Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 1550 del 21/11/2013


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 1550 Anno 2014
Presidente: BRUSCO CARLO GIUSEPPE
Relatore: PICCIALLI PATRIZIA

SENTENZA

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sul, ricors4) proposto da:

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MINISTERO ECONOMIA E FINANZE
nei confronti di:

PEDETTA DIEGO N. IL 03/04/1956
inoltre:
2)PEDETTA DIEGO N. IL 03/04/1956 cs”-Lf

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avverso l’ordinanza n. 27/2011 CORTE APPELLO di ROMA, del
27/03/2012
sentita la r azione fatta dal Consigliere Dx. PATRIZIA PICCIALLI;
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lette/se te le conclusioni del PG Dott.

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Data Udienza: 21/11/2013

Ritenuto in fatto

Con l’ordinanza indicata in epigrafe la Corte d’appello di Roma, su istanza presentata da
PEDETTA Diego ai sensi degli artt. 314 e 315 c.p.p., condannava il Ministero dell’Economia
e delle Finanze a corrispondere allo stesso la somma di C 58.000,00 a titolo di riparazione
per l’ingiusta detenzione subita (in carcere dal 3 agosto 2005 per anni tre, mesi otto, giorni
due di reclusione) nell’ambito di un processo in cui l’istante era stato accusato dei reati di
rapina, detenzione e porto abusivo di una pistola semiautomatica e di un revolver,

formula per non aver commesso il fatto.

ricettazione, omicidio e danneggiamento, dai quali era stato assolto in secondo grado con la

Il giudice della riparazione riportava innanzitutto uno stralcio della sentenza di assoluzione

in sede di rinvio, a seguito di annullamento della S.C., da cui emergeva la sussistenza di un

ragionevole dubbio sul quadro probatorio posto a fondamento del giudizio di condanna ( con
particolare riferimento alla circostanza che fosse stato effettivamente l’istante a disfarsi

della sua camicia e del berretto rinvenuti lungo la strada seguita dai responsabili del fatto

per allontanarsi dal luogo del delitto). Rilevato, poi, che l’esercizio della facoltà di non
rispondere in sede di interrogatorio, la circostanza di aver fornito solo successivamente un

alibi, ritenuto peraltro non attendibile, e la latitanza, non rilevavano, in sé, come condotte
ostative alla riparazione, la Corte territoriale affermava che poiché il ricorrente era stato

assolto in quanto non era stata raggiunta la prova che fosse uno degli autori del fatto, non
poteva essere ascritta a lui alcuna colpa nell’aver concorso a determinare l’emissione del
provvedimento restrittivo.

Nella determinazione dell’indennizzo, riteneva di applicare il criterio matematico di euro
150,00 per ogni giorno di detenzione.

Avverso l’ordinanza propongono ricorso per cassazione il MINISTERO dell’Economia e delle
FINANZE, tramite l’Avvocatura distrettuale, e PEDETTA Diego, tramite il difensore.

Il Ministero dell’Economia e delle Finanze articola due motivi.

Con il primo lamenta la violazione dell’art. 314 c.p.p. nella parte in cui il giudice della
riparazione
aveva escluso che il silenzio serbato dall’indagato nel corso del suo interrogatorio non fosse
nemmeno astrattamente idoneo ad assumere rilevanza come colpa grave, senza tener conto
che proprio la ritenuta inattendibilità dell’alibi successivamente fornito integrasse
circostanza idonea a giustificare l’emanazione ed il mantenimento dello stato di custodia
cautelare.

Si censura l’ordinanza impugnata anche nella parte in cui affermava che non integrasse la
colpa grave nemmeno il fatto che l’istante si fosse reso latitante, senza valutare l’efficacia
eziologica che tale condotta aveva avuto sul mantenimento dello stato di detenzione. Si
lamenta altresì che il giudice della riparazione aveva tralasciato di considerare che gli
indumenti indossati da uno dei rapinatori erano di proprietà dell’istante ed avevano tracce di
DNA allo stesso riconducibili, oltre alle macchie di sangue lasciate dal fratello che si era
ferito con i vetri infranti. Si lamenta, infine, che l’omessa considerazione anche delle
circostanze evidenziate con due memorie difensive ( tra cui le dichiarazioni rese da alcuni

testimoni sulle ferite che il Pedetta presentava nei giorni successivi ai tragici fatti compatibili
con quelle riportate da uno dei rapinatori al momento dei fatti criminosi e la latitanza in
Spagna, nello stesso periodo del fratello, condannato con sentenza definitiva per i medesimi
fatti).

Con il secondo motivo si duole della violazione dell’art. 314, comma 4, c.p.p e dell’art. 315,

comma 2, c.p.p in relazione all’art. 657 c.p.p, con conseguente difetto di motivazione anche
in ordine alla liquidazione dell’indennizzo.

Sotto questo profilo, si lamenta che il giudice della riparazione aveva omesso di indicare le

voci idonee a ridurre l’ammontare dell’indennizzo liquidabile, valutando la configurabilità nel
caso in esame quantomeno della colpa lieve.

La Corte territoriale, inoltre, aveva omesso di compiere l’accertamento sul periodo di
detenzione subito dal Pedetta per altro procedimento nel medesimo periodo a quello per cui
è in corso presente procedimento di riparazione.

PEDETTA Diego articola sei motivi con i quali contesta il metodo di quantificazione
dell’importo liquidato.

Con il primo motivo lamenta il mancato riconoscimento del diritto alla riparazione in
relazione al periodo 11 novembre 2003- 9 aprile 2004 , il cui diniego era stato fondato dalla

Corte territoriale sul rilievo che la custodia cautelare in carcere era stata ripristinata a causa
di una inottemperanza all’obbligo di presentazione, senza tener conto del provvedimento del

Tribunale del riesame in data 6 aprile 2004, non impugnato dal PM, che aveva ritenuto del
tutto ingiustificate il ripristino della custodia cautelare in carcere.
Con il secondo motivo si duole della mancata concessione dell’indennizzo in relazione a tre
mesi di detenzione ( 31 luglio 2002-30 ottobre 2003) per i reati di cui agli articoli 468,477,
472 c.p. in quanto valutati a titolo di fungibilità. Si sostiene sul punto l’arbitrarietà di tale
individuazione, in assenza di motivazione, tenuto conto degli altri diversi periodi di
detenzione sofferti dal Pedetta, ivi indicati.
Con il terzo motivo si duole del mancato riconoscimento dell’indennizzo in relazione al
periodo 13 ottobre 2005-22 ottobre 2008, giustificata dal giudice della riparazione con
l’ordinanza in data 15 luglio 2005 di ripristino della custodia in carcere per essersi il Pedetta

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sottratto agli obblighi imposti. Sul punto si sostiene che il giudice della riparazione aveva
tralasciato di considerare che il ripristino della custodia cautelare aveva avuto quale
essenziale presupposto l’accertamento della responsabilità a carico del Pedetta con la
sentenza 15 luglio 2005, rivelatasi poi ingiusta.

Con il quarto motivo censura la determinazione dell’indennizzo, sensibilmente inferiore ai

conseguenti periodi di detenzione nonché all’attuale detenzione del Pedetta.

parametri individuati da questa Corte ed attuata con riferimento a precedenti condanne e

Con il quinto motivo lamenta la carenza di motivazione dell’ordinanza laddove il giudice
della riparazione aveva escluso l’indennizzo con riferimento ai danni causati al Pedetta
dall’epatite contratta nel corso della detenzione carceraria.

Con il sesto motivo si duole della manifesta illogicità della motivazione con riferimento alla

statuizione di compensazione delle spese tra le parti, sulla base dell’assunto erroneo che il
Ministero resistente non avesse contrastato l’istanza.

Considerato in diritto

Il ricorso del Ministero dell’Economia e delle Finanze è

fondato con riferimento al

riconoscimento dell’ indennizzo per il periodo antecedente al 30 luglio 2003.

L’ ordinanza impugnata, con motivazione contraddittoria, ha escluso la sussistenza della
colpa grave dell’istante con riferimento all’evento detenzione ed ha limitato il riconoscimento

dell’indennizzo al periodo 31 luglio 2002- 30 ottobre 2003. Da tale periodo ha però detratto
a titolo di fungibilità i tre mesi di reclusione che il Pedetta avrebbe dovuto espiare a seguito

di condanna per i delitti di cui agli artt. 468, 477 e 482 c.p. In sostanza, pertanto,

l’indennizzo è stato liquidato per la durata di un anno per il periodo antecedente al 30 luglio
2003.

L’ ordinanza impugnata non è in linea con i principi affermati da questa Corte in tema di
riparazione per ingiusta detenzione.
Sul punto appare opportuno ricordare i principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità
in merito al contenuto ed ai limiti della indagine devoluta al giudice della riparazione sulla
sussistenza di eventuali elementi ostativi all’affermazione del diritto dell’istante.

\\
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Come è noto, il rapporto tra giudizio penale e giudizio per l’equa riparazione, è connotato da
totale autonomia ed impegna piani di indagine diversi e che possono portare a conclusioni
del tutto differenti (assoluzione nel processo, ma rigetto della richiesta riparatoria) sulla
base dello stesso materiale probatorio acquisito agli atti, ma ciò impone un vaglio
caratterizzato dall’utilizzo di parametri di valutazione differenti.
In particolare, è consentita al giudice della riparazione la rivalutazione dei fatti non nella
loro valenza indiziaria o probante (smentita dall’assoluzione), ma in quanto idonei a

determinare, in ragione di una macroscopica negligenza od imprudenza dell’imputato,

l’adozione della misura, traendo in inganno il giudice. Invero il giudice della riparazione,

basandosi su fatti concreti, deve valutare non se la condotta integri estremi di reato, ma
solo se sia stata il presupposto che abbia ingenerato, ancorché in presenza di errore

dell’autorità procedente, la falsa apparenza della sua configurabilità come illecito penale,
dando luogo alla detenzione con rapporto di causa ad effetto (v., tra le tante, Sez. IV, 10
giugno 2010, n. 34662, La Rosa).

In questa prospettiva, nel valutare il comportamento tenuto dall’istante, il giudice della
riparazione, deve fare riferimento al materiale acquisito al processo di cognizione, tra cui,
assume certamente una posizione di rilievo l’ordinanza cautelare, che consente al giudicante
di rapportare il comportamento tenuto dall’imputato alla situazione esistente nel momento

in cui tale provvedimento venne adottato o mantenuto, così da effettuare il giudizio che gli
compete sulla base dello stesso materiale avuto a disposizione dal giudice che ha
provveduto sulla cautela.

Elementi di valutazione della condotta sinergica all’evento detenzione possono e devono
essere tratti anche dal giudizio svoltosi in sede di merito, qualora nel corso della istruzione
dibattimentale siano emerse circostanze rilevanti in tal senso, che meglio qualificano i fatti
posti a fondamento della misura cautelare.

Nel caso di specie il giudice della riparazione non ha applicato correttamente i principi sopra
indicati, con conseguente carenza della motivazione.

La Corte di merito ha del tutto trascurato di valutare la condotta dell’istante,

nella

prospettiva sopra indicata, alla luce degli elementi emergenti dalli ordinanza cautelare dalle
sentenze in atti e si è soffermata esclusivamente sulla natura assolutoria della sentenza,
pronunciata a favore del Pedetta, solo a seguito dell’annullamento della S.C. per vizio di
motivazione della sentenza di condanna, senza analizzare, al fine di verificare la
sussistenza delle condizioni per il diritto alla riparazione, le circostanze di fatto emergenti
dalla citata sentenza.
Il giudice di appello, in sede di rinvio, pur dando atto che lungo la strada percorsa dai

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rapinatori erano stati rinvenuti un cappellino ed una camicia, accertati di proprietà
dell’istante, aveva escluso che le prove dei fatti oggetto della incriminazione fossero
sufficienti al fine di addivenire al di là di ogni ragionevole dubbio all’accertamento della
responsabilità del Pedetta ed aveva ancorato il giudizio di assoluzione alla insussistenza di
persuasivi argomenti tali da escludere che l’imputato si trovasse al momento dei fatti in
luogo diverso da quello del delitto, ritenendo altresì che le conversazioni intercettate non
offrissero un quadro coerente con l’ipotesi accusatoria formulata.
La Corte territoriale si è, invece, limitata ad affermare il diritto al silenzio dell’imputato e ad

escludere una valenza ostativa al riconoscimento del diritto alla riparazione all’alibi,
successivamente fornito dall’indagato, e ritenuto inattendibile, nonché alla latitanza del
medesimo.

Le doglianze del Ministero sul punto sono, pertanto, fondate.

Quanto alla mancata risposta all’interrogatorio da parte del Pedetta,

è nota la

giurisprudenza consolidata di questa Corte secondo la quale non può comunque fondarsi la
“colpa” dell’interessato, idonea ad escludere il diritto all’equa riparazione, solo sul silenzio da

questi serbato in sede di interrogatorio davanti al pubblico ministero ed al GIP, giacchè la

scelta defensionale di avvalersi della facoltà di non rispondere non può valere ex se per
fondare un giudizio positivo di sussistenza della colpa per il rispetto che è dovuto alle
strategie difensive che abbia ritenuto di adottare chi è stato privato della libertà personale;

e ciò anche qualora a tali strategie difensive possa attribuirsi, a posteriori, un contributo
negativo di non chiarificazione del quadro probatorio legittimante la privazione della libertà (
v. Sez. IV, 9 dicembre 2008, n. 4159/09, Lafranceschina).

Tale principio non è però stato interpretato correttamente dalla Corte territoriale che ha
apoditticamente affermato, pur in presenza di un quadro indiziario di rilievo, costituito
soprattutto dal rinvenimento lungo la strada percorsa dai rapinatori di indumenti di
proprietà dell’istante, l’insussistenza della prova che l’imputato fosse in grado di indicare
specifiche circostanze, non note all’organo inquirente, idonee a prospettare una logica

spiegazione al fine di escludere e caducare il valore indiziante degli elementi acquisiti in
sede investigativa che determinarono l’emissione del provvedimento cautelare, k~

L’affermazione è, in vero,

meramente assertiva e contraddittoria laddove dà

contemporaneamente atto dell’alibi, fornito solo successivamente dal Pedetta e ritenuto
inattendibile.
Pur nel rispetto del diritto di difesa e delle opzioni attuative dello stesso, infatti, vi è
comunque un onere di rappresentazione ed allegazione da parte dell’indagato, al fine di
porre l’organo inquirente nelle condizioni di valutare quelle prospettazioni ed allegazioni, di
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comporle nell’unitario quadro investigativo e indiziario, e di rilevare, eventualmente, l’errore
in cui si è incorsi nell’instaurazione dello stato detentivo.

In una tale prospettiva, poiché a quel momento solo l’indagato è in grado di rappresentare
utili e giustificativi elementi di valutazione, nell’ipotesi in cui questi ultimi siano in grado di
fornire una logica spiegazione, al fine di eliminare il valore indiziante di elementi acquisiti
nel corso delle indagini, non il silenzio o la reticenza, in quanto tali, rilevano ma il mancato
esercizio di una facoltà difensiva, quanto meno sul piano dell’allegazione di fatti favorevoli,

che se non può essere da solo posto a fondamento dell’esistenza della colpa grave, vale
però a far ritenere l’esistenza di un comportamento omissivo causalmente efficiente nel

permanere della misura cautelare, del quale può tenersi conto nella valutazione globale
della condotta, in presenza di altri elementi di colpa (v., da ultimo, Sez. IV, 17 novembre
2011, Berdicchia, rv. 251928).

In altri e decisivi termini, nella materia della riparazione per l’ingiusta detenzione, se, ai fini
dell’accertamento della sussistenza della condizione ostativa della “colpa grave”
dell’interessato, il “diritto al silenzio” è insindacabile e inidoneo a fondar per ciò solo la

colpa grave, diverso ragionamento deve farsi allorquando sia possibile affermare che
l’indagato (o l’imputato) fosse in grado di fornire una logica spiegazione al fine di eliminare il

valore indiziante degli elementi acquisiti nel corso delle indagini e posti a fondamento della
misura. Infatti, in tal caso il mancato esercizio di una facoltà difensiva – quanto meno sub

specie di allegazione di fatti favorevoli- pur non essendo idoneo a fondare la colpa grave
nell’emissione del provvedimento restrittivo, varrebbe a far ritenere sussistente una
condotta omissiva concorrente al mantenimento della custodia cautelare (Sezione IV, 18
novembre 2008, Marzola).

In particolare va evidenziato che in tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, la
condizione ostativa al riconoscimento del diritto all’indennizzo, rappresentata dall’avere il
richiedente dato causa all’ingiusta carcerazione, può concretarsi anche in comportamenti di
tipo processuale (autoincolpazione, silenzio consapevole sull’esistenza di un alibi), in ordine
alla cui attribuzione all’interessato e incidenza sulla determinazione della detenzione il
giudice è tenuto a motivare specificamente ( v. Sezione IV, 3 giugno 2010, n. 34656,
Davoli).
Quanto al mancato rilievo attribuito alla latitanza, ai fini del riconoscimento del diritto
all’indennizzo, è vero che il periodo di latitanza, che è una condizione di rifiuto di sottoporsi
alla custodia cautelare, da solo non può costituire colpa grave, ed è comunque successivo
alla emissione della misura cautelare, ma, nel caso in esame, la Corte di merito aveva
tralasciato di considerare le circostanze di fatto in cui tale periodo di latitanza si era svolto

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(nella stessa località e nello stesso periodo del fratello, condannato in via definitiva per gli
notaG- :
stessi li v. Sezione IV, 6 novembre 2007, n. 42746, Ministero Economia c/Rosmini):
circostanze su cui l’attenzione doveva essere senz’altro posta ai fini dell’apprezzamento
della esistenza/inesistenza della colpa grave.

La trattazione del secondo motivo, con il quale il Ministero ricorrente, prospetta, in via
subordinata, l’ eventuale configurabilità della colpa lieve dell’istante, rimane assorbita dalla

presente decisione.

Passando alla trattazione del ricorso proposto nell’interesse del Pedetta, rimangono assorbiti

dalla presente decisione il secondo motivo (afferente il periodo di detenzione oggetto di
indennizzo, travolto dall’annullamento), il quarto e quinto motivo (con i quali si censurano i

criteri di determinazione del quantum), il sesto motivo ( relativo alla liquidazione delle spese
tra le parti).

Nel resto, il ricorso è infondato.

Con riferimento al primo motivo, va rilevato in fatto che il giudice della riparazione ha

escluso il diritto alla riparazione in relazione al periodo 11 novembre 2003- 9 aprile 2004 ,
sul rilievo che la custodia cautelare in carcere era stata ripristinata a causa di una
inottemperanza del Pedetta all’obbligo di presentazione.

La censura svolta sul punto non tiene conto della disciplina degli oneri probatori regolante il

procedimento per la riparazione per la ingiusta detenzione che, pur essendo disciplinato dal
codice di procedura penale, ( v. Sezioni unite 9 luglio 2003, n. 35760, Azgejui, rv. 225471)
ha prevalente natura civilistica, nel senso che laddove non esista alcuna regola applicabile

ovvero la disciplina del codice di rito penale appaia incompatibile con la natura del
procedimento per la riparazione- trovano applicazione i principi del processo civile ( v. sul

punto la citata sentenza 41081/2010, laddove ha precisato che le conclusioni delle Sezioni
unite non possono che riferirsi agli aspetti strettamente processuali del procedimento in
questione).

Applicando tali principi era onere del ricorrente provare i fatti costitutivi della domanda
proposta non essendo sufficiente il mero rinvio ad un’ordinanza del Tribunale del riesame
che avrebbe dato atto della illegittimità del ripristino della custodia.

Anche il terzo motivo è infondato.
Il giudice della riparazione ha correttamente escluso il riconoscimento dell’indennizzo in
relazione al periodo 13 ottobre 2005-22 ottobre 2008 sul rilievo che il ripristino della
custodia cautelare era stato determinato dalla sottrazione del Pedetta agli obblighi imposti.

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In questa prospettiva è evidente che la successiva assoluzione dell’istante, contrariamente a
quanto sostenuto nel ricorso, non può riverberare i suoi effetti sulla detenzione determinata
in ogni caso da un comportamento dell’interessato inottemperante agli obblighi imposti.

Si impone, in conclusione, l’annullamento dell’ordinanza impugnata limitatamente al
riconoscimento del diritto alla riparazione per il periodo antecedente al 30 luglio 2003, con
rinvio al giudice competente che si atterrà ai principi sopra indicati, liquidando in quella sede

P.Q.M.

tra le parti le spese del presente giudizio.

Annulla l’ordinanza impugnata limitatamente al riconoscimento del diritto alla riparazione

per il periodo antecedente al 30 luglio 2003 e rinvia sul punto alla Corte d’Appello di Roma

per nuovo esame rimettendo alla medesima Corte il regolamento delle spese tra le parti del
presente giudizio. Rigetta i ricorsi nel resto.
Così deciso nella camera di consiglio del 21 novembre 2013

Il Consigliere estensore

Il Pr

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