Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 14857 del 26/03/2014


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Penale Sent. Sez. 6 Num. 14857 Anno 2014
Presidente: MILO NICOLA
Relatore: LEO GUGLIELMO

SENTENZA

sul ricorso proposto nell’interesse di
Pahoncea Cornelia, nata a Iasi (Romania) il 27/02/1971

avverso la sentenza della Corte di appello di Catania n. 23 del 22/01/2014

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Guglielmo Leo;
udito il Procuratore generale, in persona del sostituto dott. Alfredo Pompeo Viola,
che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito il Difensore della Pahoncea, avv. Enrico Platania, che ha concluso per
l’accoglimento del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. È impugnata la sentenza del 22/01/2014 con la quale la Corte d’appello di
Catania – in riferimento alla procedura concernente il m.a.e. emesso dall’Autorità
giudiziaria della Repubblica di Romania, il 19/06/2012, a fini di esecuzione d’una
pena definitivamente inflitta – ha rifiutato la consegna di Cornelia Pahoncea,
revocando la misura cautelare in corso di esecuzione, ed ha disposto che
vengano eseguite in Italia le pene della reclusione per anni dieci e della

Data Udienza: 26/03/2014

interdizione per anni tre, inflitte all’interessata con sentenze del Tribunale di
Vrancea del 12/12/2011 e del 7/05/2012.
La Corte territoriale, verificata l’esistenza e la trasmissione dei provvedimenti
definitivi di condanna, ha disatteso la richiesta difensiva mirata ad ottenere un
rifiuto di consegna a norma dell’art. 18, lettera g), della legge n. 69 del 2005, sul
presupposto che nel corso dei relativi giudizi non sarebbero state assicurate
all’interessata le garanzie di un equo processo. Si è osservato come risulti essere
stata prestata, nell’ambito di un giudizio sostanzialmente equivalente al modello

condanna avrebbe potuto essere sottoposta ad un giudizio di appello, non tenuto
in mancanza di impugnazione.
A proposito della natura contumaciale dei giudizi, la Corte d’appello ha
respinto anche la tesi difensiva d’un rifiuto di consegna a norma dell’art. 19,
lettera a), della citata legge n. 69. Nel mandato in questione è specificato come il
codice di procedura penale romeno preveda, all’art. 522, comma 1, la possibilità
di un ripetizione del procedimento nei casi di procedura estradizionale attiva
concernente condannati in absentia.
Nondimeno, alla luce del reiterato rifiuto da parte dell’interessata di consentire
alla consegna, e ritenuta la sussistenza delle condizioni di «radicamento» nel
territorio dello Stato cui si riferisce la lettera r) dell’art. 18 della legge n. 69,
nella estensione derivante dalla sentenza della Corte costituzionale n. 227 del
2010, la Corte territoriale ha ugualmente negato la consegna, disponendo
appunto che la pena inflitta alla Pahoncea venga eseguita in Italia.

2. Con il proprio ricorso, il Difensore della Pahoncea deduce quattro distinte
violazioni della legge che regola la procedura m.a.e.
2.1. Mancherebbero anzitutto, nel caso di specie, le indicazioni richieste alle
lettere c), d) ed e) dell’art. 6 della legge n. 69 del 2005.
La consegna sarebbe stata richiesta solo per un reato di evasione fiscale,
mentre la condanna alla pena detentiva di dieci anni è stata inflitta con altra
sentenza, e per un reato di truffa. La circostanza avrebbe comportato una
specifica violazione del diritto di difesa dell’interessata, nell’ambito della
procedura condotta dalla Corte territoriale, posto che il provvedimento
restrittivo, stando alla relativa enunciazione, risultava emesso per un
comportamento privo di rilevanza penale in Italia.
2.2. In relazione al motivo appena citato, si assume che mancherebbe nella
specie il requisito dì doppia punibilità del fatto di rilevanza tributaria, come
previsto dal comma 2 dell’art. 7 della legge n. 69, posto che l’ordinamento
italiano non conoscerebbe una «fattispecie penale [di] mera evasione fiscale».

2

contumaciale italiano, la necessaria assistenza tecnica, e come la decisione di

2.3. La Corte territoriale avrebbe violato l’art. 18, lettera g), della legge n. 69,
ordinando l’esecuzione della pena in Italia in un caso nel quale non risultano
assicurate, nel relativo processo, le garanzie prescritte dall’art. 6 della
Convenzione edu.
La Pahoncea sarebbe stata processata a sua insaputa, quando già aveva
lasciato il territorio romeno, senza che le fosse assicurata la possibilità di
partecipare. La Corte territoriale avrebbe dovuto accogliere la richiesta difensiva,
invece respinta, di acquisire copia delle ricerche svolte dall’Autorità romena.

strutturalmente inidonea a garantire il diritto di difesa, almeno riguardo al
contumace.
2.4. La possibilità di una ripetizione del processo a norma dell’art. 522 del
codice di procedura penale romeno non escluderebbe, in caso di consegna, la
violazione dell’art. 19, lettera a), della legge n. 69, poiché al giudicato in
contumacia spetterebbe il diritto di assistere libero al processo che lo riguarda.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è ammissibile, ma infondato.

2. In punto di ammissibilità, va notato come sussista l’interesse della Pahoncea
all’impugnazione, sebbene la richiesta di consegna della Repubblica di Romania
sia stata respinta.
Il rifiuto, in effetti, non è avvenuto in rapporto a cause, come quelle indicate
nel ricorso, il cui riconoscimento avrebbe implicato l’immediato esaurimento della
procedura. Il rifiuto, piuttosto, è intervenuto per una ragione in rapporto alla
quale il giudice della procedura intanto rifiuta la consegna in quanto dispone
l’esecuzione in Italia della pena inflitta dall’Autorità richiedente (quella cioè
descritta alla lettera r dell’art. 18 della legge n. 69/2005).
La ricorrente non ha inteso dolersi direttamente della disposizione impartita in
tal senso dalla Corte territoriale. Del resto, una istanza almeno implicita per
l’applicazione dell’art. 18, lettera

avrebbe potuto ben desumersi dalla

r),

produzione di abbondante materiale documentale, utile a dimostrare il
“radicamento” dell’interessata nel territorio nazionale, ed oltretutto efficace,
visto che detto radicamento è stato riconosciuto, con conseguente rifiuto della
consegna.
Tuttavia, e per quanto l’argomento risulti appena accennato nei motivi a
sostegno del ricorso (ed in particolare nelle righe conclusive), la Difesa della

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9,2___

Quanto alla difesa d’ufficio, il ricorrente sembra sostenere che la stessa sia

Pahoncea si duole del rigetto di argomenti il cui accoglimento avrebbe
comportato, in effetti, conseguenze più favorevoli per l’interessata.
Ricostruito in tal senso l’oggetto dell’impugnazione, si identifica l’interesse che
la sostiene, e si conclude dunque per la sua ammissibilità.

3. È infondata la prima delle doglianze proposte con il ricorso.
3.1. Il modulo compilato dalle Autorità romene per l’inserimento nella banche
dati, che costituisce il titolo per l’adozione dei provvedimenti restrittivi funzionali

informazioni.
Come si è visto nel Ritenuto in fatto (§ 1), la Pahoncea è stata condannata
nell’ambito di due distinti procedimenti, per reati diversi. Con una prima
sentenza, del 2011, l’interessata è stata dichiarata colpevole del reato di truffa, e
condannata alla pena principale di dieci anni di reclusione. Con una seconda
decisione, del 2012, è intervenuta condanna per fatti di “evasione fiscale”, con
pena principale pari a tre anni e sei mesi di reclusione.
Il modulo in questione reca la citazione del provvedimento più recente, ma
promuove l’esecuzione di una pena di dieci anni, ch(equivale a quella inflitta con
la prima sentenza.
Non si tratta di un errore. Come infatti chiarito nella relazione
tempestivamente inviata dall’Autorità romena, il reato di evasione fiscale è stato
ritenuto concorrente con quello di truffa a norma dell’art. 33, lettera a), di quel
codice penale, con la conseguenza che complessivamente eseguibile, a norma
dell’art. 34, lettera b), è risultata essere la pena più alta tra quelle irrogate. Di
qui la citazione della seconda sentenza e, al tempo stesso, l’indicazione della
pena inflitta con la prima.
3.2. Ammesso che la sintesi e la parzialità delle informazioni offerte con il
provvedimento introduttivo della procedura comportassero una carenza delle
indicazioni richieste dall’art. 6, comma 1, della legge n. 69 del 2005, la
conseguenza non potrebbe che essere quella indicata al comma 2 dello stesso
art. 6, e cioè una richiesta di integrazione a norma del successivo art. 16.
Integrazione che, nella specie, è stata attuata con l’invio dei documenti che la
Corte territoriale ha ricevuto ben prima dell’udienza per la decisione, e che è
stata messa a disposizione delle parti: si tratta di una relazione che illustra i fatti
e spiega la relazione tra le due sentenze, nonché della traduzione dei
provvedimenti di condanna.
Dunque, nell’ambito dell’udienza camerale, la Difesa della ricorrente ha avuto
modo di sviluppare le proprie difese, come puntualmente ha fatto, in base a

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allo sviluppo della procedura, è in effetti sintetico e carente di alcune

documentazione che avrebbe potuto e dovuto essere acquisita addirittura nel
corso della stessa udienza, se non previamente pervenuta.

4. È infondato, se non inammissibile, il secondo motivo di ricorso,
sostanzialmente incentrato sull’assunto che il fatto di rilievo tributario ascritto
alla Pahoncea con la sentenza del 2012 non sarebbe considerato reato dalla
legislazione italiana.
Va notato anzitutto che la previsione di cui al comma 2 dell’art. 7 della legge

doppia punibilità, posta in linea generale dal precedente comma 1. Ed infatti,
proprio con riguardo ad una fattispecie concernente un mandato di arresto per
l’esecuzione di sentenze romene in materia di “evasione” fiscale, questa Corte ha
già avuto modo di rilevare: «sussiste la condizione per l’esecuzione della
consegna prevista dall’ad. 7, comma secondo […] trattandosi di ipotesi
riconducibile alle previsioni di cui agli artt. 2, 3, 4 e 5 del d.lgs. 10 marzo 2000,
n. 74». In motivazione, si è precisato come, vedendosi in materia di tasse ed
imposte, la Corte d’appello non sia tenuta a verificare la sussistenza della doppia
incriminabilità, ma debba appunto e soltanto riscontrare la presenza dei
presupposti indicati nell’ad. 7, comma secondo, cioè l’assimilabilità per analogia
tra tasse e imposte previste nel nostro ordinamento e nel Paese richiedente, e la
sussistenza del limite di pena stabilito per il reato in Italia (ove è punita la
condotta di dichiarazione omessa od infedele cui i fatti ascritti alla Pahoncea
sono stati storicamente prodromici).
Non è necessario comunque approfondire l’argomento, poiché – come si nota
dalla Corte territoriale – la pena inflitta per i reato tributario è stata «assorbita»
da quella inflitta per il delitto di truffa, che dovrebbe essere concretamente
eseguita nello Stato richiedente.
A proposito di tale ultimo delitto, il rilievo difensivo (sviluppato solo in sede di
discussione) secondo cui la ricorrente avrebbe semplicemente emesso degli
assegni a vuoto è smentito dalla sentenza pronunciata in Romania, ove si
chiarisce che la Pahoncea aveva sfruttato la buona sua reputazione commerciale
ed aveva carpito la fiducia dei fornitori, di fronte ad una abnorme acquisizione di
merci pagate con assegni poi risultati privi di copertura, riferendosi a non meglio
precisati contratti stipulati con istituzioni pubbliche: con un piano preordinato, e
culminato con la sua fuga, ella aveva indotto in errore i suoi partner commerciali,
ben sapendo di non avere provvista sui conti bancari né possibilità di onorare
titoli di credito d’altro genere.

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es1–

n. 69, invocata dal ricorrente, introduce in realtà un limite alla condizione della

5. Proprio in ragione della sua fuga, probabilmente, la Pahoncea è stata
giudicata in contumacia. L’esistenza in sé del giudizio contumaciale, ben noto
all’ordinamento italiano, non implica un contrasto con i principi sanciti dall’art. 6
della Convenzione edu, e l’assenza delle garanzie nello stesso previste, posto che
l’ordinamento romeno prevede un vero e proprio meccanismo di «purgazione»,
consistente nella ripetizione del processo a richiesta del condannato (Sez. 6,
Sentenza n. 25303 del 21/06/2012, rv. 252724).
È ovvio, ancora, che la difesa d’ufficio è sufficiente ad assicurare la

inequivocabilmente, infine, che un appello avrebbe potuto far seguito al giudizio
di primo grado, e che ciò non è avvenuto in quanto nessuna impugnazione è
stata presentata.
Per un verso, ed insomma, & ricorrente prospetta una incompatibilità in
astratto tra modello del processo «equo» e modulo procedimentale attivato nella
specie, incompatibilità che non sussiste.
Per altro verso, e soprattutto nel giudizio condotto dalla Corte catanese, viene
agitato il tema di possibili violazioni in concreto dei diritti garantiti dalla
Convenzione europea (ricerche insufficienti, notifiche nulle, ecc.). La procedura
m.a.e. non può essere trasformata in una sorta di giudizio impugnatorio con
riguardo alla validità della sentenza di cui sia stato certificato il passaggio in
giudicato. In particolare, la chiave per l’apertura di una prospettiva siffatta, che
contrasta coi principi generali e con la stessa logica di incremento della fiducia
tra ordinamenti che segna la direttiva posta all’origine della disciplina, non può
essere rappresentata dalla lettera g) dell’art. 18 della legge n. 69, che non a
caso conferisce rilievo a violazioni risultanti dagli atti.
A maggior ragione, ed ovviamente, il rilievo vale in un caso – come quello di
specie – in cui la Difesa dell’interessato si limita a prospettare eventualità
astratte, senza alcuna allegazione di segnali concreti a proposito di violazioni di
diritti fondamentali della persona. Senza dire che, rispetto alla specifica
violazione genericamente prospettata, opera il rimedio specifico, e non
subordinato alla verifica di irregolarità del primo giudizio, della reiterazione del
procedimento in presenza dell’interessato.
Anche il terzo motivo dunque, se non inammissibile, risulta infondato.

6. Analoga conclusione vale per l’ultimo tra i motivi posti a sostegno del ricorso.
Il secondo giudizio sul medesimo fatto, da celebrare nonostante la
sopravvenuta irrevocabilità della sentenza, a tutela del diritto di partecipazione
personale dell’interessato, costituisce una garanzia che prescinde dallo

status

libertatis dell’interessato. Il diritto alla «purgazione», nella prospettiva della
6

(9–

necessaria assistenza tecnica alla persona accusata di un reato. Risulta

Convenzione edu, non equivale al diritto di rimanere liberi in attesa della relativa
sentenza. Se così fosse, nessuna consegna andrebbe mai effettuata a fronte di
sentenze contumaciali. Regola della quale non si scorgono gli ancoraggi positivi,
né si vede una “necessità” in chiave di tutela costituzionale o convenzionale.

7. Il rigetto del ricorso comporta la condanna della ricorrente al pagamento delle
spese processuali.
La Cancelleria provvederà alle comunicazioni di cui al comma 5 dell’art. 22

P.Q.M.

Rigetta

il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese

processuali.
Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 22, comma 5, della
legge n. 69 del 2005.
Così deciso il 26/03/2014.

della legge n. 69/2005.

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