Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 14253 del 20/01/2016


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 14253 Anno 2016
Presidente: CORTESE ARTURO
Relatore: MINCHELLA ANTONIO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
DI GRAZIA MICHELE N. IL 21/06/1989
avverso l’ordinanza n. 1487/2014 TRIB. LIBERTA’ di CATANIA, del
04/02/2015
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. ANTONIO
MINCHELLA;
latte/sentite le conclusioni del PG Dott.

Uditi difensor Avv.;

Data Udienza: 20/01/2016

RILEVATO IN FATTO
Con ordinanza in data 30.06.2015 il GIP del Tribunale di Catania applicava la custodia
cautelare in carcere a diversi soggetti indagati per i delitti di associazione per delinquere di
tipo mafioso, associazione per delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti ed
intestazione fittizia di beni aggravata dall’art. 7 del D.L. 152/1991.
In particolare, tuttavia, non ravvisava i gravi indizi di colpevolezza per il delitto di cui
all’art. 416 bis cod.pen. nei confronti di Di Grazia Michele.

confronti di detta statuizione.
Con ordinanza in data 04.02.2015 il Tribunale di Catania accoglieva detto appello.
Rilevava il Tribunale che il GIP del Tribunale di Catania non aveva ravvisato, nei confronti
del Di Grazia, il requisito dell’affectio societatis nei confronti della cosca mafiosa di
appartenenza di Mazzei Sebastiano, elemento di vertice della consorteria: in altri termini,
pur se il Di Grazia era stato indicato da dichiarazioni collaborative e pur se il suo nome era
emerso nel corso di attività di intercettazione di conversazioni, il GIP aveva ritenuto che in
lui sussistesse un ruolo esclusivamente fiduciario e personale nei confronti del Mazzei
Sebastiano e non una vera e propria affiliazione al clan.
Il Tribunale di Catania richiamava per relationem la motivazione del Gip laddove venivano
ricostruiti il contesto mafioso del territorio, l’esistenza del clan mafioso “Mazzei”, i contrasti
e le alleanze con altri consimili clan, il ruolo verticistico di Mazzei Santo, padre di Mazzei
Sebastiano: tutti elementi basati su di una successione di sentenze passate in giudicato.
Quanto agli anni più recenti, si riportavano gli esiti di indagini tecniche e le molteplici gi
dichiarazioni di collaboratori di giustizia (tali La Causa Santo, Barbagallo Ignazio, Mirabile
Giuseppe, Mirabile Paolo, Viola Salvatore, Di Maggio Goffredo, Sturiale Eugenio, D’Aquino
Gaetano, Musumeci Gaetano) che dimostravano la perdurante attività criminale del “clan
Mazzei”, i suoi metodi di sopraffazione, la forza di intimidazione esercitata ed il controllo di
attività economiche; dalle dichiarazioni collaborative emergeva il ruolo di vertice assunto
ormai stabilmente da Mazzei Sebastiano, per conto del quale assolveva molti incarichi
appunto il Di Grazia, il quale veniva così ritenuto elemento a fattiva disposizione del
sodalizio, sia per il rapporto con il Mazzei sia per i rapporti con altri sodali. Si evidenziava
che il collaboratore Musumeci Gaetano, elemento di spicco del “clan Bonaccorsi” lo aveva
indicato come un affiliato del clan dei “Carcagnusi” del Mazzei e specificamente come
uomo di fiducia del medesimo, sempre a sua disposizione per disbrigare i suoi incarichi; le
intercettazioni di conversazioni avevano poi confermato come il Di Grazia riceveva ordini
perentori e non discutibili dal Mazzei, relativi alla convocazione di terze persone al suo
cospetto, alla percezione di somme dovute ed al trasporto del danaro raccolto. Si
riportavano poi numerose conversazioni intercettate, nel corso delle quali il Mazzei,
intimava al Di Grazia di lasciare subito il lavoro (di dipendente di un magazzino o
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La Procura della Repubblica presso il Tribunale di Catania – DDA proponeva appello nei

supermercato) per andare a prendere terze persone, convocarle ad appuntamenti, tenere i
contatti con terzi, ritirare del danaro, adottare ogni cautela nel tenere i contatti con altri
sodali, tenersi a disposizione per condurre il Mazzei con veicoli (giacchè quegli, sottoposto
a sorveglianza speciale di p.s., non poteva guidare vetture); si riteneva che le
conversazioni evidenziassero il tono perentorio del Mazzei, la sua sovraordinazione, la
consapevolezza della natura illecita di molti incarichi, il rapporto di assoluta obbedienza
tenuta dal Di Grazia, il quale figurava presente in una conversazione presso l’abitazione del
Mazzei, nel corso della quale quegli si interessava ad acquisire una apparecchiatura che

Tribunale di Catania concludeva che il Di Grazia non figurava come un mero factotum, ma
agevolava i rapporti del Mazzei con i terzi ed espletava compiti afferenti non già alla sfera
privata del capoclan, ma alla sua dimensione dì vertice del sodalizio: ciò spiegava perché
egli, pur esercitando una propria attività lavorativa, si sottomettesse in modo completo ad
un altro soggetto al quale non era legato da subordinazione lavorativa; pertanto, questa
relazione poteva spiegarsi solo con l’appartenenza di entrambi alla struttura gerarchica
della consorteria, a favore della quale venivano svolti i compiti del Di Grazia, il quale
permetteva al capoclan di comunicare con i terzi e ne eseguiva le direttive; peraltro, le
intercettazioni telefoniche avevano dimostrato che il Di Grazia aveva tenuto contatti con
altri sodali del clan. Si ravvisavano infine le esigenze cautelari della custodia in carcere non
soltanto per la presunzione di legge, non vinta da alcun elemento, ma anche per la grave
entità del reato commesso ed il contributo rilevante all’attività di uno dei più pericolosi clan
mafiosi della Sicilia.
Avverso detta ordinanza proponeva personalmente ricorso l’interessato, deducendo
manifesta illogicità e difetto della motivazione: si evidenziava che il GIP del Tribunale di
Catania aveva rigettato la richiesta di misura cautelare e che l’appello del P.M. si fondava
sui medesimi elementi; si contestava che si potesse desumere qualcosa di preciso dalle
dichiarazioni di Musumeci Gaetano, che non era intraneo al clan e che avrebbe indicato il
ricorrente come semplicemente una persona di fiducia del Mazzei; si afferma che il
Tribunale di Catania aveva dedotto la qualità di affiliato del ricorrente da alcune sue
mansioni, senza però spiegare in che modo questi compiti sarebbero tornati a favore della
consorteria, se non alla fine dell’ordinanza; si contestava che il Mazzei, il quale definiva
spesso in termini dispregiativi il ricorrente, potesse servirsi di persona da lui non stimata
per compiti delicati, per cui non poteva arguirsi un ruolo fiduciario; si sosteneva che il
ricorrente era cresciuto in un quartiere periferico, senza padre e in una famiglia numerosa,
per cui negli anni si era prestato a svolgere commissioni per la famiglia Mazzei che l’aveva
aiutato, ma ciò non poteva significare affiliazione al clan
CONSIDERATO IN DIRITTO

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potesse neutralizzare la possibilità di intercettare le conversazioni e le telefonate. Il

Deve disporsi l’annullamento dell’ordinanza impugnata.
Si è già detto sopra di come inizialmente il Giudice competente non avesse ravvisato nella
condotta e nella posizione del ricorrente i presupposti di configurabilità del delitto di
partecipazione ad una associazione per delinquere di tipo mafioso.
In seguito all’appello del P.M., il Tribunale di Catania ha rivalutato globalmente la figura
del Di Grazia, esaminando il contenuto di intercettazioni di conversazioni e quello di
dichiarazioni di collaboratori di giustizia; così, rilevato che il nome del Di Grazia ricorreva
in entrambi gli ambiti, ha concluso che il predetto fosse sostanzialmente una persona di

intratteneva rapporti con altri sodali e con terzi estranei al clan.
Il ricorso dell’interessato, sostanzialmente, non nega né la ricorrenza del nome del Di
Grazia né i rapporti frequenti con il Mazzei Sebastiano: tuttavia esamina da una differente
prospettiva quegli stessi elementi, evidenziando diversi aspetti che paiono configurare una
non lineare logicità nella successione dei concetti espressi nell’ordinanza impugnata.
Osserva il Collegio che il ricorso appare fondato.
In diritto, è appena il caso di ricordare che la nozione di associazione punibile a titolo di
delitto contro l’ordine pubblico implica un’unione permanente e volontaria, finalizzata a
conseguire scopi illeciti comuni con volontà e attività collettive. A corollario del principio di
necessaria offensività discende che l’accordo può dirsi seriamente contratto solo ove ne
risulti l’idoneità a porre in pericolo l’ordine pubblico, ovverosia a realizzare i fini illeciti
perseguiti. Per conseguenza, l’adesione all’associazione in tanto può dirsi provata in
quanto venga dimostrata la consapevolezza e la volontà di ciascun associato di far parte
del sodalizio e di partecipare con contributo causale “dinamico e funzionale” (Sez. u, sent.
n. 33748 del 12/07/2005, Mannino) alla realizzazione del programma criminale comune, in
ciò consistendo l’affectio societatis.
Tale partecipazione ben può, dunque, esprimersi con la “messa a disposizione”
dell’organizzazione criminale, purché sia ben chiaro che codesta messa a disposizione deve
rivolgersi incondizionatamente al sodalizio ed essere di natura ed ampiezza tale da
dimostrare l’adesione permanente e volontaria ad esso per ogni fine illecito suo proprio. La
“messa a disposizione” rilevante ai fini della prova dell’adesione all’associazione mafiosa
non può risolversi perciò nella mera disponibilità eventualmente manifestata nei confronti
di singoli associati, a servizio di loro interessi particolari, ne’ con la promessa, e neppure
con la prestazione, di contributi a specifiche attività, che, pur indirettamente funzionali alla
vita dell’associazione, si risolvano in apporti delimitati, nel tempo e quanto a soggetti e
oggetto cui sono rivolti.
È d’altra parte principio consolidato che eventuali condotte d’ausilio al sodalizio realizzate
da colui che non è stabilmente inserito nella struttura associativa, sono semmai punibili a
titolo di concorso esterno, sempre però che esplichino un’effettiva rilevanza causale per la
conservazione o il rafforzamento delle capacità operative dell’associazione.

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fiducia di un capo-clan, per conto del quale svolgeva mansioni di vario genere ed

Quello che certamente non può ammettersi è dunque che la mera promessa di contributi
esterni sia ricondotta, mancando la prova della loro rilevanza causale, ad un’ipotesi di
partecipazione, surrogandosi il difetto di prova dell’affectio societatis con l’equivoca
evocazione di una manifestata disponibilità verso taluni associati, seppure di livello apicale
(Sez. 1 n. 26331 del 07.06.2011, Rv 250670, Pres. Bardovagni, Est. Di Tornassi).
Nella fattispecie, il Tribunale di Catania ha tratto il suo convincimento da dichiarazioni di
collaboratori di giustizia, ritenendo di rinvenire riscontri in alcune conversazioni
intercettate: tuttavia, l’argomento principe dell’ordinanza è il riconoscimento fotografico

collaboratore di giustizia, il quale indica il Di Grazia come un “tirapiedi” di Mazzei
Sebastiano e cioè come una persona che disbriga commissioni e servizi vari per l’altro. Vi è
una certa ambiguità in queste espressioni, ma l’ordinanza supera questi tratti di
ambivalenza ritenendo di disegnare il profilo di una persona intranea alla cosca e posta a
disposizione della stessa e dei suoi scopi illeciti, e ciò grazie alle conversazioni intercettate:
ma anche queste non superano un vaglio severo. È la stessa ordinanza a riportare molte
conversazioni, dalle quali certamente emerge che il Mazzei dava ordini perentori al Di
Grazia, ma l’ordinanza non dispiega alcuna argomentazione sulla tipologia di mansioni
svolte dal ricorrente.
In altri termini, il mero fatto che il Di Grazia ricevesse disposizioni sull’andare a prendere
taluno o di ricordare ad altri di un appuntamento con il Mazzei o di andare a ritirare del
danaro non appare indicativo di quell’elemento che è stato sopra definito come affectio
societatis: non viene né spiegato né dedotto indiziariamente che dette mansioni fossero
finalizzate agli scopi della cosca stessa e non si traducessero, invece, nella esecuzione di
una serie di compiti svolti da una sorta di collaboratore legato al Mazzei da un rapporto di
natura assolutamente personale.
Peraltro, è appena il caso di notare che la stessa ordinanza impugnata riporta una serie di
conversazioni telefoniche dalle quali traspare in modo lampante che il Mazzei non nutriva
una vera fiducia nel Di Grazia, il quale veniva apostrofato sovente con insulti severi e con
espressioni di scoramento per la sua incapacità di comprendere le dinamiche della vita; è
ancora la stessa ordinanza impugnata a riportare le minacce di percosse e di lesioni rivolte
dal Mazzei verso il ricorrente. Parimenti, nessuna considerazione viene svolta dal Giudice
circa il danaro che il Di Grazia doveva ritirare da un terzo né circa la connotazione lecita od
illecita di questa azione né circa la causa della dazione.
L’ordinanza conclude che il Di Grazia agevolava i rapporti del Mazzei con i terzi, ma la
disponibilità personale o lo svolgimento di compiti vari non possono ex se essere indici di
una comune appartenenza ad una struttura gerarchica mafiosa: o almeno, non possono
esserlo se non viene fornita una più approfondita spiegazione della natura dei rapporti e
delle condotte.

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effettuato da Musumeci Gaetano, già elemento di spicco del clan “Bonaccorsi” e divenuto

Costituisce principio consolidato quello per cui, in tema di associazione di tipo mafioso, la
mera frequentazione di soggetti affiliati al sodalizio criminale per motivi di parentela,
amicizia o rapporti d’affari, non costituisce elemento di per sè sintomatico
dell’appartenenza all’associazione medesima, anche se può essere utilizzata come
riscontro da valutare ai sensi dell’art. 192 cod.proc.pen., quando risulti qualificata da
abituale o significativa reiterazione e connotata dal necessario carattere individualizzante.
Tale principio non ha trovato esatta e condivisibile applicazione nella ordinanza in esame.
Infatti, il Giudice di merito muove dalla premessa che il ricorrente sia inserito nel clan

verifica logica e non integrano una serie indiziaria sicura.
Nessun altro elemento sostiene quindi la contestazione che il Di Grazia si sarebbe messo a
completa disposizione degli interessi del sodalizio, cooperando con gli altri associati nella
realizzazione del programma criminoso.
Nulla, in particolare, dimostra un impegno del Di Grazia alla realizzazione del programma
del sodalizio mafioso, e neppure sono indicati pregressi suoi peculiari collegamenti di sorta
con altri associati, diversi da Mazzei Sebastiano.
La conclusione, per cui vi sarebbe stata nel ricorrente quella manifestazione d’impegno con
cui l’affiliato mette a disposizione del sodalizio le proprie energie, risulta perciò priva di
base fattuale.
In conclusione, il Tribunale non ha fornito giustificazione adeguata della ritenuta condotta
di partecipazione del Di Grazia al sodalizio mafioso; non ha evidenziato suoi
comportamenti sicuramente sintomatici di una generica e incondizionata messa a
disposizione del sodalizio mafioso per la realizzazione del comune progetto criminoso.
Ne consegue l’annullamento dell’ordinanza impugnata, con rinvio per nuovo esame al
Tribunale del Riesame di Catania, cui vanno trasmessi integralmente gli atti.
P.Q.M
Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame al Tribunale del Riesame di
Catania, con trasmissione integrale degli atti.
Così deciso in Roma, il 20 gennaio 2016.

Mazzei per la vicinanza al Mazzei Sebastiano: ma i sopradetti elementi non reggono alla

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