Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 15196 del 20/12/2013


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 15196 Anno 2014
Presidente: PETTI CIRO
Relatore: BELTRANI SERGIO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
TELLI DANIELE GUGLIELMO N. IL 15/04/1974
avverso la sentenza n. 553/2007 CORTE APPELLO di REGGIO
CALABRIA, del 20/03/2013
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 20/12/2013 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. SERGIO BELTRANI
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. -f,,j2,4) (`
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che ha concluso per
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Data Udienza: 20/12/2013

I
RITENUTO IN FATI-0

1. La Corte d’appello di Reggio Calabria, con la sentenza indicata in
epigrafe, ha confermato la sentenza emessa in data 10 marzo 2006 dal
locale Tribunale in composizione monocratica, che aveva dichiarato
l’imputato colpevole della ricettazione di un assegno bancario di
provenienza furtiva (accertata in Reggio Calabria il 18 agosto 2003),

delle circostanze attenuanti generiche.
2. Contro tale provvedimento, l’imputato (con l’ausilio di un difensore
iscritto nell’apposito albo speciale), ha proposto ricorso per cassazione,
deducendo il motivo di seguito enunciato nei limiti strettamente
necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173, comma 1,
disp. att. c.p.p.:
I – manifesta illogicità della motivazione quanto all’affermazione di
responsabilità dell’imputato, che sarebbe viziata dal travisamento delle
dichiarazioni rese dal teste PIETRO AMADDEO all’udienza dibattimentale
di primo grado del 23 gennaio 2006 (il ricorrente trascrive integralmente
il relativo verbale), in quanto il teste si è dichiarato non certo al 100%
del riconoscimento fotografico dell’imputato, che tra l’altro era suo
cliente occasionale, e non gli aveva dato documenti di riconoscimento, e
la Corte di appello avrebbe continuato erroneamente a valorizzare detto
riconoscimento, affermando che l’imputato non avrebbe fornito alcuna
giustificazione, cosa che gli era in realtà impossibile essendo egli del
tutto all’oscuro dell’accaduto.

3.

All’odierna udienza pubblica, dopo il controllo della regolarità

degli avvisi di rito, la parte presente ha concluso come da epigrafe, e
questa Corte Suprema ha deciso come da dispositivo in atti, pubblicato
mediante lettura in udienza.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso è integralmente inammissibile per genericità e manifesta
infondatezza.

condannandolo alla pena ritenuta di giustizia, previo riconoscimento

2

I LIMITI DEL SINDACATO DI LEGITTIMITA’ SULLA
MOTIVAZIONE
1. E’ necessario premettere, con riguardo ai limiti del sindacato di
legittimità sulla motivazione dei provvedimenti oggetto di ricorso per
cassazione, delineati dall’art. 606, comma 1, lettera e), c.p.p., come
vigente a seguito delle modifiche introdotte dalla L. n. 46 del 2006, che,
a parere di questo collegio, la predetta novella non ha comportato la

discorso giustificativo della decisione, finalizzata a sovrapporre la propria
valutazione a quella già effettuata dai giudici di merito, dovendo il
giudice della legittimità limitarsi a verificare l’adeguatezza delle
considerazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per giustificare il suo
convincimento.

1.1. La mancata rispondenza di queste ultime alle acquisizioni
processuali può, soltanto ora, essere dedotta quale motivo di ricorso
qualora comporti il c.d. «travisamento della prova» (consistente
nell’utilizzazione di un’informazione inesistente o nell’omissione della
valutazione di una prova, accomunate dalla necessità che il dato
probatorio, travisato od omesso, abbia il carattere della decisività
nell’ambito dell’apparato motivazionale sottoposto a critica), purché
siano indicate in maniera specifica ed inequivoca le prove che si
pretende essere state travisate, nelle forme di volta in volta adeguate
alla natura degli atti in considerazione, in modo da rendere possibile la
loro lettura senza alcuna necessità di ricerca da parte della Corte, e non
ne sia effettuata una monca individuazione od un esame parcellizzato.

1.1.1. Il ricorso che, in applicazione della nuova formulazione
dell’art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p. intenda far valere il vizio di
«travisamento della prova» deve, a pena di inammissibilità (Cass.
pen., Sez. I, sentenza n. 20344 del 18 maggio 2006, CED Cass. n.
234115; Sez. VI, sentenza n. 45036 del 2 dicembre 2010, CED Cass. n.
249035):

2

possibilità, per il giudice della legittimità, di effettuare un’indagine sul

3
(a) identificare specificamente l’atto processuale sul quale fonda la
doglianza;
(b) individuare l’elemento fattuale o il dato probatorio che da tale
atto emerge e che risulta asseritamente incompatibile con la
ricostruzione svolta nella sentenza impugnata;
(c)

dare la prova della verità dell’elemento fattuale o del dato

su cui tale prova si fonda tra i materiali probatori ritualmente acquisiti
nel fascicolo del dibattimento;
(d) indicare le ragioni per cui l’atto invocato asseritamente inficia e
compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l’intera coerenza della
motivazione, introducendo profili di radicale “incompatibilità” all’interno
dell’impianto argomentativo del provvedimento impugnato.

1.1.2.

In proposito, può ritenersi ormai consolidato, nella

giurisprudenza di legittimità, il principio della c.d. “autosufficienza del
ricorso”, inizialmente elaborato dalle Sezioni civili di questa Corte
Suprema.
Valorizzando dapprima la formulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5,
c.p.c. (a norma del quale le sentenze pronunziate in grado d’appello o in
unico grado possono essere impugnate con ricorso per Cassazione:
«(..) 5) per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa
un punto decisivo della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile
di ufficio»;

la disposizione stabilisce attualmente, all’esito delle

modifiche apportate dall’art. 54 d.l. n. 83 del 2012, convertito in

I. n.

134 del 2012, che le sentenze pronunciate in grado d’appello o in unico
grado possono essere impugnate con ricorso per cassazione «(…) 5)
per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato
oggetto di discussione tra le parti»), ed attualmente la formulazione
(introdotta dal D. Lgs. n. 40 del 2006) dell’art. 366, comma 1, n. 6,
c.p.c. (a norma del quale il ricorso per cassazione deve contenere, a
pena di inammissibilità: «(…) 6) la specifica indicazione degli atti

3

probatorio invocato, nonché dell’effettiva esistenza dell’atto processuale

4
processuali, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi sui quali il
ricorso si fonda»), si è osservato che il ricorso per cassazione deve
ritenersi ammissibile in generale, in relazione al principio
dell’autosufficienza che lo connota, quando da esso, pur mancando
l’esposizione dei motivi del gravame che era stato proposto contro la
decisione del giudice di primo grado, non risulti impedito di avere
adeguata contezza, senza necessità di utilizzare atti diversi dal ricorso,

che i ricorrenti avevano inteso far valere in quella sede, essendo esse
univocamente desumibili sia da quanto nel ricorso stesso viene riferito
circa il contenuto della sentenza impugnata, sia dalle critiche che ad
essa vengono rivolte (Cass. civ. Sez. II, sentenza 2 dicembre 2005, n.
26234, CED Cass. n. 585217; Sez. lav., sentenza 17 agosto 2012, n.
14561, CED Cass. n. 623618).
Tenuto conto dei principi e delle finalità complessivamente sottesi al
giudizio di legittimità, questa Corte Suprema ha già ritenuto che «la
teoria dell’autosufficienza del ricorso elaborata in sede civile debba
essere recepita e applicata anche in sede penale con la conseguenza
che, quando la doglianza abbia riguardo a specifici atti processuali, la cui
compiuta valutazione si assume essere stata omessa o travisata, è
onere del ricorrente suffragare la validità del suo assunto mediante la
completa trascrizione dell’integrale contenuto degli atti specificamente
indicati (ovviamente nei limiti di quanto era stato già dedotto in
precedenza), posto che anche in sede penale – in virtù del principio di
autosufficienza del ricorso come sopra formulato e richiamato -deve
ritenersi precluso a questa Corte l’esame diretto degli atti del processo,
a meno che il fumus del vizio dedotto non emerga all’evidenza dalla
stessa articolazione del ricorso» (Sez. I, sentenza n. 16706 del 18
marzo – 22 aprile 2008, CED Cass. n. 240123; Sez. I, sentenza n. 6112
del 22 gennaio – 12 febbraio 2009, CED Cass. n. 243225; Sez. V,
sentenza n. 11910 del 22 gennaio – 26 marzo 2010, CED Cass. n.
246552, per la quale è inammissibile il ricorso per cassazione che
deduca il vizio di manifesta illogicità della motivazione e, pur(
./
richiamando atti specificamente indicati, non contenga la loro integrai

4

della materia che era stata devoluta al giudice di appello e delle ragioni

5
trascrizione o allegazione e non ne illustri adeguatamente il contenuto,
così da rendere lo stesso autosufficiente con riferimento alle relative
doglianze; Sez. VI, sentenza n. 29263 dell’ 8 – 26 luglio 2010, CED
Cass. n. 248192, per la quale il ricorso per cassazione che denuncia il
vizio di motivazione deve contenere, a pena di inammissibilità e in forza
del principio di autosufficienza, le argomentazioni logiche e giuridiche
sottese alle censure rivolte alla valutazione degli elementi probatori, e

esame diretto è alla stessa precluso; Sez. II, sentenza n. 25315 del 20
marzo – 27 giugno 2012, CED Cass. n. 253073, per la quale in tema di
ricorso per cassazione, è onere del ricorrente, che lamenti l’omessa o
travisata valutazione dei risultati delle intercettazioni effettuate, indicare
l’atto asseritamene affetto dal vizio denunciato, curando che esso sia
effettivamente acquisito al fascicolo trasmesso al giudice di legittimità o
anche provvedendo a produrlo in copia nel giudizio di cassazione).

In proposito, va, pertanto, affermato il seguente principio di diritto:
«In tema di ricorso per cassazione, va recepita e applicata anche in
sede penale la teoria della “autosufficienza del ricorso”, elaborata in
sede civile; ne consegue che, quando i motivi riguardino specifici atti
processuali, la cui compiuta valutazione si assume essere stata omessa
o travisata, è onere del ricorrente suffragare la validità del suo assunto
mediante l’allegazione o la completa trascrizione dell’integrale contenuto
degli atti specificamente indicati, non potendo egli limitarsi ad invitare la
Corte Suprema alla lettura degli atti indicati, posto che anche in sede
penale è precluso al giudice di legittimità l’esame diretto degli atti del
processo»

1.2. La mancanza, l’illogicità e la contraddittorietà della motivazione,

come vizi denunciabili in sede di legittimità, devono risultare di spessore
tale da risultare percepibili ictu ocu/i, dovendo il sindacato di legittimità
al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando [
ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese

5

non può limitarsi a invitare la Corte alla lettura degli atti indicati, il cui

6
deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano
logicamente incompatibili con la decisione adottata, purché siano
spiegate in modo logico ed adeguato le ragioni del convincimento senza
vizi giuridici (in tal senso, conservano validità, e meritano di essere
tuttora condivisi, i principi affermati da questa Corte Suprema, Sez. un.,
sentenza n. 24 del 24 novembre 1999, CED Cass. n. 214794; Sez. un.,
sentenza n. 12 del 31 maggio 2000, CED Cass. n. 216260; Sez. un.,

Devono tuttora escludersi la possibilità, per il giudice di legittimità, di
«un’analisi orientata ad esaminare in modo separato ed atomistico i
singoli atti, nonché i motivi di ricorso su di essi imperniati ed a fornire
risposte circoscritte ai diversi atti ed ai motivi ad essi relativi» (Cass.
pen., Sez. VI, sentenza n. 14624 del 20 marzo 2006, CED Cass. n.
233621; Sez. II, sentenza n. 18163 del 22 aprile 2008, CED Cass. n.
239789), e di una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento
della decisione o dell’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di
ricostruzione e valutazione dei fatti (Sez. VI, sentenza n. 27429 del 4
luglio 2006, CED Cass. n. 234559; Sez. VI, sentenza n. 25255 del 14
febbraio 2012, CED Cass. n. 253099).

1.3. Il giudice di legittimità ha, pertanto, ai sensi del novellato art.
606 c.p.p., il compito di accertare (Cass. pen., Sez. VI, sentenza n.
35964 del 28 settembre 2006, CED Cass. n. 234622; Sez. III, sentenza
n. 39729 del 18 giugno 2009, CED Cass. n. 244623; Sez. V, sentenza n.
39048 del 25 settembre 2007, CED Cass. n. 238215; Sez. II, sentenza
n. 18163 del 22 aprile 2008, CED Cass. n. 239789):
(a) il contenuto del ricorso (che deve contenere gli elementi sopra
individuati);
(b) la decisività del materiale probatorio richiamato (che deve essere
tale da disarticolare l’intero ragionamento del giudicante o da
determinare almeno una complessiva incongruità della motivazione);
(c) l’esistenza di una radicale incompatibilità con l’iter motivazionale
seguito dal giudice di merito e non di un semplice contrasto;

6

sentenza n. 47289 del 24 settembre 2003, CED Cass. n. 226074).

7
(d) la sussistenza di una prova omessa od inventata, e del c.d.
«travisamento del fatto», ma solo qualora la difformità della realtà
storica sia evidente, manifesta, apprezzabile ictu °cui/ ed assuma anche
carattere decisivo in una valutazione globale di tutti gli elementi
probatori esaminati dal giudice di merito (il cui giudizio valutativo non è
sindacabile in sede di legittimità se non manifestamente illogico e,

quindi, anche contraddittorio).

1.4. In tema di ricorso per cassazione, è, inoltre, inammissibile il
motivo in cui si deduca la violazione dell’art. 192 c.p.p., anche se in
relazione agli artt. 125 e 546, comma 1, lett. e), c.p.p., per censurare
l’omessa od erronea valutazione di ogni elemento di prova acquisito o
acquisibile, in una prospettiva atomistica ed indipendentemente da un
raffronto con il complessivo quadro istruttorio, in quanto i limiti
all’ammissibilità delle doglianze connesse alla motivazione, fissati
specificamente dall’art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p., non possono
essere superati ricorrendo al motivo di cui all’art. 606, comma 1, lett.
c), c.p.p., nella parte in cui consente di dolersi dell’inosservanza delle
norme processuali stabilite a pena di nullità (Cass. pen., Sez. VI,
sentenza n. 45249 dell’8 novembre 2012, CED Cass. n. 254274).

1.5. Va, infine, evidenziato che non è denunciabile il vizio di
motivazione con riferimento a questioni di diritto.

1.5.1. Invero, come più volte chiarito dalla giurisprudenza di questa
Corte Suprema (Sez. II, sentenze n. 3706 del 21. – 27 gennaio 2009,
CED Cass. n. 242634, e n. 19696 del 20 – 25 maggio 2010, CED Cass.
n. 247123), anche sotto la vigenza dell’abrogato codice di rito (Sez. IV,
sentenza n. 6243 del 7 marzo – 24 maggio 1988, CED Cass. n. 178442),
il vizio di motivazione denunciabile nel giudizio di legittimità è solo quello
attinente alle questioni di fatto e non anche di diritto, giacché ove queste
ultime, anche se in maniera immotivata o contraddittoriamente od
illogicamente motivata, siano comunque esattamente risolte, non può

I

sussistere ragione alcuna di doglianza, mentre, viceversa, ove tare ——zL

7

8
soluzione non sia giuridicamente corretta, poco importa se e quali
argomenti la sorreggano.
E, d’altro canto, l’interesse all’impugnazione potrebbe nascere solo
dall’errata soluzione di una questione giuridica, non dall’eventuale
erroneità degli argomenti posti a fondamento giustificativo della
soluzione comunque corretta di una siffatta questione (Sez. IV, sentenza

Va, pertanto, ribadito il seguente principio di diritto:
«nel giudizio di legittimità il vizio di motivazione non è
denunciabile con riferimento alle questioni di diritto decise dal giudice di
merito, allorquando la soluzione di esse sia giuridicamente corretta.
D’altro canto, l’interesse all’impugnazione potrebbe nascere soltanto
dall’errata soluzione delle suddette questioni, non dall’indicazione di
ragioni errate a sostegno di una soluzione comunque giuridicamente
corretta).

LA NECESSARIA SPECIFICITA’ DEL RICORSO PER CASSAZIONE
2.

La giurisprudenza di questa Corte Suprema è, condivisibilmente,

orientata nel senso dell’inammissibilità, per difetto di specificità, del
ricorso presentato prospettando vizi di motivazione del provvedimento
impugnato, i cui motivi siano enunciati in forma perplessa o alternativa
(Sez. VI, sentenza n. 32227 del 16 luglio 2010, CED Cass. n. 248037:
nella fattispecie il ricorrente aveva lamentato la “mancanza e/o
insufficienza e/o illogicità della motivazione” in ordine alla sussistenza
dei gravi indizi di colpevolezza e delle esigenze cautelari posti a
fondamento di un’ordinanza applicativa di misura cautelare personale;
Sez. VI, sentenza n. 800 del 6 dicembre 2011 – 12 gennaio 2012,
Bidognetti ed altri, CED Cass. n. 251528).
Invero, l’art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p. stabilisce che i
«mancanza, contraddittorietà o

provvedimenti sono ricorribili per

manifesta illogicità della motivazione, quando il vizio risulta dal testo del
provvedimento impugnato ovvero da altri atti del processo
specificamente indicati nei motivi di gravame».

8

n. 4173 del 22 febbraio – 13 aprile 1994, CED Cass. n. 197993).

9
La disposizione, se letta in combinazione con l’art. 581, comma 1,
lett. c), c.p.p. (a norma del quale è onere del ricorrente

«enunciare i

motivi del ricorso, con l’indicazione specifica delle ragioni di diritto e
degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta») evidenzia che
non può ritenersi consentita l’enunciazione perplessa ed alternativa dei
motivi di ricorso, essendo onere del ricorrente di specificare con
precisione se la deduzione di vizio di motivazione sia riferita alla

pluralità di tali vizi, che vanno indicati specificamente in relazione alle
varie parti della motivazione censurata.
Il principio è stato più recentemente accolto anche da questa sezione,
a parere della quale «È inammissibile, per difetto di specificità, il
ricorso nel quale siano prospettati vizi di motivazione del provvedimento
impugnato, i cui motivi siano enunciati in forma perplessa o alternativa,
essendo onere del ricorrente specificare con precisione se le censure
siano riferite alla mancanza, alla contraddittorietà od alla manifesta
illogicità ovvero a più di uno tra tali vizi, che vanno indicati
specificamente in relazione alle parti della motivazione oggetto di
gravame» (Sez. II, sentenza n. 31811 dell’8 maggio 2012, CED Cass.
n. 254329).
Per tali ragioni la censura alternativa ed indifferenziata di mancanza,
contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione risulta priva
della necessaria specificità, il che rende il ricorso inammissibile.

2.1. Infine, secondo altro consolidato e condivisibile orientamento di
questa Corte Suprema (per tutte, Sez. IV, sentenza n. 15497 del 22
febbraio – 24 aprile 2002, CED Cass. n. 221693; Sez. VI, sentenza n.
34521 del 27 giugno – 8 agosto 2013, CED Cass. n. 256133), è
inammissibile per difetto di specificità il ricorso che riproponga
pedissequamente le censure dedotte come motivi di appello (al più con
l’aggiunta di frasi incidentali contenenti contestazioni, meramente
assertive ed apodittiche, della correttezza della sentenza impugnat

9

mancanza, alla contraddittorietà od alla manifesta illogicità ovvero a una

10
senza prendere in considerazione, per confutarle, le argomentazioni in
virtù delle quali i motivi di appello non siano stati accolti.

2.1.1. Si è, infatti, esattamente osservato (Sez. VI, sentenza n. 8700

del 21 gennaio – 21 febbraio 2013, CED Cass. n. 254584) che «La
funzione tipica dell’impugnazione è quella della critica argomentata

realizza attraverso la presentazione di motivi che, a pena di
inammissibilità (artt. 581 e 591 c.p.p.), debbono indicare specificamente
le ragioni di diritto e gli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta.
Contenuto essenziale dell’atto di impugnazione è, pertanto, innanzitutto
e indefettibilmente il confronto puntuale (cioè con specifica indicazione
delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che fondano il dissenso)
con le argomentazioni del provvedimento il cui dispositivo si contesta).

2.1.2. Il motivo di ricorso in cassazione è caratterizzato da una

“duplice specificità”: «Deve essere sì anch’esso conforme all’art. 581
c.p.p., lett. C (e quindi contenere l’indicazione delle ragioni di diritto e
degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta presentata al
giudice dell’impugnazione); ma quando “attacca” le ragioni che
sorreggono la decisione deve, altresì, contemporaneamente enucleare in
modo specifico il vizio denunciato, in modo che sia chiaramente
sussumibile fra i tre, soli, previsti dall’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e),
deducendo poi, altrettanto specificamente, le ragioni della sua decisività
rispetto al percorso logico seguito dal giudice del merito per giungere
alla deliberazione impugnata, sì da condurre a decisione differente»
(Sez. VI, sentenza n. 8700 del 21 gennaio – 21 febbraio 2013, CED
Cass. n. 254584).

2.1.3. Risulta, pertanto, evidente che,

«se il motivo di ricorso si

limita a riprodurre il motivo d’appello, per ciò solo si destina
all’inammissibilità, venendo meno in radice l’unica funzione per la quale
è previsto e ammesso (la critica argomentata al provvedimento), posto
che con siffatta mera riproduzione il provvedimento ora formalmen

10

avverso il provvedimento cui si riferisce. Tale critica argomentata si

11

‘attaccato’, lungi dall’essere destinatario di specifica critica argomentata,
è di fatto del tutto ignorato. Nè tale forma di redazione del motivo di
ricorso (la riproduzione grafica del motivo d’appello) potrebbe essere
invocata come implicita denuncia del vizio di omessa motivazione da
parte del giudice d’appello in ordine a quanto devolutogli nell’atto di
impugnazione. Infatti, quand’anche effettivamente il giudice d’appello
abbia omesso una risposta, comunque la mera riproduzione grafica del

per almeno due ragioni. È censura di merito. Ma soprattutto (il che vale
anche per l’ipotesi delle censure in diritto contenute nei motivi d’appello)
non è mediata dalla necessaria specifica e argomentata denuncia del
vizio di omessa motivazione (e tanto più nel caso della motivazione
cosiddetta apparente che, a differenza della mancanza “grafica”,
pretende la dimostrazione della sua mera “apparenza” rispetto ai temi
tempestivamente e specificamente dedotti); denuncia che, come detto,
è pure onerata dell’obbligo di argomentare la decisività del vizio, tale da
imporre diversa conclusione del caso».

2.1.4. Può, pertanto, concludersi che

«la riproduzione, totale o

parziale, del motivo d’appello ben può essere presente nel motivo di
ricorso (ed in alcune circostanze costituisce incombente essenziale
dell’adempimento dell’onere di autosufficienza del ricorso), ma solo
quando ciò serva a “documentare” il vizio enunciato e dedotto con
autonoma specifica ed esaustiva argomentazione, che, ancora
indefettibilmente, si riferisce al provvedimento impugnato con il ricorso e
con la sua integrale motivazione si confronta. A ben vedere, si tratta dei
principi consolidati in materia di “motivazione per relazione” nei
provvedimenti giurisdizionali e che, con la mera sostituzione dei
parametri della prima sentenza con i motivi d’appello e della seconda
sentenza con i motivi di ricorso per cassazione, trovano piena
applicazione anche in ordine agli atti di impugnazione»

(Sez. VI,

sentenza n. 8700 del 21 gennaio – 21 febbraio 2013, CED Cass. n.
254584).

LA MOTIVAZIONE DELLA SENTENZA D’APPELLO

11

motivo d’appello condanna il motivo di ricorso all’inammissibilità. E ciò

12
3. Anche il giudice d’appello non è tenuto a rispondere a tutte le
argomentazioni svolte nell’impugnazione, giacché le stesse possono
essere disattese per implicito o per aver seguito un differente

iter

motivazionale o per evidente incompatibilità con la ricostruzione
effettuata (per tutte, Cass. pen., Sez. VI, sentenza n. 1307 del 26
settembre 2002 – 14 gennaio 2003, CED Cass. n. 223061).

responsabilità, va, peraltro, ritenuta l’ammissibilità della motivazione
della sentenza d’appello

per relationem

a quella della decisione

impugnata, sempre che le censure formulate contro la sentenza di primo
grado non contengano elementi ed argomenti diversi da quelli già
esaminati e disattesi, in quanto il giudice di appello, nell’effettuazione
del controllo della fondatezza degli elementi su cui si regge la sentenza
impugnata, non è tenuto a riesaminare questioni sommariamente riferite
dall’appellante nei motivi di gravame, sulle quali si sia soffermato il
primo giudice, con argomentazioni ritenute esatte e prive di vizi logici,
non specificamente e criticamente censurate.
In tal caso, infatti, le motivazioni della sentenza di primo grado e di
appello, fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato
organico ed inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento per
giudicare della congruità della motivazione, tanto più ove i giudici
dell’appello abbiano esaminato le censure con criteri omogenei a quelli
usati dal giudice di primo grado e con frequenti riferimenti alle
determinazioni ivi prese ed ai passaggi logico-giuridici della decisione,
sicché le motivazioni delle sentenze dei due gradi di merito costituiscano
una sola entità (Cass. pen., Sez. II, sentenza n. 1309 del 22 novembre
1993 – 4 febbraio 1994, CED Cass. n. 197250; Sez. III, sentenza n.
13926 del 10 dicembre 2011 – 12 aprile 2012, CED Cass. n. 252615).

L’AFFERMAZIONE DI RESPONSABILITA’ <>.

4.

Per quel che concerne il significato da attribuire alla locuzione

«oltre ogni ragionevole dubbio», presente nel testo novellato dell’ .

12

3.1. In presenza di una doppia conforma affermazione di

13
533 c.p.p. quale parametro cui conformare la valutazione inerente
all’affermazione di responsabilità dell’imputato, è opportuno evidenziare
che, al di là dell’icastica espressione, mutuata dal diritto anglosassone,
ne costituiscono fondamento il principio costituzionale della presunzione
di innocenza e la cultura della prova e della sua valutazione, di cui è
permeato il nostro sistema processuale.
Si è, in proposito, esattamente osservato che detta espressione ha

precedenza, il «ragionevole dubbio» sulla colpevolezza dell’imputato
ne comportava pur sempre il proscioglimento a norma dell’art. 530,
comma 2, c.p.p., sicché non si è in presenza di un diverso e più rigoroso
criterio di valutazione della prova rispetto a quello precedentemente
adottato dal codice di rito, ma è stato ribadito il principio, già in
precedenza immanente nel nostro ordinamento costituzionale ed
ordinario (tanto da essere già stata adoperata dalla giurisprudenza di
questa Corte Suprema – per tutte, Sez. un., sentenza n. 30328 del 10
luglio 2002, CED Cass. n. 222139 -, e solo successivamente recepita nel
testo novellato dell’art. 533 c.p.p.), secondo cui la condanna è possibile
soltanto quando vi sia la certezza processuale assoluta della
responsabilità dell’imputato (Cass. pen., Sez. II, sentenza n. 19575 del
21 aprile 2006, CED Cass. n. 233785; Sez. II, sentenza n. 16357 del 2
aprile 2008, CED Cass. n. 239795).
In argomento, si è più recentemente, e conclusivamente, affermato
(Sez. II, sentenza n. 7035 del 9 novembre 2012 – 13 febbraio 2013,
CED Cass. n. 254025) che «La previsione normativa della regola di
giudizio dell’ “al di là di ogni ragionevole dubbio”, che trova fondamento
nel principio costituzionale della presunzione di innocenza, non ha
introdotto un diverso e più restrittivo criterio di valutazione della prova
ma ha codificato il principio giurisprudenziale secondo cui la pronuncia di
condanna deve fondarsi sulla certezza processuale della responsabilità
dell’imputato».

13

una funzione meramente descrittiva più che sostanziale, giacché, in

14
IL RICORSO
5. Alla luce di queste necessarie premesse va esaminato l’odierno
ricorso.

6. La Corte di appello, rifacendosi alla sentenza di primo grado, come
è fisiologico in presenza di una doppia conforme affermazione di
responsabilità, ha indicato le ragioni poste a fondamento del ritenuto

necessario elemento psicologico (f. 2), valorizzando, con rilievi sintetici, e
pur tuttavia esaurienti, logici, non contraddittori, e quindi esenti da vizi
rilevabili in questa sede, l’intervenuto riconoscimento fotografico
dell’imputato da parte del teste AMADDEO, la disponibilità che l’imputato
aveva dell’assegno di provenienza furtiva

de quo,

e l’assenza di

giustificazioni in ordine all’acquisizione di tale disponibilità, che deve
necessariamente ritenersi intervenuta fuori dai normali e legittimi canali
di circolazione del titolo.
A fronte di tali rilievi, il ricorrente ha reiterato più o meno
pedissequamente doglianze già costituenti oggetto di appello, e già
disattese dalla Corte di appello, senza adeguatamente confrontarsi con il
percorso argomentativo seguito dalla sentenza impugnata, il che rende il
ricorso privo della necessaria specificità, e senza documentare, nei modi
che si è visto essere di rito (cfr. §§ 1.1. ss. di queste Considerazioni in
diritto), eventuali travisamenti, poiché quello invocato tale non è.
Invero, la Corte di appello (f. 2) ha fatto espresso riferimento alla
«contestata identificazione del soggetto che materialmente ha
consegnato il titolo»,

oggetto delle doglianze dell’imputato,

conclusivamente ritenendone l’affidabilità, ai fini dell’affermazione di
responsabilità, in considerazione del «complessivo quadro probatorio
emergente»

(«l’assegno era vergato, quale prima girata, dal

medesimo TEL/i>>, che soltanto in dibattimento aveva disconosciuto la
sottoscrizione), che riepilogava.
Al riguardo, il primo giudice aveva acutamente osservato che

«le

dichiarazioni del teste sull’avvenuto riconoscimento del TELLI [sia pur con
la precisazioni emergenti dal verbale cui la difesa ha fatto riferimento]
appaiono attendibili in ragione di quanto dallo stesso sostenuto circa la

14

accertamento della materialità del fatto contestato e della sussistenza del

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conoscenza dell’imputato, già prima del fatto per cui è processo,
ancorché soltanto di vista, della circostanza che lo stesso l’avesse poi
rivisto per caso successivamente ai fatti di causa e dell’assoluta assenza
di elementi che possano indurre a dubitare della genuinità della
testimonianza e della bontà dell’avvenuto riconoscimento».
Deve aggiungersi che il contestato riconoscimento fotografico aveva
avuto luogo il 13 novembre 2003 (f. 5 del verbale contenente l’esame del

in sede di esame dibattimentale, celebrato il 23 gennaio 2006; in sede di
individuazione fotografica, il teste non aveva palesato evidenti incertezze,
avendo dichiarato (f. 7 del verbale)

«sembrerebbe che la persona

ritratta nella foto contraddistinta con il numero uno sia quella che mi ha
consegnato l’assegno in questione».
La correttezza delle argomentazioni della Corte di appello evidenzia,
comunque, a prescindere dalla genericità del ricorso perché reiterativo di
censure già motivatamente disattese dalla Corte di appello, la manifesta
infondatezza del ricorso.

7. La declaratoria di inammissibilità totale del ricorso comporta, ai
sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al
pagamento delle spese processuali, nonché – apparendo evidente che
egli ha proposto il ricorso determinando la causa di inammissibilità per
colpa (Corte cost., 13 giugno 2000 n. 186) e tenuto conto della rilevante
entità di detta colpa – della somma di Euro mille in favore della Cassa
delle Ammende a titolo di sanzione pecuniaria.

P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al
pagamento delle spese processuali e della somma di euro mille in favore
della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, udienza pubblica 20 dicembre 2013.

teste AMADDEO), quando i ricordi del teste erano senz’altro più vivi che

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