Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 1429 del 10/12/2013


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 1429 Anno 2014
Presidente: ESPOSITO ANTONIO
Relatore: DI MARZIO FABRIZIO

SENTENZA
Sul ricorso proposto da Siano Uldarico, nato il 24.4.1945 avverso la ordinanza
del Tribunale della libertà di Salerno del 27.6.2013. Sentita la relazione della
causa fatta dal consigliere Fabrizio Di Marzio; udita la requisitoria del sostituto
procuratore generale Giovanni D’Angelo, il quale ha concluso chiedendo che il
ricorso sia rigettato; uditi i difensori dell’indagato, avv.ti Giovanni Aricò e
Michele Tedesco, i quali insistono per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con l’ordinanza in epigrafe il Tribunale di Salerno, sezione riesame, decidendo
sull’appello presentato dal pubblico ministero avverso l’ordinanza applicativa
della misura cautelare degli arresti domiciliari emessa dal gip del medesimo
tribunale in data 21 maggio 2013 nei confronti di Siano Udalrico in parziale
accoglimento del gravame ha riformato il provvedimento impugnato
applicando all’indagato la misura della custodia cautelare in carcere.
L’indagato, a mezzo dei suoi difensori, presenta le seguenti doglianze.
Innanzitutto, si contesta violazione di legge in relazione agli articoli 393, 56 e
629 cod. pen.; 7 legge 203 del 1991 nonché vizio di motivazione con riguardo

Data Udienza: 10/12/2013

alla sussistenza, ritenuta dal tribunale, di una fattispecie di tentata estorsione
piuttosto che di ragion fattasi. Si rileva che dalle condotte emerse nel
processo non risultano elementi di fattispecie idonei all’inquadramento dei
fatti in uncontesto estorsivo giacché l’odierno indagato vantava un credito
avente origine in una fornitura commerciale mai pagata dalla persona offesa;
giacché lo stesso indagato e i coindagati Loreto Alfonso e Ridosso Salvatore
avevano avviato con la parte offesa una semplice trattativa per il recupero di

alcuni crediti non connotata da nessuna valenza estorsiva ma, al limite,
rilevante ai sensi dell’art. 393 cod. pen.; giacché in nessun modo sarebbe
emerso agli atti che gli indagati o alcuno di essi abbiano tenuto condotte
rilevanti ai fini della integrazione della menzionata aggravante (per aver agito
con metodo mafioso o per aver agevolato una consorteria di stampo mafioso)
non essendo pacificamente a ciò sufficientené che uno degli indagati sia figlio
di Loreto Pasquale, elemento di spicco di associazioni camorristiche negli anni
Ottanta del secolo passato e poi collaboratore di giustizia, né il riferimento alla
supposta cosca degli “Scafatesi” (riferimento fatto dagli indagati alla persona
offesa e relativo a una realtà di cosca mai effettivamente appurata come
esistente); giacché questa corte, con l’ordinanza n. 22907 del 10 aprile 2013
aveva assunto una decisione di inammissibilità del ricorso del PM tendente ad
ottenere una qualificazione del fatto in termini di estorsione aggravata, nel
caso di un recupero crediti nei confronti di un commerciante ambulante: ossia
in un episodio connotato da modalità praticamente identiche a quelle oggi in
esame; giacché la persona offesa non fu minimamente indotta dalle supposte
minacce all’adempimento: con ciò dimostrando di non aver subito nessun
intimorimento; e giacché i familiari della stessa indirizzarono due telefonate
minacciose all’odierno indagato, a riprova che nessun timore era stato loro
indotto dalle richieste qualificate dal gip e dal tribunale come estorsive;
giacché in nessun modo risulterebbe perpetrata alla persona offesa una
violenza o una minaccia di tale gravità da attingere alla qualificazione
estorsiva piuttosto che alla figura di minor gravità dell’esercizio arbitrario delle
proprie ragioni.
Un ulteriore motivo è dedicato all’approfondimento della qualificazione dei
fatti in termini di tentativo compiuto. Rileva infatti il ricorrente che il giorno in
cui fu effettuata la minaccia alla persona offesa l’indagato era ben
consapevole che non avrebbe ottenuto alcun adempimento dell’obbligazione,
che infatti non si verificò; ciononostante tutti gli indagatidesistettero
dall’azione non cercando in alcun modo di indurre, ulteriormente, la persona

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offesa all’adempimento. Pertanto, si argomenta, non avrebbe dovuto ritenersi
integrata una vera e propria fattispecie tentata, non essendo stati posti in
essere dagli indagati fatti idonei all’evento; inoltre avrebbe dovuto comunque
ritenersi integrata una desistenza dall’azione, non avendo gli indagati
ulteriormente tentato di ottenere l’adempimento.
Si lamenta inoltre violazione di legge e vizio di motivazione per la ritenuta
sussistenza delle ragioni cautelari di massimo rigore, non essendo stata

degli arresti domiciliari, inizialmente applicata, né le effettive ragioni della
applicazione, peraltro a soggetto in età avanzata, della misura di estremo
rigore. Quanto infatti al pericolo di recidivanza, si critica in termini di illogicità
la motivazione che segnala l’esistenza di numerosi altri crediti dell’indagato
che avrebbe potuto pertanto essere indotto ad ulteriori estorsioni al fine di
recupero di quanto a lui dovuto; ma che, nello stesso tempo, nega
l’integrazione della desistenza argomentando che l’indagato si sarebbe
astenuto dal tentare ulteriori recuperi del credito in ragione della ricevuta
notifica del decreto di perquisizione.
Nello svolgere le sintetizzate argomentazioni si effettuano, in misura
dettagliata, alternative ricostruzioni del fatto; si argomentano diffusamente
alternative interpretazioni del materiale probatorio acquisito in atti; si
prospettano dunque conclusioni nel merito diametralmente opposte a quelle
fatte proprie nell’ordinanza impugnata.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Imotivi di ricorsosono infondati.
Quanto al primo motivo, deve rammentarsi il consolidato orientamento di
questa Corte di legittimità, correttamente applicato dal Tribunale, secondo cui
non è ravvisabile il delitto di “ragion fattasi”, ma quelli più gravi di rapina o di
estorsione, ogni qualvolta la pretesa – nascendo da fatto illecito e non potendo
comunque assumere la consistenza di un diritto – sia

contra ius. In un

afattispecie recentemente decisa, relativa agli atti intimidatori posti in essere
dal ricorrente, per esigere un credito derivante dalla fornitura di gasolio non
pagato, secondo i giudici di legittimità, la minaccia si era estrinsecata in forme
di tale forza intimidatoria da andare al di là di ogni ragionevole intento di far
valere un proprio diritto, avendo la coartazione dell’altrui volontà assunto ex
se i caratteri dell’ingiustizia, di conseguenza, anche la minaccia tesa a far
valere quel diritto si trasforma in una condotta estorsiva (Cass. Sez. II,
5.6.2013, n. 27328).

illustrata nella ordinanza impugnata la supposta inadeguatezza della misura

Lo stesso deve dirsi con riferimento al caso in esame, in cui il recupero crediti
è stato tentato non soltanto rivolgendo gravi minacce alla persona offesa, ma
per di più – come di argomenta appresso – avvalendosi del metodo mafioso:
così integrandosi la circostanza aggravante prevista dall’art. 7 D.L. 13 maggio
1991 n. 152, convertito in legge 12 luglio 1991 n. 203 (aver commesso il fatto
avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis cod. pen. ovvero al fine
di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo).
Cosicché deve ritenersi integrato il dolo di estorsione piuttosto che di ragion

fattasi.
Sempre secondo la giurisprudenza di questa Corte, ai fini della configurabilità,
nella condotta criminosa, dell’aggravante del metodo mafioso, non è
sufficiente il mero collegamento con contesti di criminalità organizzata o la
“caratura mafiosa” degli autori del fatto occorrendo, invece, l’effettivo utilizzo
del metodo mafioso e, cioè l’impiego della forza di intimidazione derivante dal
vincolo associativo. In applicazione del principio, questa Corte ha escluso che
ricorresse l’aggravante per il solo fatto che l’indagato era sottoposto a
procedimento penale per il delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen. e perché
fosse presente nella zona un gruppo facente capo a “Cosa Nostra” (Cass. Sez.
II, 14.6.2013, n. 28861).Nel caso di specie, oltre al citato collegamento con
contesti di criminalità organizzata con riguardo all’indagato Loreto, nella
ordinanza impugnata da pagina 12 a pagina 14 è tuttavia compiutamente
motivata una complessa modalità dell’azione del tutto riconducibile all’agire
degli appartenenti ad associazioni di stampo mafioso. Infatti, gli indagati
Loreto e Ridosso hanno agito nel tentativo di recuperare non un proprio
credito, ma un credito altrui: perciò, quali esattori. Inoltre, nell’apparecchiare
le minacce rivolte alla persona offesa, si qualificarono come appartenenti ad
una consorteria di stampo mafioso, individuata nel clan degli Scatafesi,
affermandone l’importanza anche rispetto al noto clan Mazzarella. In tal
modo, tentavano di porre in essere una giustizia alternativa a quella statale,
sulla base di condotte minacciose e violente e avvalendosi della propria
appartenenza, dichiarata alla vittima del reato, ad una consorteria di stampo
mafioso-e più precisamente camorristico-onde coartarne la volontà.
Su queste basi fattuali, ampiamente ricostruite nel provvedimento impugnato,
del tutto logicamente i giudici del merito hanno concluso sulla integrazione,
nel caso, della contestata aggravante dell’aver agito avvalendosi del metodo
mafioso. Invece, nessun rilievo può assumere la reazione della vittima:
giacché che quest’ultima soggiaccia o meno alla richiesta estorsiva risulta

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ovviamente irrilevante ai fini della integrazione della fattispecie criminosa:
essendo necessario ma anche sufficiente alla integrazione della stessa
l’oggettività della condotta come minacciosa e violenta e, nel caso in esame,
aggravata dal metodo mafioso.
Deve poi osservarsi che, sempre secondo la giurisprudenza di questa Corte,in
caso di estorsione, le diverse condotte di violenza o minaccia poste in essere
per procurarsi un ingiusto profitto senza riuscire a conseguirlo costituiscono
autonomi tentativi di estorsione, unificabili con il vincolo della continuazione,

quando singolarmente considerate in relazione alle circostanze del caso
concreto e, in particolare, alle modalità di realizzazione e soprattutto
all’elemento temporale, appaiano dotate di una propria completa individualità;
si ha, invece, un unico tentativo di estorsione, pur in presenza di molteplici
atti di minaccia, allorché gli stessi costituiscano singoli momenti di un’unica
azione (Cass. Sez. II, 2.7.2013, n. 41167).
Nel caso di specie, la convocazione della vittima presso il negozio del
ricorrente e la minaccia, con metodo mafioso, della stessa in tale luogo
integrano evidentemente il compiuto tentativo di estorsione, come tale
esattamente ritenuto nel provvedimento impugnato.
Quanto alla doglianza circa il mancato accoglimento della qualificazione
dell’azione in termini di desistenza, è sufficiente richiamare la giurisprudenza
di questa Corte, a cui puntualmente si sono attenuti giudici del merito, per cui
in tema di estorsione va considerata integrata l’ipotesi tentata ed esclusa la
desistenza quando la consegna della somma di denaro, costituente oggetto di
una richiesta effettuata con violenza o minaccia, non abbia avuto luogo non
per autonoma volontà dell’indagato, bensì per la ferma resistenza opposta
dalla vittima (v. ancora Cass. Sez. II, 2.7.2013, n. 41167).
Quanto alla decisione circa la ricorrenza delle esigenze cautelari di massimo
rigore, deve richiamarsi la recente giurisprudenza costituzionale per cui è
costituzionalmente illegittimo l’art. 275, comma 3, secondo periodo, c.p.p.,
come modificato dall’art. 2, comma 1 d.l. 23 febbraio 2009, n. 11, conv., con
modif., in I. 23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui – nel prevedere che,
quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti commessi
avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis c.p. ovvero al fine di
agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, è applicata
la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali
risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in
cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali

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risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.
Premesso che le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto
fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono
arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza
generalizzati, riassunti nella formula dell'”id quodplerumqueaccidit”, e
premesso che la presunzione assoluta sulla quale fa leva il regime cautelare
speciale non risponda, con riferimento ai delitti commessi avvalendosi delle
condizioni previste dall’art. 416 bis c.p. o al fine di agevolare le attività delle

associazioni previste dallo stesso articolo, a dati di esperienza generalizzati,
essendo “agevole” formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla
generalizzazione posta a base della presunzione stessa, la disposizione
censurata determina una ingiustificata parificazione dei procedimenti relativi
ai delitti in questione a quelli concernenti il delitto di cui all’art. 416 bis c.p. e
un irrazionale assoggettamento ad un medesimo regime cautelare di diverse
ipotesi e si pone in contrasto con l’art. 13, comma 1, cost., quale referente
fondamentale del regime ordinario delle misure cautelari privative della libertà
personale, e con l’art. 27, comma 2, cost., in quanto attribuisce alla
coercizione processuale tratti funzionali tipici della pena. Peraltro, posto che
ciò che vulnera i parametri costituzionali richiamati non è la presunzione in sé,
ma il suo carattere assoluto, che implica una indiscriminata e totale negazione
di rilevanza al principio del “minore sacrificio necessario”, la previsione di una
presunzione solo relativa di adeguatezza della custodia carceraria – atta a
realizzare una semplificazione del procedimento probatorio, suggerita da
aspetti ricorrenti del fenomeno criminoso considerato, ma comunque
superabile da elementi di segno contrario – non eccede i limiti di compatibilità
costituzionale, rimanendo per tale verso non censurabile l’apprezzamento
legislativo circa la ordinaria configurabilità di esigenze cautelari nel grado più
intenso (sentt. n. 41 del 1999, 139, 265 del 2010, 164, 231, 331 del 2011,
110 del 2012; ord. n. 450 del 1995) (Corte cost. 29.3.2013, n. 57).
Questa giurisprudenza è stata correttamente applicata nella decisione
impugnata. Infatti, da pagina 14 a pagina 16 il Tribunale argomenta sulla
insussistenza, nel caso di specie, di elementi utili al superamento della
presunzione relativa di pericolosità; inoltre elenca la presenza di elementi in
senso contrario individuandoli nella modalità organizzative di esazione del
credito, quali il ricorso a sistemi di giustizia alternativa a quella statale e la
richiesta di aiuto rivolta dal ricorrente a due malavitosi.
Il Tribunale motiva anche sulla sussistenza del pericolo di recidiva, rilevando

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come il ricorrente vanti numerosi crediti verso diversi soggetti, per la
riscossione dei quali potrebbe nuovamente avvalersi di modalità delittuose. A
tal riguardo, va esclusa la contraddizione motivazionale segnalata dal
ricorrente e rinvenuta nell’ulteriore affermazione, denunciata antinomica alla
precedente, secondo cui il ricorrente non avrebbe ulteriormente insistito nelle
proprie richieste di pagamento nei confronti della vittima in ragione della
ricevuta notifica del decreto di perquisizione. Le due affermazioni sono infatti

l’attenzione degli inquirenti da un lato, e invece altre possibili e diverse
condotte delittuose nei confronti di altri debitori dall’altro.
Ne discende il rigettodel ricorso e la condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali. Si provveda ai sensi dell’art. 28 disp. att. cod. proc. pen.

Così deliberato il 10.12.2013

Il Consigliere estensore
Fabrizio Di Marzio

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rivolte a fatti e circostanze diversi: il tentativo di esazione ormai caduto sotto

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