Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 1430 del 10/12/2013


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 1430 Anno 2014
Presidente: ESPOSITO ANTONIO
Relatore: DI MARZIO FABRIZIO

SENTENZA
Sul ricorso proposto da Siano Uldarico, nato il 24.4.1945 avverso la ordinanza
del Tribunale della libertà di Salerno del 22.6.2013. Sentita la relazione della
causa fatta dal consigliere Fabrizio Di Marzio; udita la requisitoria del sostituto
procuratore generale Giovanni D’Angelo, il quale ha concluso chiedendo che il
ricorso sia rigettato; uditi i difensori dell’indagato, avv.ti Giovanni Aricò e
Michele Tedesco, i quali insistono per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con l’ordinanza in epigrafe il Tribunale di Salerno, sezione riesame, decidendo
sulla richiesta di riesame presentata da Siano Udalrico avverso l’ordinanza
applicativa della misura cautelare degli arresti domiciliari emessa dal gip del
medesimo tribunale in data 21 maggio 2013 nei confronti dello stesso, ha
confermato il provvedimento impugnato.
L’indagato, a mezzo dei suoi difensori, presenta le seguenti doglianze.
Innanzitutto, si contesta violazione di legge in relazione agli articoli 393, 56 e
629 cod. pen. 7 legge 203 del 1991 nonché vizio di motivazione con riguardo
alla sussistenza, ritenuta dal tribunale, di una fattispecie di tentata estorsione

Data Udienza: 10/12/2013

piuttosto che di ragion fattasi. Si rileva che dalle condotte emerse nel
processo non risultano elementi di fattispecie idonei all’inquadramento dei
fatti in un quadro estorsivo giacché l’odierno indagato vantava un credito
avente origine in una fornitura commerciale mai pagata dalla persona offesa;
giacché lo stesso indagato e i coindagati Loreto Alfonso e Ridosso Salvatore
avevano avviato con la parte offesa una semplice trattativa per il recupero
crediti non connotata da nessuna valenza estorsiva ma, al limite, rilevante ai

che gli indagati o alcuno di essi abbiano tenuto condotte rilevanti ai fini della
integrazione della menzionata aggravante (per aver agito con metodo mafioso
o per aver agevolato una consorteria di stampo mafioso) non essendo
pacificamente a ciò sufficientené che uno degli indagati sia figlio di Loreto
Pasquale, elemento di spicco di associazioni camorristiche negli anni Ottanta
del secolo passato e poi collaboratore di giustizia, né il riferimento alla
supposta cosca degli “Scafatesi” (riferimento fatto dagli indagati alla persona
offesa e relativo a una realtà di cosca mai effettivamente appurata come
esistente); giacché questa corte, con l’ordinanza n. 22907 del 10 aprile 2013
aveva assunto una decisione di inammissibilità del ricorso del PM tendente ad
ottenere una qualificazione del fatto in termini di estorsione aggravata nel
caso di un recupero crediti nei confronti di un commerciante ambulante: ossia
in un episodio connotato da modalità praticamente identiche a quelle oggi in
esame; giacché la persona offesa non fu minimamente indotta dalle supposte
minacce all’adempimento: con ciò dimostrando di non aver subito nessun
intimorimento; e giacché i familiari della stessa indirizzarono due telefonate
minacciose all’odierno indagato, a riprova che nessun timore era stato loro
indotto dalle richieste qualificate dal gip e dal tribunale come estorsive;
giacché in nessun modo risulterebbe perpetrata alla persona offesa una
violenza o una minaccia di tale gravità da attingere alla qualificazione
estorsiva piuttosto che alla figura di minor gravità dell’esercizio arbitrario delle
proprie ragioni.
Un ulteriore motivo è dedicato all’approfondimento della qualificazione dei
fatti in termini di tentativo compiuto. Rileva infatti il ricorrente che il giorno in
cui fu effettuata la minaccia alla persona offesa l’indagato era ben
consapevole che non avrebbe ottenuto alcun adempimento dell’obbligazione,
che infatti non si verificò; ciononostante tutti gli indagatidesistettero
dall’azione non cercando in alcun modo di indurre, ulteriormente, la persona
offesa all’adempimento. Pertanto, si argomenta, non avrebbe dovuto ritenersi

sensi dell’art. 393 cod. pen.; giacché in nessun modo sarebbe emerso agli atti

integrata una vera e propria fattispecie tentata, non essendo stati posti in
essere dagli indagati fatti idonei all’evento; inoltre avrebbe dovuto comunque
ritenersi integrata una desistenza dall’azione, non avendo gli indagati
ulteriormente tentato di ottenere l’adempimento.
Si lamenta inoltre violazione di legge e vizio di motivazione per la ritenuta
sussistenza delle ragioni cautelari, del suo dell’applicazione di una misura non
detentiva.

dettagliata, alternative ricostruzioni del fatto; si argomentano diffusamente
alternative interpretazioni del materiale probatorio acquisito in atti; si
prospettano dunque conclusioni nel merito diametralmente opposte a quelle
fatte proprie nell’ordinanza impugnata.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è infondato.
Quanto al primo motivo, deve rammentarsi il consolidato orientamento di
questa Corte di legittimità, correttamente applicato dal Tribunale, secondo cui
non è ravvisabile il delitto di “ragion fattasi”, ma quelli più gravi di rapina o di
estorsione, ogni qualvolta la pretesa – nascendo da fatto illecito e non potendo
comunque assumere la consistenza di un diritto – sia

contra ius. In un

afattispecie recentemente decisa, relativa agli atti intimidatori posti in essere
dal ricorrente, per esigere un credito derivante dalla fornitura di gasolio non
pagato, secondo i giudici di legittimità, la minaccia si era estrinsecata in forme
di tale forza intimidatoria da andare al di là di ogni ragionevole intento di far
valere un proprio diritto, avendo la coartazione dell’altrui volontà assunto ex
se i caratteri dell’ingiustizia, di conseguenza, anche la minaccia tesa a far
valere quel diritto si trasforma in una condotta estorsiva (Cass. Sez. IL
5.6.2013, n. 27328).Lo stesso deve dirsi con riferimento al caso in esame, in
cui il recupero crediti è stato tentato non soltanto rivolgendo gravi minacce
alla persona offesa, ma per di più -come si dice appresso – avvalendosi del
metodo mafioso: così integrandosi la circostanza aggravante prevista dall’art.
7 D.L. 13 maggio 1991 n. 152, convertito in legge 12 luglio 1991 n. 203 (aver
commesso il fatto avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis cod.
pen. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo
stesso articolo).
Cosicché deve ritenersi integrato il dolo di estorsione piuttosto che di ragion
fattasi.
Sempre secondo la giurisprudenza di questa Corte, ai fini della configurabilità,

Nello svolgere le sintetizzate argomentazioni si effettuano, in misura

nella condotta criminosa, dell’aggravante del metodo mafioso, non è
sufficiente il mero collegamento con contesti di criminalità organizzata o la
“caratura mafiosa” degli autori del fatto occorrendo, invece, l’effettivo utilizzo
del metodo mafioso e, cioè l’impiego della forza di intimidazione derivante dal
vincolo associativo. In applicazione del principio, questa Corte ha escluso che
ricorresse l’aggravante per il solo fatto che l’indagato era sottoposto a
procedimento penale per il delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen. e perché

II, 14.6.2013, n. 28861).Nel caso di specie, tuttavia, oltre al citato
collegamento con contesti di criminalità organizzata con riguardo all’indagato
Loreto, nella ordinanza impugnata da pagina 12 a pagina 14 è compiutamente
motivata una complessa modalità dell’azione del tutto riconducibile all’agire
degli appartenenti ad associazioni di stampo mafioso. Infatti, gli indagati
Loreto e Ridosso agirono nel tentativo di recuperare non un proprio credito,
ma un credito altrui: perciò, quali esattori. Inoltre, nell’apparecchiare le
minacce rivolte alla persona offesa, si qualificarono come appartenenti ad una
consorteria di stampo mafioso, individuata nel clan degli Scatafesi,
affermandone l’importanza anche rispetto al noto clan Mazzarella. In tal
modo, tentarono di porre in essere una giustizia alternativa a quella statale,
sulla base di condotte minacciose e violente e avvalendosi della propria
appartenenza, dichiarata alla vittima del reato, ad una consorteria di stampo
mafioso-e più precisamente camorristico-onde coartarne la volontà.
Su queste basi fattuali, ampiamente ricostruite nel provvedimento impugnato,
del tutto logicamente i giudici del merito hanno concluso sulla integrazione,
nel caso, della contestata aggravante dell’aver agito avvalendosi del metodo
mafioso. Invece, nessun rilievo può assumere la reazione della vittima:
giacché che quest’ultima soggiaccia o meno alla richiesta estorsiva risulta
ovviamente irrilevante ai fini della integrazione della fattispecie criminosa:
essendo necessario ma anche sufficiente alla integrazione della stessa
l’oggettività della condotta come minacciosa e violenta e, nel caso in esame,
aggravata dal metodo mafioso.
Deve poi osservarsi che, sempre secondo la giurisprudenza di questa Corte,in
caso di estorsione, le diverse condotte di violenza o minaccia poste in essere
per procurarsi un ingiusto profitto senza riuscire a conseguirlo costituiscono
autonomi tentativi di estorsione, unificabili con il vincolo della continuazione,
quando singolarmente considerate in relazione alle circostanze del caso
concreto e, in particolare, alle modalità di realizzazione e soprattutto

fosse presente nella zona un gruppo facente capo a “Cosa Nostra” (Cass. Sez.

all’elemento temporale, appaiano dotate di una propria completa individualità;
si ha, invece, un unico tentativo di estorsione, pur in presenza di molteplici
atti di minaccia, allorché gli stessi costituiscano singoli momenti di un’unica
azione (Cass. Sez. IL 2.7.2013, n. 41167).
Nel caso di specie, la convocazione della vittima presso il negozio del
ricorrente e la minaccia, con metodo mafioso, della stessa in tale luogo
integrano evidentemente il compiuto tentativo di estorsione, come tale

Quanto alla doglianza circa il mancato accoglimento della qualificazione
dell’azione in termini di desistenza, è sufficiente richiamare la giurisprudenza
di questa Corte, a cui puntualmente si sono attenuti giudici del merito, per cui
in tema di estorsione va considerata integrata l’ipotesi tentata ed esclusa la
desistenza quando la consegna della somma di denaro, costituente oggetto di
una richiesta effettuata con violenza o minaccia, non abbia avuto luogo non
per autonoma volontà dell’indagato, bensì per la ferma resistenza opposta
dalla vittima (v. ancora Cass. Sez. II, 2.7.2013, n. 41167).
Quanto alla decisione circa la ricorrenza delle esigenze cautelari, il Tribunale
elenca la presenza di elementi idonei a conformare la decisione impugnata,
individuandoli nella modalità organizzative di esazione del credito, quali il
ricorso a sistemi di giustizia alternativa a quella statale e la richiesta di aiuto
rivolta dal ricorrente a due malavitosi.
Il Tribunale motiva anche sulla sussistenza del pericolo di recidiva, rilevando
come il ricorrente vanti numerosi crediti verso diversi soggetti, per la
riscossione dei quali potrebbe nuovamente avvalersi di modalità delittuose. A
tal riguardo, va esclusa la contraddizione motivazionale segnalata dal
ricorrente e rinvenuta nell’ulteriore affermazione, denunciata in contrasto con
la precedente, secondo cui il ricorrente non avrebbe ulteriormente insistito
nelle proprie richieste di pagamento nei confronti della vittima in ragione della
ricevuta notifica del decreto di perquisizione. Le due affermazioni sono infatti
rivolte a fatti e circostanze diversi: il tentativo di esazione ormai caduto sotto
l’attenzione degli inquirenti da un lato, e invece altre possibili e diverse
condotte delittuose nei confronti di altri debitori dall’altro.
Ne discende il rigettodel ricorso e la condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese

esattamente ritenuto nel provvedimento impugnato.

processuali.

Così deliberato il 10.12.2013

Fabrizio Di Marzio

Il Presidente
AntoniplEsposito

Il Consigliere estensore

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