Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 1533 del 17/10/2013


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 1533 Anno 2014
Presidente: BRUSCO CARLO GIUSEPPE
Relatore: DOVERE SALVATORE

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
DI MENTO GAETANO N. IL 08/06/1985
avverso l’ordinanza n. 52/2009 CORTE APPELLO di MESSINA, del
19/10/2011
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. SALVATORE
DOVERE;
lette/sptde le conclusioni del PG Dott. 1
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Data Udienza: 17/10/2013

RITENUTO IN FATTO
1. Di Mento Gaetano, a mezzo del proprio difensore, ha proposto ricorso per
cassazione avverso l’ordinanza della Corte di Appello di Messina, indicata in
epigrafe, con la quale è stata rigettata la sua istanza di riparazione per l’ingiusta
detenzione subita dal 15.12.2008 al 16.4.2008 (agli a.d.) per illecita detenzione
di sostanze stupefacenti; il relativo procedimento venne archiviato in data
19.6.2009 perché gli accertamenti tossicologici avevano escluso la natura

2. La Corte territoriale ha ravvisato la circostanza escludente del diritto alla
riparazione di cui all’art. 314, 1° comma, cod. proc. pen., e cioè di avere
concorso a dare causa all’emissione del provvedimento restrittivo della libertà
personale per colpa grave, perché il Di Mento aveva detenuto, occultato su un
mobile pensile della cucina, un involucro contenente sostanza per gr. 7,5 nonché
una conchiglia, con all’interno gr. 0,8 di sostanza e due bilancini di precisione
con tracce di cocaina. Per la Corte distrettuale, le peculiari modalità di
occultamento, delle quali l’indagato non aveva saputo fornire spiegazione, e la
presenza dei bilancini (e relativa inverosimile giustificazione del Di Mento)
concretano il comportamento gravemente colposo.

3. Il Di Mento deduce vizio motivazionale avendo la Corte di Appello reso
una priva di congruenza e di coerenza

perché non vi è prova di un

comportamento negligente dell’istante e che esso abbia ingenerato l’errore
nell’autorità procedente. Inoltre, la Corte di Appello non ha spiegato quale
incidenza possa aver avuto sulla ingiustizia della complessiva restrizione
personale il periodo di quattro mesi occorso per l’esecuzione degli esami
tossicologici.
CONSIDERATO IN DIRITTO
4. Il ricorso è fondato, nei termini di seguito precisati.
4.1. La censura che merita accoglimento è quella che investe la
identificazione di una condotta gravemente colposa del Di Mento. Infatti questa è
stata identificata dalla Corte di Appello nella detenzione di sostanza
nell’abitazione, contenuta in due diversi contenitori, accompagnata dalla
detenzione di due bilancini di precisione, e dalla presenza di tracce di cocaina, ed
infine dal mancato chiarimento in sede di interrogatorio.
In tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, il giudice di merito, per
valutare se chi l’ha patita vi abbia dato o concorso a darvi causa con dolo o colpa
grave, deve apprezzare, in modo autonomo e completo, tutti gli elementi
probatori disponibili, con particolare riferimento alla sussistenza di condotte che
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stupefacente della sostanza sequestrata al Di Mento.

rivelino eclatante o macroscopica negligenza, imprudenza o violazione di leggi o
regolamenti, fornendo del convincimento conseguito motivazione, che, se
adeguata e congrua, è incensurabile in sede di legittimità (Sez. U, n. 34559 del
26/06/2002 – dep. 15/10/2002, Min. Tesoro in proc. De Benedictis, Rv. 222263).
In particolare, quanto al compendio degli elementi valutabili, il S.C. ha
ripetutamente puntualizzato che il giudice, nell’accertare la sussistenza o meno
della condizione ostativa al riconoscimento del diritto all’equa riparazione per
ingiusta detenzione, consistente nell’incidenza causale del dolo o della colpa

cautelare, deve valutare la condotta tenuta dal predetto sia anteriormente che
successivamente alla sottoposizione alla misura e, più in generale, al momento
della legale conoscenza della pendenza di un procedimento a suo carico (Sez. U,
n. 32383 del 27/05/2010 – dep. 30/08/2010, D’Ambrogio, Rv. 247664; nel
medesimo senso già Sez. U, n. 43 del 13/12/1995 – dep. 09/02/1996, Sarnataro
ed altri, Rv. 203636).
Una risalente pronuncia ha sostenuto che “la condizione ostativa al
riconoscimento del diritto all’indennizzo per l’ingiusta detenzione rappresentata
dall’aver dato causa, da parte del richiedente, all’ingiusta carcerazione, non può
consistere in circostanze relative alla condotta già oggetto della pronuncia
assolutoria, ma deve concretarsi in comportamenti esterni ai temi
dell’incolpazione, di tipo processuale, come un’autoincolpazione, un silenzio
cosciente su di un alibi, una fraudolenta creazione di tracce o prove a proprio
danno” (Sez. 6, n. 1401 del 28/04/1992 – dep. 22/05/1992, Zenatti, Rv.
190488). Essa però è stata presto disattesa dalla successiva giurisprudenza, che
si è attestata sul principio per il quale “in tema di riparazione per l’ingiusta
detenzione, la condizione ostativa al riconoscimento del diritto all’indennizzo,
rappresentata dall’avere il richiedente dato causa, all’ingiusta carcerazione, deve
concretarsi in comportamenti che non siano stati esclusi dal giudice della
cognizione e che possano essere di tipo extra-processuale (grave leggerezza o
macroscopica trascuratezza tali da aver determinato l’imputazione), o di tipo
processuale (autoincolpazione, silenzio consapevole sull’esistenza di un alibi); il
giudice è peraltro tenuto a motivare specificamente sia in ordine all’addebitabilità
all’interessato di tali comportamenti, sia in ordine all’incidenza di essi sulla
determinazione della detenzione. (Sez. 4, n. 8163 del 12/12/2001 – dep.
28/02/2002, Pavone, Rv. 220984).
Vale anche precisare che idonea ad escludere la sussistenza del diritto
all’indennizzo, ai sensi dell’art. 314, primo comma, cod. proc. pen. – è non solo
la condotta volta alla realizzazione di un evento voluto e rappresentato nei suoi
termini fattuali, sia esso confliggente o meno con una prescrizione di legge, ma

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grave dell’interessato rispetto all’applicazione del provvedimento di custodia

anche “la condotta consapevole e volontaria i cui esiti, valutati dal giudice del
procedimento riparatorio con il parametro dell’ “id quod plerumque accidit”
secondo le regole di esperienza comunemente accettate, siano tali da creare una
situazione di allarme sociale e di doveroso intervento dell’autorità giudiziaria a
tutela della comunità, ragionevolmente ritenuta in pericolo. Poiché inoltre, anche
ai fini che qui interessano, la nozione di colpa è data dall’art. 43 cod. pen., deve
ritenersi ostativa al riconoscimento del diritto alla riparazione, ai sensi del
predetto primo comma dell’art. 314 cod. proc. pen., quella condotta che, pur

imprudenza, trascuratezza, inosservanza di leggi, regolamenti o norme
disciplinari, una situazione tale da costituire una non voluta, ma prevedibile,
ragione di intervento dell’autorità giudiziaria che si sostanzi nell’adozione di un
provvedimento restrittivo della libertà personale o nella mancata revoca di uno
già emesso” (Sez. U, n. 43 del 13/12/1995 – dep. 09/02/1996, Sarnataro ed
altri, Rv. 203637).
Nella prospettiva del sindacato di legittimità è decisivo rimarcare che esso è
limitato alla correttezza del ragionamento logico giuridico con cui il giudice è
pervenuto ad accertare o negare i presupposti per l’ottenimento del beneficio,
mentre resta nelle esclusive attribuzioni del giudice di merito, che è tenuto a
motivare adeguatamente e logicamente il proprio convincimento, la valutazione
sull’esistenza e la gravità della colpa o del dolo (Sez. 4, n. 21896 del
11/04/2012 – dep. 06/06/2012, Hilario Santana, Rv. 253325). Dovendosi tener
conto del fatto che va tenuta distinta l’operazione logica propria del giudice del
processo penale, volta all’accertamento della sussistenza di un reato e della sua
commissione da parte dell’imputato, da quella propria del giudice della
riparazione. Questi, pur dovendo operare, eventualmente, sullo stesso
materiale, deve seguire un “iter” logico-motivazionale del tutto autonomo,
perché è suo compito stabilire non se determinate condotte costituiscano o meno
reato, ma se queste si sono poste come fattore condizionante (anche nel
concorso dell’altrui errore) alla produzione dell’evento “detenzione”; ed in
relazione a tale aspetto della decisione egli ha piena ed ampia libertà di valutare
il materiale acquisito nel processo, non già per rivalutarlo, bensì al fine di
controllare la ricorrenza o meno delle condizioni dell’azione (di natura civilistica),
sia in senso positivo che negativo, compresa l’eventuale sussistenza di una causa
di esclusione del diritto alla riparazione (in tal senso, espressamente, Sez. U, n.
43 del 13/12/1995 – dep. 09/02/1996, Sarnataro ed altri, Rv. 203638).

5. Con precipuo riferimento al caso che occupa, ritiene il Collegio che ove il reato
per il quale è instaurato la cautela sia quello di detenzione di sostanza

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tesa ad altri risultati, ponga in essere, per evidente, macroscopica negligenza,

stupefacente a fine di cessione illecita a terzi, l’accertamento in funzione della
verifica dei presupposti per la riparazione della privazione della libertà personale
subita non possa sottrarsi all’evidenziazione degli elementi che deponevano per
l’illecita destinazione, poiché la irrilevanza penale della detenzione per uso
personale importa che questa non può mai essere da sola sufficiente a
concretare la colpa grave ostativa alla riparazione. In senso analogo si è già
espressa questa Corte, in tema di rilevanza dello stato di tossicodipendenza;
nell’occasione si è affermato che “con specifico riguardo proprio alle azioni

senza altre concrete circostanze aggiuntive, non può da solo integrare la “colpa
grave” ostativa all’insorgere del diritto alla riparazione, a norma dell’art.
314 c.p.p., comma 1, in quanto stato soggettivo inidoneo ex se a trarre in
inganno il giudice della cautela in ordine alla realizzazione di una delle fattispecie
penalmente rilevanti previste dal D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, ben può
riconoscersi, invece, siffatta connotazione nel comportamento del
tossicodipendente che si attivi al fine di reperire sostanze stupefacenti, allorché,
come nella fattispecie, ricorrano elementi ulteriori che possano ragionevolmente
indurre a ritenere che si tratti di attività finalizzata non solo al consumo
personale, ma anche allo spaccio (Sez. 4, n. 31973 del 29/04/2010 – dep.
18/08/2010, Codastefano e altro, Rv. 248195; nel medesimo senso Sez. 4, n.
37664 del 2004; Sez. 4, udienza 29 febbraio 2008, D’Alessandris; Sez. 4 n.
37026 del 2008, Bologna).

6. Tanto precisato, la Corte di Appello ha reso una motivazione viziata per
più profili; essa 12Z è contraddittoria poiché ha parlato di sostanza ‘occultata’ a
proposito del materiale collocato su un pensile della cucina, ovvero con modalità
le cui caratteristiche di nascondimento non risultano evidenti; manifestamente
illogica, perché si asserisce che i militari ebbero a ritenerla cocaina avendola
tuttavia descritta genericamente come ‘sostanza’ (senza alcuna caratterizzazione
che ne giustifichi l’accostamento alla cocaina); gravemente carente, perché nulla
si dice a riguardo della gravità della colpa ascritta al Di Mento e della valenza
sinergica che il comportamento di questi, anche in sede di interrogatorio, ha
avuto nell’instaurazione e nel mantenimento della cautela, anche a fronte
dell’accertata assenza di natura stupefacente della sostanza in questione.

7. Si impone quindi l’annullamento dell’ordinanza impugnata, con rinvio alla
Corte di Appello di Messina per nuovo esame.
P.Q.M.

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sanzionate dal D.P.R. n. 309 del 1990, …, se il mero stato di tossicodipendenza,

Annulla l’ordinanza impugnata, con rinvio alla Corte di Appello di Messina
per nuovo esame.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 17.10.2013.

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