Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 15032 del 11/02/2014


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 15032 Anno 2014
Presidente: ZECCA GAETANINO
Relatore: MONTAGNI ANDREA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
ARCA’ GIUSEPPE N. IL 14/02/1961
avverso la sentenza n. 2243/2011 CORTE APPELLO di PALERMO,
del 09/02/2012
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 11/02/2014 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. ANDREA MONTAGNI
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Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. t 1,0_ ,1

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che ha concluso per
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Data Udienza: 11/02/2014

Ritenuto in fatto
1.

La Corte di Appello di Palermo, con sentenza in data 9.02.2012, in

riferimento alla posizione che oggi viene in rilievo, in parziale riforma della sentenza
del G.i.p. presso il Tribunale di Palermo del 4.11.2010, concesse ad Arcà Giuseppe
le attenuanti generiche ritenute equivalenti alla recidiva come contestata, ed
unificati per continuazione nei confronti dell’Arcà i fatti per cui si procede con quelli
giudicati con sentenza del G.i.p. presso il Tribunale di Roma del 14.03.2011,

dell’art. 73 d.P.R. n. 309/1990, di cui al capo E) della rubrica, con la recidiva
reiterata.
La Corte territoriale rilevava che al prevenuto potevano essere concesse le
attenuanti generiche equivalenti alla contestata recidiva; e che la stessa recidiva
non poteva essere esclusa, nonostante la risalenza nel tempo dei precedenti penali,
essendo rimasto dimostrato che Arcà, nel periodo in contestazione, oltre a tale
fatto, aveva commesso altri episodi criminosi del medesimo genere.
2. Avverso la sentenza della Corte di Appello di Palermo ha proposto ricorso
per cassazione Giuseppe Arcà, a mezzo del difensore.
Con il primo motivo, l’esponente denuncia la nullità della sentenza, per
violazione di legge in ordine alla qualificazione della recidiva come reiterata, ex art.
99, comma 4, cod. pen., in luogo di quella semplice ex art. 99, comma 1, cod. pen.
La parte osserva che erroneamente i giudici di merito hanno valutato come
precedente condanna anche la sentenza ex art. 444 cod. proc. pen. resa dal
Tribunale di Roma in data 18.06.2001, nonostante il reato fosse estinto, ai sensi
dell’art. 445, comma 2, cod. proc. pen.
L’esponente osserva che dal casellario giudiziario a carico dell’Arcà risultano
unicamente due sentenze di applicazione della pena, ex art. 444 cod. proc. pen.,
rese dal Tribunale di Roma il 18.06.2001 (irr. Il 2.10.2001) e dal medesimo
Tribunale in data 11.07.2002 (irr. il 4.10.2002); osserva che i fatti oggetto di
quest’ultima sentenza non influivano sulla utile decorrenza del termine di anni
cinque, decorrente dal passaggio in giudicato della sentenza del 18.06.2001,
trattandosi di fatti commessi negli anni 1998/2000 e quindi prima della data di
irrevocabilità della sentenza di applicazione della pena (2.10.2001).
La parte rileva che la contestazione della recidiva reiterata assume profili di
illegalità, atteso che il verificarsi dell’effetto estintivo previsto dall’art. 445, comma
3.,

e^acit 7~411 ,4-4.,

2, cod. proc. pen., non consente di annoverare lygentenza di patteggiamento quale
precedente penale valutabile ai fini della recidiva. Osserva che la contestazione
della recidiva ha comportato il bilanciamento delle attenuanti generiche in rapporto
di equivalenza.

2

rideterminava la pena originariamente inflitta. Al prevenuto si contesta la violazione

Con il secondo motivo la parte denuncia la violazione di legge ed il vizio
motivazionale, laddove la Corte di Appello, nel rigettare la richiesta di esclusione
della recidiva, ha erroneamente argomentato facendo riferimento alle precedenti
sentenze di patteggiamento rese nei confronti dell’Arcà.
L’esponente osserva che i richiamati precedenti penali non sono specifici, né
gravi; e che la stessa Corte di Appello, illogicamente, nel rigettare la richiesta di
esclusione della recidiva, dà atto della risalenza nel tempo degli stessi episodi. La
parte si duole della entità della pena applicata a titolo di continuazione.

Il ricorrente ha presentato motivi nuovi.
Con il primo motivo nuovo la difesa evidenzia che il Tribunale di Roma, in
funzione di giudice dell’esecuzione, in data 29.01.2013, ha dichiarato estinto il
reato di cui alla sentenza del 18.06.2001, con tutti gli effetti penali; osserva che si
tratta di provvedimento successivo sia alla sentenza impugnata, sia rispetto alla
proposizione del ricorso originario. E ribadisce che il provvedimento ha natura
dichiarativa, con efficacia retroattiva, alla data del 4.10.2007. La parte considera
che la Suprema Corte, ai sensi dell’art. 609, comma 2, cod. proc. pen., estende la
propria cognizione alle questioni rilevabili di ufficio, quale quella afferente quale
l’erronea considerazione della sentenza di patteggiamento, ai fini della recidiva.
Con ulteriore motivo il ricorrente deduce il vizio di motivazione, laddove la
Corte di merito non ha escluso la recidiva.
Considerato in diritto
3. Il ricorso in esame muove alle considerazioni che seguono.
3.1 Deve osservarsi che la questione relativa alla erronea contestazione della
recidiva reiterata, affidata al primo motivo di ricorso ed al primo nuovo motivo,
risulta inammissibile, ai sensi dell’art. 606, comma 3, cod. proc. pen., trattandosi di
violazione di legge non dedotta con i motivi di appello.
L’esponente osserva per la prima volta in sede di legittimità che la recidiva
reiterata non poteva essere contestata, in riferimento ad una sentenza di
applicazione della pena ex art. 444 cod. proc. pen., per la quale il verificarsi
dell’effetto estintivo previsto dall’art. 445, comma 2, cod. proc. pen., in assunto
intervenuto sin dal 2006, non consentiva di annoverare la medesima sentenza di
patteggiamento quale precedente penale valutabile ai fini della recidiva.
Ebbene, la questione di diritto ora richiamata non risulta altrimenti dedotta
nell’atto di appello interposto avverso la sentenza del G.i.p. di Palermo in data
4.11.2010, acquisito agli atti. Invero, nell’atto di appello viene posta unicamente la
diversa questione attinente alla richiesta di esclusione della recidiva, basata sul
carattere risalente delle precedenti condanne riportate dall’imputato e sulla scarsa
signìficatività dei relativi titoli di reato. Di converso, nell’atto di gravame non viene
effettuato alcun riferimento alla questione di diritto, oggi all’esame, discendente
3

A

dalla natura della sentenza di patteggiamento resa dal Tribunale di Roma il
18.06.2001 (irr. il 2.10.2001) a carico dell’imputato in relazione all’insorgenza
dell’effetto estintivo di cui all’art. 445, comma 2, cod. proc. pen., stante
l’intervenuta decorrenza del termine di anni cinque dal passaggio in giudicato della
richiamata sentenza del 18.06.2001.
E’ poi appena il caso di osservare che il fatto che l’ordinanza del G.i.p. di
Roma in data 29.01.2013 sia intervenuta successivamente rispetto al deposito del

d’ufficio la questione di diritto dedotta per la prima volta in sede di legittimità.
Invero, la Suprema Corte ha da tempo chiarito che l’effetto estintivo del reato, per
la decorrenza del termine di cui all’art. 445 comma 2, cod. proc. pen., si verifica
ope legis (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 49987 del 24/11/2009, dep. 30/12/2009, Rv.
245968), di talché l’ordinanza resa dal giudice dell’esecuzione ha effetto
meramente dichiarativo.
Deve allora ricordarsi che la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che la
facoltà attribuita alla Corte di cassazione dall’art. 609, comma secondo, cod. proc.
pen., di decidere anche le questioni non dedotte nei motivi di appello la cui
deduci bilità sia divenuta possibile solo successivamente, si riferisce esclusivamente
a questioni di solo diritto che sorgano per “ius superveniens” ovvero in relazione a
circostanze non emerse prima, che però siano pur sempre di diritto (Cass. Sez. 4,
Sentenza n. 4853 del 03/12/2003, dep. 06/02/2004, Rv. 229374). E si è al
riguardo precisato che le questioni di diritto sostanziale possono essere sollevate
per la prima volta davanti alla Corte di Cassazione – così venendo meno la
preclusione per le violazioni di legge non dedotte con i motivi di appello – sempre
che si tratti di deduzioni di pura legittimità o di questioni di puro diritto insorte dopo
il giudizio di secondo grado in forza di “jus superveniens” o di modificazione della
disposizione normativa di riferimento conseguente all’intervento demolitorio o
additivo della Corte costituzionale.
I motivi di ricorso in esame, per quanto detto, devono essere dichiarati
inammissibili.
3.2 Le censure relative alla mancata esclusione della recidiva, affidate ai
restanti motivi di doglianza, sono manifestamente infondate e perciò inammissibili.
Non sfugge che le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno risolto il quesito
interpretativo originato dal testo dell’art. 99 cod. pen., come introdotto dalla legge
n. 251 del 2005, il quale – nella sua emendata formulazione lessicale – prima facie
inclinava suggestivamente l’interprete a ritenere attuato una sorta di ripristino del
regime di obbligatorietà della recidiva come preesistente alla riforma del 1974 (d.l.
11.4.1974, n. 99, convertito dalla legge 7.6.1974, n. 220). Ed invero, si è al
riguardo stabilito che “È dunque compito del giudice, quando la contestazione
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ricorso che occupa non consente di ritenere sussistenti le condizioni per rilevare

concerna una delle ipotesi contemplate dai primi quattro commi dell’art. 99 c.p. e
quindi anche nei casi di recidiva reiterata (rimane esclusa, come premesso, l’ipotesi
“obbligatoria” del quinto comma), quello di verificare in concreto se la reiterazione
dell’illecito sia effettivo sintomo di riprovevolezza e pericolosità, tenendo conto,
secondo quanto precisato dalla indicata giurisprudenza costituzionale e di
legittimità, della natura dei reati, del tipo di devianza di cui sono il segno, della
qualità dei comportamenti, del margine di offensività delle condotte, della distanza

della ricaduta e di ogni altro possibile parametro individualizzante significativo della
personalità del reo e del grado di colpevolezza, al di là del mero ed indifferenziato
riscontro formale dell’esistenza di precedenti penali” (Cass. Sez. U, Sentenza n.

35738 del 27/05/2010, dep. 05/10/2010, Rv. 247839). E si è quindi considerato
che all’esito della predetta verifica

“al giudice è consentito negare la rilevanza

aggravatrice della recidiva ed escludere la circostanza, non irrogando il relativo
aumento della sanzione: la recidiva opera infatti nell’ordinamento quale circostanza
aggravante (inerente alla persona del colpevole: art. 70 c.p.), che come tale deve
essere obbligatoriamente contestata dal pubblico ministero in ossequio al principio
del contraddittorio (Sez. Un., sentenza 27.5.1961, P.M. in proc. Papò, rv 98479;
Sez. Un., 23.1.1971, Piano) ma di cui è facoltativa (tranne l’eccezione espressa)
l’applicazione, secondo l’unica interpretazione compatibile con i principi
costituzionali in materia di pena” (Cass. Sez. U, Sentenza n. 35738 del 27/05/2010,

cit.).
Orbene, tanto rilevato, deve osservarsi che la valutazione discrezionale
effettuata nel caso concreto dalla Corte di Appello, in ordine alla insussistenza delle
condizioni idonee ad escludere la contestata recidiva, non risulta censurabile in
questa sede di legittimità. Al riguardo, il Collegio ha sviluppato un conferente
percorso logico argomentativo, che risulta immune da censure rilevabili in sede di
legittimità. Nella sentenza impugnata, infatti, si osserva che la recidiva non può
essere esclusa, nonostante la risalenza nel tempo dei precedenti penali; e ciò in
quanto gli episodi criminosi posti in essere da Arcà, nel periodo in contestazione,
colorano di particolare intensità la ricaduta nel crimine.
4. Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso segue la condanna del
ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di C 1.000,00 in
favore della Cassa delle Ammende.

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temporale e del livello di omogeneità esistente fra loro, dell’eventuale occasionalità

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali e della somma di € 1.000,00 in favore della cassa delle ammende.

Così deciso in Roma in data 11 febbraio 2014.

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