, í quali
hanno sempre e comunque una legittimazione autonoma allorquando intendano
far valere un titolo di azione propria personale.
Ora, se per un verso non può affermarsi che, dopo l’apertura del fallimento, il
legale rappresentante del fallimento sia sempre il curatore, atteso che, sia pure
in limitati casi, coesiste con quella del curatore la legale rappresentanza del
soggetto originariamente investito dei relativi poteri (ad es. per presentare
istanza di concordato fallimentare o per impugnare le cartelle esattoriali che il
curatore non abbia impugnato o per liquidare beni che il curatore abbia
abbandonato etc.), con riferimento all’illecito amministrativo della società deve
nondimeno riconoscersi la legittimazione processuale della curatela fallimentare,
potendo configurarsi, in conseguenza dell’applicazione della relativa sanzione, il
sorgere di un credito privilegiato dell’Erario nei confronti del fallimento, rispetto
al quale deve configurarsi la legittimazione in capo all’organo istituzionalmente
preposto alla ricostruzione e alla tutela del patrimonio fallimentare.
Consegue

alle

che

considerazioni

precedono,

l’inammissibilità

dell’impugnazione proposta dal dott. Alberto Morelli nell’interesse della Orceana

26

vigilanza del giudice delegato e del comitato dei creditori, nell’ambito delle

Costruzioni S.p.A.. Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte
costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per
ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella
determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria
dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., in
capo al liquidatore dott. Alberto Morelli, l’onere delle spese del procedimento
nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle

PER QUESTI MOTIVI
annulla la sentenza impugnata: nei confronti di B.B.,
limitatamente ai reati di cui ai capi A) e D), rigettando nel resto il ricorso; nei
confronti di A.A., limitatamente al reato di cui al capo A) e dichiara
inammissibile nel resto il ricorso. Dichiara inammissibile il ricorso di

Orceana

Costruzioni S.p.A. in persona del liquidatore dott. Alberto Morelli e condanna il
ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e al versamento della
somma di euro 2.000,00 (duemila) in favore della Cassa delle Ammende.

Così deciso in Roma, in data 11/10/2017

ammende, equítatívamente fissata in 2.000,00 euro.

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