Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 15172 del 06/02/2014


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 15172 Anno 2014
Presidente: SQUASSONI CLAUDIA
Relatore: DI NICOLA VITO

SENTENZA

sul ricorso proposto da
Zecchini Laura, nata in Brescia il 09/02/1972
avverso la sentenza del 21/05/2013 della Corte di appello di Brescia;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Vito Di Nicola;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Angelo
Di Popolo, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
udito per l’imputato

Data Udienza: 06/02/2014

RITENUTO IN FATTO

1. La Corte di appello di Brescia, con sentenza emessa in data 21 maggio
2013, in parziale riforma della sentenza in data 4 maggio 2012 del Tribunale di
Brescia, riduceva, concesse le attenuanti generiche, la pena inflitta a Laura
Zecchini a mesi otto di reclusione.
Alla ricorrente era contestato il reato previsto e punito dall’arti° bis d.l.vo
10 marzo 2000, n.74 perché nella qualità di legale rappresentante della NOVA

presentazione della dichiarazione annuale di sostituto d’imposta ritenute
risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti per un ammontare complessivo
di € 96.566,00 (capo a) nonché il reato di cui alli art. 10 ter d.l.vo n. 74 del 2000
perché, nella suddetta qualità, non versava, in relazione all’annualità 2006,
l’imposta sul valore aggiunto, dovuta in base alla dichiarazione annuale, entro il
termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo di imposta successivo,
per un ammontare complessivo pari ad € 141.095.00.
La Corte territoriale giungeva alla sopraindicata conclusione escludendo che
l’imputata fosse una semplice prestanome per avere consapevolmente assunto la
carica di amministratore della Nova s.r.l. e, come da ella stessa dichiarato,
avendo avuto, nel novembre 2006 e pertanto ben prima del perfezionarsi degli
illeciti penali, piena contezza della situazione societaria.
Secondo la Corte del merito competeva pertanto all’imputata, che in piena
scienza e coscienza aveva volontariamente accettato l’assunzione della carica
societaria, l’esercizio della vigilanza connessa a detta carica, né un tale obbligo
poteva venir meno in ragione della asserita posizione di amministratrice di fatto
della madre.

2. Per l’annullamento della sentenza ricorre personalmente per cassazione
Laura Zecchini affidando il gravame ai seguenti tre motivi.
2.1. Con il primo denuncia, ex art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., il
vizio di mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione
derivante da omessa valutazione di atti del procedimento specificatamente
indicati nei motivi di gravame.
Si sostiene che la Corte territoriale abbia omesso di valutare alcuni dati
incontroversi già oggetto di specifici motivi di impugnazione, quali il fatto che la
Zecchini si recasse in azienda solo sporadicamente, non avesse la gestione della
società e neppure il potere di compiere l’azione doverosa o di impedire che essa
venisse omessa dall’amministratrice di fatto verso la quale riponeva, trattandosi
della madre, la massima fiducia e che invece apponeva anche la firma
contraffatta della figlia sui documenti fiscali, gestiva il rapporto con le banche,
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s.r.I., non versava, per l’anno 2006, entro il termine previsto per la

con i dipendenti, con i clienti e fornitori ed intratteneva esclusivamente i rapporti
con il commercialista della società, prendendo decisioni relative all’azienda (ad.
es. redazione bilanci).
L’omessa motivazione su punti tanto decisivi ha comportato, secondo la
ricorrente, un’affermazione di responsabilità fondata su motivazione meramente
apodittica e contraddittoria, e perciò necessitante di cassazione.
2.2. Con il secondo motivo si denuncia la violazione dell’art. 606, comma 1,
lett. b) ed e), cod. proc. pen. per erronea interpretazione della legge e vizio

posizione soggettiva della ricorrente.
Si assume come la Corte territoriale, da un lato, abbia omesso di valutare in
motivazione le osservazioni sollevate dalla difesa circa l’impossibilità di ascrivere,
anche a solo titolo di dolo eventuale, non solo le condotte commissive bensì
anche quelle omissive proprie dell’amministratrice di diritto, atteso il rapporto di
naturale di fiducia che legava la figlia alla madre e, dall’altro, come abbia
erroneamente interpretato l’art. 1, comma 4, d.P.R. 1998, n. 322 per il quale la
dichiarazione dei soggetti diversi dalle persone fisiche è sottoscritta a pena di
nullità dal rappresentante legale e, in mancanza, da chi ne ha l’amministrazione
anche di fatto, o da un rappresentante negoziale.
Sotto tale specifico profilo, la Corte del merito avrebbe omesso di
considerare come il rappresentante legale debba ritenersi mancante, non solo
quando sia inesistente la nomina, ma anche in presenza di un prestanome che
non abbia alcun potere o ingerenza nella gestione della società e, quindi, non sia
in condizione di presentare la dichiarazione perché non disponga dei documenti
contabili detenuti dall’amministratore di fatto. In tale situazione l’intraneo deve
ritenersi colui che, sia pure di fatto, ha l’amministrazione della società mentre al
prestanome potrebbe essergli addebitato il fatto a titolo di concorso a norma
dell’art. 2392 cod. civ. e art. 40 cpv. cod. pen. a condizione che ricorra,
situazione nella specie non sussistente, l’elemento soggettivo proprio del singolo
reato.
2.3 Con il terzo ed ultimo motivo di gravame si denuncia, ex art. 606,
comma 1, lett. d), cod. proc. pen., il vizio di mancata assunzione di prove
richieste dall’imputata, sostenendosi come la Corte bresciana abbia rigettato la
richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale finalizzata all’assunzione
di prove decisive con specifico riferimento al ruolo di mero prestanome, senza
alcun potere o ingerenza nella gestione della società da parte della Zecchini.

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logico, contraddittorietà e difetto di motivazione e illogicità della stessa circa la

CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile per la manifesta infondatezza di tutti i motivi.

2. Il primo ed il secondo motivo di gravame, essendo tra loro strettamente
collegati, possono essere congiuntamente esaminati.
Con essi, la ricorrente censura l’impugnata sentenza per non avere
riconosciuto che la Zecchini fosse mero prestanome della madre e, dunque,

assente l’elemento soggettivo del reato.
Le doglianze sono prive di fondamento, avendo la Corte territoriale accertato
come la Zecchini, laureata in economia e commercio, fosse dotata di tutti gli
strumenti culturali necessari affinché avesse piena consapevolezza di quali
fossero gli obblighi riconnessi dalla legge alla carica di amministratore di società;
come fosse pienamente integrata nella sua famiglia, svolgendo un ruolo attivo
nella società stessa, e come interloquisse con i familiari circa le problematiche
dell’impresa.
Avendo peraltro rilevato come la posizione di amministratore di fatto della
società da parte della madre fosse stata esclusa dalla sentenza di primo grado, la
Corte territoriale non ha mancato di sottolineare come sia stata la stessa
Zecchini ad affermare che nel novembre 2006, e dunque in epoca antecedente al
perfezionamento degli illeciti penali, avesse avuto piena contezza della situazione
societaria.
Tenuto conto di ciò, la Corte bresciana ha fatto buon governo dei principi
espressi da questa Corte secondo cui l’amministratore di diritto di una società è
penalmente responsabile – o a titolo di dolo generico, per la consapevolezza che
dalla condotta omissiva possano scaturire gli eventi tipici del reato, o a titolo di
dolo eventuale per la semplice accettazione del rischio che questi si verifichino anche nel caso in cui la gestione societaria sia, di fatto, svolta da terzi, gravando
sull’amministratore di diritto, quale legale rappresentante, i doveri positivi di
vigilanza e di controllo sulla corretta gestione, pur se questi sia mero
prestanome di altri soggetti che agiscano quali amministratori di fatto (Sez. 3,
25/05/2011, n. 25047, Piga, Rv. 250677; Sez. 3, 06/04/2006, n. 22919, Furini,
Rv. 234474).
Tale approdo giurisprudenziale fonda sul condivisibile rilievo che gli
amministratori di società sono titolari di una posizione di garanzia, nel senso che
su di loro comunque incombe, in presenza di un dovere giuridico di attivarsi per
evitare che l’evento temuto si verifichi, l’obbligo di impedire l’evento
pregiudizievole, anche se prodotto da una condotta costituente reato posta in
essere da altri.
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estranea ai fatti a lei addebitati o quantomeno perché si sarebbe dovuto ritenere

La giurisprudenza di legittimità ha chiarito come le componenti essenziali
della posizione di garanzia, in cui versi il titolare dell’obbligo, siano, da un lato,
una fonte normativa di diritto privato o pubblico che costituisca il dovere di
intervento e, dall’altro, l’esistenza di un potere attraverso il corretto uso del
quale il soggetto garante sia in grado di impedire l’evento (Sez. 4, 21/05/1998,
n. 8217, Fornari ed altro, Rv. 212144), tanto sull’esatto presupposto che la
norma dell’art. 40 capoverso cod. pen., secondo la quale non impedire un
evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo, può e

artt. 2, 32, 41, comma secondo, della costituzione (Sez. 4, Sentenza
06/12/1990, n. 4793, dep. 29/04/1991, Bonetti, Rv. 191792).
Va dunque ricordato come la giurisprudenza di legittimità abbia individuato
la posizione di garanzia dell’amministratore di società di capitali nell’art. 2392
cod. civ. secondo il quale sussiste la responsabilità degli amministratori quando
essi, essendo a conoscenza di fatti pregiudizievoli, non abbiano fatto quanto
potevano per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze
dannose.
Sicché, al cospetto di una motivazione logica ed adeguata dal parte della
Corte del merito circa la prova positiva di una concreta ingerenza della ricorrente
negli affari della società, è del tutto azzardato affermare che la Zecchini fosse
una semplice prestanome, completamente disinteressata agli andamenti
aziendali e che tutti gli affari sociali fossero gestiti dalla madre senza
implicazione di alcun genere da parte sua.
Tale è la ragione per la quale è del tutto improprio il riferimento contenuto
nel ricorso alla sentenza n. 23425 del 2011 di questa Sezione dove, a
prospettiva rovesciata, è stato affermato il principio, assolutamente non in
contrasto con i precedenti, secondo il quale il rappresentante legale si deve
considerare mancante, non solo quando manca la nomina, ma anche in presenza
di un prestanome che non abbia alcun potere o ingerenza nella gestione della
società e, quindi, non sia in condizione di presentare la dichiarazione dei redditi
non disponendo dei documenti contabili detenuti dall’amministratore di fatto.
Nel caso di specie, è infatti assente il presupposto (che la Zecchini cioè
fosse prestanome della madre e che non avesse avuto alcun potere o ingerenza
nella gestione della società) dal quale la ricorrente pretende scaturiscano le
conseguenze di favore in punto di insussistenza dell’elemento materiale o
psicologico del reato.

3. Manifestamente infondato è anche il terzo motivo di ricorso.
La Corte territoriale ha infatti negato l’ingresso alla invocata rinnovazione
del dibattimento in appello sul condivisibile presupposto che le emergenze
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deve essere interpretata in termini solidaristici, avendo presenti le norme degli

processuali, ivi comprese le stesse dichiarazioni della Zecchini, deponessero nel
senso di escludere che la ricorrente fosse mero prestanome della madre.
Dovendosi ricordare come, in fatto, sia stata accertata l’ingerenza della
ricorrente negli affari sociali e fondandosi il rigetto dell’istanza di rinnovazione
dell’istruttoria dibattimentale in appello su una struttura argomentativa della
motivazione basata su elementi sufficienti per una compiuta valutazione in
ordine alla responsabilità (Sez. 6, del 16/07/2013, n. 30774, Trecca, Rv.
257741), la logica e congrua motivazione adottata in parte qua dalla Corte del

infondatezza del motivo di ricorso.
Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 136 della Corte
costituzionale e rilevato che non sussistono elementi per ritenere che la parte
abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa
di inammissibilità, alla relativa declaratoria, segue, a norma dell’art. 616 cod.
proc. pen., la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali e
al versamento della somma, ritenuta congrua, di Euro mille alla cassa delle
ammende.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di C 1.000,00 in favore della Cassa delle
Ammende.
Così deciso il 6/02/2014

merito si sottrae al sindacato di legittimità, con la conseguente manifesta

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