Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 14852 del 26/02/2014


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Penale Sent. Sez. 6 Num. 14852 Anno 2014
Presidente: MILO NICOLA
Relatore: APRILE ERCOLE

SENTENZA

sul ricorso presentato da
Borgna Cinzia, nata a Savona il 03/09/1972

avverso l’ordinanza del 14/11/2013 del Tribunale di Genova;

visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Ercole Aprile;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Gabriele
Mazzotta, che ha concluso chiedendo l’annullamento con rinvio dell’ordinanza
impugnata.

RITENUTO IN FATTO
E CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Con l’ordinanza sopra indicata il Tribunale di Genova, adito dalla indagata ai
sensi dell’art. 310 cod. proc. pen., confermava il provvedimento del 17/10/2013
con il quale il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Savona aveva
rigettato la richiesta di revoca della misura cautelare avanzata dalla difesa e, in
parziale accoglimento della istanza difensiva, aveva disposto nei riguardi di

Data Udienza: 26/02/2014

Cinzia Borgna la sostituzione della misura degli arresti domiciliari,
originariamente applicatale, con quella meno grave dell’obbligo di dimora nel
comune di residenza di Boissano.
Rilevava il Tribunale come le emergenze del procedimento – oramai transitato
alla fase del giudizio, nel quale la Borgna era stata chiamata a rispondere, tra
l’altro, del reato di cui all’art. 314 cod. pen., per essersi appropriata di ingenti
somme di denaro di cui aveva la disponibilità nelle veste di tutore o di
amministratore di sostegno di due anziane – avessero confermato la permanenza

274 cod. proc. pen., fronteggiabili solo con l’applicazione della misura
dell’obbligo di dimora e non anche con altre meno rigorose, che avrebbero
lasciato alla prevenuta eccessiva libertà di movimento.

2. Avverso tale ordinanza ha presentato ricorso la Borgna, con atto sottoscritto
dal suo difensore avv. Andrea Vernazza, la quale, formalmente con un unico
motivo, ha dedotto la violazione di legge, in relazione all’art. 274 cod. proc. pen.,
e la illogicità della motivazione, per non avere il Tribunale considerato, per un
verso, la totale assenza di elementi da cui poter desumere il concreto pericolo
che l’imputata possa inquinare le prove in vista dell’imminente istruttoria
dibattimentale; e, per altro verso, che la Borgna ha oramai dismesso tutto gli
incarichi precedentemente a lei affidati dall’autorità giudiziaria, è stata sospesa
dall’attività di avvocato e tutti i clienti del suo studio le hanno revocato il
mandato difensivo: dati, questi, dai quali è possibile evincere l’assenza di
qualsivoglia esigenza di cautela, ovvero una loro attenuazione tanto da
consentire alla predetta di beneficiare di una misura meno gravosa di quella
dell’obbligo di dimora.

3. Ritiene la Corte che il ricorso sia inammissibile.

3.1. Con riferimento al pericolo di recidiva di cui all’art. 274, comma 1, lett. c),
cod. proc. pen., la doglianza formulata dalla ricorrente in termini di violazione
della relativa disposizione di legge – nella quale deve sostanzialmente reputarsi
assorbito il censurato vizio di motivazione – è stata avanzata per fare valere per
ragioni diverse da quelle consentite dalla legge.
Lungi dall’evidenziare manifeste lacune o incongruenze capaci di disarticolare
l’intero ragionamento probatorio adottato dai giudici di merito, la ricorrente ha
formulato censure che riguardano sostanzialmente la ricostruzione dei fatti
ovvero che si risolvono in una diversa valutazione delle circostanze già valutate
dal Tribunale del riesame: censure, come tali, non esaminabili dalla Cassazione.
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delle due, già riconosciute, esigenze di cautela previste dalle lett. a) e c) dell’art.

Ed infatti, è pacifico come il controllo dei provvedimenti di applicazione della
misure limitative della libertà personale sia diretto a verificare la congruenza e la
coordinazione logica dell’apparato argomentativo che collega gli indizi di
colpevolezza al giudizio di probabile colpevolezza dell’indagato, nonché il valore
sintomatico degli indizi medesimi anche in relazione alla sussistenza di esigenze
cautelari e alla scelta di una misura adeguata alle medesime esigenze e
proporzionata ai fatti. Controllo che non può comportare un coinvolgimento del
giudizio ricostruttivo del fatto e gli apprezzamenti del giudice di merito in ordine

materiale probatorio, quando la motivazione sia adeguata, coerente ed esente da
errori logici e giuridici.
Questa Corte ha, dunque, il compito di verificare se il giudice di merito abbia
dato adeguatamente conto delle ragioni che l’hanno indotto ad affermare la
gravità del quadro indiziario e la esistenza di bisogni di cautela a carico
dell’indagato, controllando la congruenza della motivazione riguardante la
valutazione degli elementi indizianti rispetto ai canoni della logica e ai principi di
diritto che governano l’apprezzamento delle risultanze probatorie, nella peculiare
prospettiva dei procedimenti incidentali de libertate (si veda, ex multis, Sez. U,
n. 11 del 22/03/2000, Audino, Rv. 215828).
Alla luce di tali regulae iuris, bisogna riconoscere come i giudici di merito
abbiano dato puntuale e logica contezza degli elementi sui quali si fonda il
provvedimento cautelare. Dati informativi dai quali, in termini esaurientemente
congrui e logicamente ineccepibili, il Tribunale ha, da un lato, desunto la
sussistenza di un concreto pericolo connesso al rischio di recidivanza,
sottolineando come la spiccata propensione a delinquere dell’indagata fosse
agevolmente desumibile dal fatto che la stessa, che aveva lucrato un ingente
profitto appropriandosi di ben 755.000 euro in danno di due anziane donne
(persone in posizioni di fragilità e di debolezza, che ella aveva avuto l’incarico di
tutelare e proteggere), aveva mostrato un’elevatissima intensità di dolo ed una
proclività al delitto; da altro lato, come la misura dell’obbligo di dimora nel
comune di residenza, applicata in luogo di quella degli arresti domiciliari, fosse
proporzionata alla gravità obiettiva del fatto e adeguata rispetto a quella
esigenza di cautela, dato che altre misure ancora meno rigorose avrebbero
lasciato alla Borgna una ingiustificata ampia libertà di movimento e di contatto
con i terzi; laddove eventuali esigenze difensive, legate alla necessità di recarsi
presso il proprio studio professionale, sarebbe state eventualmente fronteggiabili
con specifiche autorizzazioni ad allontanarsi temporaneamente dal luogo di
residenza (v. pagg. 1-2 ord. impugn.).

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Vi

all’attendibilità delle fonti ed alla rilevanza e concludenza dei risultati del

3.2. Quanto all’altro bisogno di cautela, quello del pericolo di inquinamento
probatorio, in ordine alla cui esistenza è stata giustificata la decisione gravata,
bisogna prendere atto come, in effetti, la motivazione dell’ordinanza impugnata
presenti una palese lacuna argomentativa posto che “la necessità della tutela
della prova in prospettiva del prossimo giudizio” è stata affermata in termini
apodittici, senza alcun riferimento a circostanze specifiche che permettano di
dare concretezza all’indicato pericolo.
Tuttavia, rispetto a questo motivo il ricorso della Borgna appare inammissibile

questa Corte il principio secondo il quale nel sistema processuale penale la
nozione di interesse ad impugnare non può essere basata sul mero concetto di
soccombenza – a differenza delle impugnazioni civili che presuppongono un
processo di tipo contenzioso, quindi una lite intesa come conflitto di interessi
contrapposti – ma va piuttosto individuata in una prospettiva utilitaristica, ossia
nella finalità negativa, perseguita dal soggetto legittimato, di rimuovere una
situazione di svantaggio processuale derivante da una decisione giudiziale, e in
quella, positiva, del conseguimento di un’utilità, ossia di una decisione più
vantaggiosa rispetto a quella oggetto del gravame, e che risulti logicamente
coerente con il sistema normativo (così, di recente, Sez. U, n. 6624 del
27/10/2011, Marinaj, Rv. 251693). Dunque, l’interesse richiesto dall’art. 568,
comma 4, cod. proc. pen., quale condizione di ammissibilità di qualsiasi
impugnazione, deve essere correlato agli effetti primari e diretti del
provvedimento da impugnare e sussiste soltanto se il gravame sia idoneo a
costituire, attraverso l’eliminazione di un provvedimento pregiudizievole, una
situazione immediata più vantaggiosa per l’impugnante rispetto a quella
esistente (Sez. U, n. 42 del 13/12/1995, Rv. 203093; Sez. U, n. 10372 del
27/09/1995, Rv. 202269; Sez. U, n. 6563 del 16/03/1994, Rv. 197535).
Ed allora, non vi è chi non veda come l’odierna ricorrente non abbia un
concreto ed attuale interesse a mettere in discussione la motivazione
dell’ordinanza gravata nella parte relativa all’affermazione della sussistenza della
seconda delle richiamate esigenze di cautela, perché se, in effetti, l’apparato
argomentativo del provvedimento appare alquanto carente, mancando della
indicazione di precisi elementi concreti dai quali desumere l’attuale esistenza di
un pericolo per l’acquisizione e la genuinità della prova, l’effetto rescindente su
tale punto non comporterebbe, comunque, il venir meno della misura cautelare
applicata, essendo stata riconosciuta la sussistenza dell’altro bisogno di cautela
connesso al rischio di recidiva.
Tale soluzione è conforme all’indirizzo esegetico privilegiato dalla
giurisprudenza di legittimità, per il quale, in materia di misure cautelari
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V\

per carenza di interesse. Costituisce, infatti, ius receptum nella giurisprudenza di

personali, quando il giudice ha fondato la misura su più di una delle esigenze
previste dall’art. 274 cod. proc. pen., poiché ciascuna di esse ha rilievo
autonomo ed anche alternativo, sono sforniti di interesse quei motivi di gravame
che investono una delle esigenze cautelari nell’accertata sussistenza di un’altra.
Infatti, in tale situazione, l’eventuale apprezzamento favorevole della doglianza
su una delle esigenze non condurrebbe ad un effetto liberatorio a causa della
permanenza dell’altra (così, tra le tante, Sez. 6, n. 7200 del 08/02/2013, Koci,
Rv. 254506; Sez. 1, n. 480 del 28/01/1998, Cantarini, Rv. 211117; Sez. 6, n.

4. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue, a norma dell’art.
616 cod. proc. pen., la condanna della ricorrente al pagamento in favore
dell’erario delle spese del presente procedimento ed al pagamento in favore della
cassa delle ammende di una somma, che si stima equo fissare nell’importo
indicato nel dispositivo che segue.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di euro 1.000,00 in favore della cassa delle
ammende.
Così deciso il 26/02/2014

3091 del 25/08/1992, Ligresti, Rv. 191776).

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