Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 1417 del 17/02/2015


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Penale Ord. Sez. 7 Num. 1417 Anno 2016
Presidente: CASSANO MARGHERITA
Relatore: MAGI RAFFAELLO

ORDINANZA

sul ricorso proposto da:
MACHI’ SALVATORE N. IL 10/02/1978
avverso la sentenza n. 4613/2013 CORTE APPELLO di PALERMO,
del 28/04/2014
dato avviso alle parti;
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. RAFFAELLO MAGI;

Data Udienza: 17/02/2015

IN FATTO E IN DIRITTO
1. Con sentenza emessa in data 28 aprile 2014 la Corte di Appello di Palermo ha
confermato la decisione emessa in primo grado nei confronti di Machì Salvatore
dal GUP del Tribunale di Marsala il 5 giugno 2013.
Con tali conformi decisioni di merito Machì Salvatore è stato ritenuto
responsabile dei delitti di rapina e violazione legge armi (fatto accaduto in data
11 ottobre 2011) e condannato, ritenuta la continuazione tra le diverse violazioni
di legge, alla pena di anni cinque di reclusione ed euro 1.400,00 di multa.

diniego delle circostanze attenuanti generiche, confermando la valutazione
espressa in primo grado e la irrilevanza della confessione, posto che la
medesima è intervenuta solo dopo l’acquisizione di elementi di prova dall’elevato
valore dimostrativo e senza manifestare concreti segnali di resipiscenza.

2. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione – a mezzo del
difensore – Machì Salvatore.
Al primo motivo si deduce vizio di motivazione in relazione alla conferma del
diniego delle circostanze attenuanti generiche.
Si censura, con ampiezza argomentativa, la mancata valorizzazione, a tal fine,
della confessione resa e si denunzia la omessa motivazione in punto di
dosimetria complessiva della pena.
Al secondo motivo si deduce vizio di motivazione in relazione alla ritenuta
sussistenza della recidiva.
Trattasi di recidiva facoltativa nell’an sulla cui necessità di applicazione non vi
sarebbe motivazione adeguata.

3. Il ricorso va dichiarato inammissibile per la manifesta infondatezza dei motivi
addotti.
Quanto al primo motivo, il ricorrente non si confronta in modo adeguato con i
contenuti motivazionali – espressi in primo e in secondo grado – che hanno
ritenuto in modo del tutto logico di non attribuire alla confessione – nel caso in
esame – alcuna particolare valenza ai fini di cui all’art. 62 bis cod.pen. .
Sul punto va ricordato che le circostanze attenuanti atipiche, introdotte dal
decreto legislativo luogotenenziale n. 288 del 14.9.’44, rappresentano uno
strumento di individualizzazione della risposta sanzionatoria lì dove sussistano in positivo – elementi del fatto o della personalità, tali da rendere necessaria la
mitigazione della pena, non previsti espressamente da altra disposizione di
legge.

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In motivazione la Corte territoriale esamina, in particolare, il motivo relativo al

L’applicazione della norma necessita – pertanto – di un substrato cognitivo e di
una adeguata motivazione, nel senso che è da escludersi l’esistenza di un
generico potere discrezionale del giudice di riduzione dei limiti legali della
sanzione, dovendo di contro apprezzarsi e valorizzarsi un «aspetto» del fatto o
della personalità risultante dagli atti del giudizio (tra le molte Sez. VI 28.5.1999
n. 8668).
Da qui, stante l’ampia tipizzazione di fattori circostanziali da un lato e la
necessità di ancorare l’applicazione della norma ad un preciso indicatore di minor

nelle categorie generali descritte nell’art. 133 cod.pen. il principale ‘serbatoio’ di
ipotesi, capace di razionalizzare e rendere controllabile la valutazione del
giudicante.
In tal senso, si è ritenuto che la valutazione sotto diversi profili (commisurazione
della pena nell’ambito edittale e riconoscimento o negazione delle attenuanti
generiche) della stessa situazione di fatto è del tutto legittima, ben potendo un
dato polivalente essere utilizzato più volte per distinti fini e conseguenze (Sez. I
n. 1376 del 28.10.1997, rv 209841).
Le linee-guida della «gravità del reato» (art. 133 co.1) e della «capacità a
delinquere del colpevole» (art. 133 co.2) restano pertanto gli indicatori essenziali
cui ancorare la particolare valutazione postulata dall’art. 62 bis cod.pen. e ciò
conduce – da sempre – a ritenere il «fatto» della confessione processuale come
possibile fattore di attenuazione della sanzione ai sensi dell’art. 133 co.2 n.3
(sub specie condotta susseguente al reato e sua possibile incidenza sulla
valutazione della capacità a delinquere).
Pur a fronte della commissione di un fatto-reato di elevata gravità non vi è
dubbio – pertanto – che astrattamente l’apporto confessorio può fondare il
riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, ma sempre che – ed è
questo il tema – lo stesso non sia un ‘semplice’ fattore di agevolazione nella
ricostruzione del fatto controverso ma un preciso «indicatore» di riconsiderazione
critica del proprio operato e discontinuità con il precedente modus agendi (tra le
molte Sez. VI n. 3018 del 11-10.1990, rv 186592; Sez. VI n. 11732 del
27.1.2012, rv 252229).
Ciò, a ben vedere, è imposto dalla correlazione – interna alla norma dell’art. 133
– tra la ‘condotta susseguente al reato’ e la categoria della ‘capacità a delinquere’
(nel senso che ciò che emerge nel primo ambito va qualificato come incidente
sulla seconda) specie in un contesto sostanziale e processuale la cui evoluzione
«storica» consegna ad altri istituti – a cavallo tra diritto e processo – il compito di
attenuare la sanzione in «cambio» di scelte di semplificazione processuale (riti
speciali di cui agli artt. 438 ss. e 444 e ss.).
3

disvalore del fatto-reato dall’altro, è derivato il filone interpretativo che individua

Non è un caso, pertanto, che anche lì dove si sia riaffermata – come valore
costituzionale – la libertà del giudice di valorizzare come indicatore positivo ai fini
previsti dall’art. 62 bis la condotta susseguente al reato ( Corte Cost., sentenza
n. 183 del 2011 dichiarativa della illegittimità del limite di apprezzamento che
era stato introdotto dal legislatore del 2005 in ipotesi di recidiva qualificata) si è
precisato a più riprese che l’irragionevolezza della scelta legislativa era nel suo
automatismo di inibizione, posto che la condotta susseguente al reato «può
segnare una radicale discontinuità negli atteggiamenti della persona e nei suoi

delinquere» . Il finalismo rieducativo della pena trova dunque un riconoscimento
lì dove – in sede di quantificazione processuale – si possa dare peso a condotte
«che manifestino una riconsiderazione critica del proprio operato».
Anche la – ricordata – lettura data dal giudice delle leggi al rapporto tra condotta
susseguente al reato ed applicazione delle attenuanti generiche conferma,
pertanto, una rilevanza «mediata» della confessione processuale, da ritenersi
indicatore utile solo nei limiti di «effettiva incidenza» sulla capacità a delinquere
e non come mero strumento di semplificazione probatoria.
Va pertanto riaffermata, alla luce di quanto sinora detto, la linea interpretativa
che esclude l’accesso alla attenuante favorevole atipica, in presenza di
confessione, lì dove quest’ultima sia stata dettata non da effettiva resipiscenza
ma da intento utilitaristico (Sez. VI n.11732 del 27.1.2012, rv 252229).
Nel caso in esame vi è ampia motivazione sul punto, tale da inquadrare la
confessione come fatto del tutto irrilevante a fini ricostruttivi (l’identificazione era
stata realizzata in modo univoco sulla base dei risultati di indagini
dattiloscopiche) e non indicativo di reale resipiscenza (per limitatezza dei
contenuti e scarsa attendibilità complessiva del soggetto) .
La doglianza, pertanto, si risolve in una richiesta di rivalutazione della decisione
su aspetti esenti da vizi in diritto e logicamente motivati.
Quanto al secondo motivo, le decisioni di merito – anche in tal caso – hanno
tenuto conto della natura discrezionale della recidiva, diffusamente motivando
sulla sussistenza di un incremento della capacità a delinquere dimostrato in
concreto dalla commissione del nuovo reato.
Anche in tal caso il ricorso, petanto, tratta aspetti puramente teorici e non si
confronta con i reali contenuti della decisione impugnata.
Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso consegue di diritto la
condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di
elementi atti ad escludere la colpa nella determinazione della causa di
inammissibilità, al versamento a favore della cassa delle ammende di una

4

rapporti sociali, di grande significato per valutare l’attualità della capacità a

sanzione pecuniaria che pare congruo determinare in euro mille, ai sensi dell’
art. 616 cod. proc. pen..
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e al versamento di euro 1.000,00 a favore della cassa delle

Così deciso il 17 febbraio 2015

ammende.

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