Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 1416 del 13/12/2013


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 1416 Anno 2014
Presidente: GALLO DOMENICO
Relatore: CARRELLI PALOMBI DI MONTRONE ROBERTO MARIA

Data Udienza: 13/12/2013

SENTENZA
Sul ricorso proposto dal Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di
Torino avverso la sentenza del 27/3/2013 della Corte d’appello di Torino nel
procedimento nei confronti di:
1) lana Bruno Antonio nato a Condofuri (RC) il 5/7/1965
2) Capece Cosimo nato a Riace (RC) il 26/2/1956
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed i ricorsi;
udita la relazione svolta dal consigliere Roberto Maria Carrelli Palombi di
Montrone;
udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore generale,
dott. Carmine Stabile, che ha concluso chiedendo l’annullamento con rinvio
della sentenza impugnata limitatamente alla circostanza aggravante di cui
all’art. 7 legge n. 203 del 1991;
udito per gli imputati l’avv. Maria Grazia Fornelli, in sostituzione dei
rispettivi difensori di fiducia avv. Claudio D’Alessandro per lana Bruno
Antonio e Daniela Maria Rossi per Capece Cosimo, che ha concluso
chiedendo il rigetto del ricorso e producendo il dispositivo della sentenza
relativa al procedimento cosiddetto «Minotauro», nell’ambito della
quale è stata esclusa nei confronti dei ricorrenti la circostanza aggravante
di cui all’art. 7 legge n. 203 del 1991.

1

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RITENUTO IN FATTO
1.

Con sentenza in data 27/3/2013, la Corte di appello di Torino, in

parziale riforma della sentenza del Tribunale di Ivrea del 4/8/2010, esclusa
l’aggravante di cui all’art. 7 legge n. 203 del 1991, rideterminava la pena
inflitta a lana Bruno Antonio, per i reati allo stesso ascritti, di cui agli artt. 1)
81 cpv., 629 commi 1 e 2 in relazione all’art. 628 comma 3 n. 1, 2) 110, 629

pen. 23 commi 3 e 4 legge n. 110 del 1975, 4) 648, 61 n. 2 cod. pen., 5)
697 cod. pen., in anni dieci di reclusione ed C 3.300,00 di multa ed a Capece
Cosimo, per i reati allo stesso ascritti di cui agli artt. capo 2) 110, 629
commi 1 e 2 in relazione all’art. 628 comma 3 n. 1 cod. pen.„ in anni tre e
mesi otto di reclusione ed C 1.000,00 di multa .
1.1.

Con sentenza del Tribunale di Ivrea del 4/8/2010 gli imputati erano

stati dichiarati responsabili dei reati loro rispettivamente ascritti, aggravati i
capi 1), 2), 3) e 4) ai sensi dell’art. 7 legge n. 203 del 1991 e condannati
lana alla pena di anni tredici e mesi quattro di reclusione ed C 4.500,00 di
multa e Capece alla pena anni quattro e mesi undici di reclusione ed C
1.400,00 di multa; la suddetta sentenza, impugnati dagli imputati, veniva
confermata dalla Corte d’Appello in Torino con sentenza in data 27/10/2011.
In seguito al ricorso per Cassazione proposto da entrambi gli imputati, la
sentenza della Corte d’Appello veniva annullata con rinvio limitatamente
all’aggravante di cui all’art. 7 legge n. 203 del 1991 con rinvio ad altra
sezione della Corte d’Appello di Torino, venendo rigettati gli altri motivi di
ricorso proposti.
1.2. La Corte d’Appello di Torino, provvedendo in sede di rinvio, esclusa, per
entrambi gli imputati, la sussistenza dell’aggravante in questione,
rideterminava la pena nei termini sopra indicati.

2.

Avverso tale sentenza propone ricorso il Procuratore Generale

presso la Corte d’Appello di Torino, sollevando il seguente motivo di
gravame: manifesta illogicità della motivazione nonché erronea
applicazione di legge, ai sensi dell’art. 606 comma 1 lett. b) ed e) cod.
proc. pen., in relazione all’art. 7 legge n. 203 del 1991, nella parte in cui è
stata negata la sussistenza dell’aggravante del metodo mafioso dopo
esserne stati individuati tutti gli elementi che ne dimostravano l’esistenza.
Evidenzia come la Corte territoriale aveva dato atto che entrambi gli

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commi 1 e 2 in relazione all’art. 628 comma 3 n. 1 cod. pen., 3) 81 cpv. cod.

imputati erano risultati fare parte di una consorteria locale collegata alla
`ndrangheta, risultando estremamente illogico che nella commissione delle
estorsioni continuate in danno del gestore di un locale notturno gli imputati
non si siano avvalsi della forza di intimidazione derivante dal vincolo
associativo.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Torino risulta infondato e deve essere, di conseguenza, rigettato.
Rileva in via preliminare il Collegio che, come sopra evidenziato, la
prima decisione assunta dalla Corte territoriale in seguito all’appello
proposto dagli imputati avverso la sentenza di primo grado era stata
annullata con rinvio da questa Corte di legittimità limitatamente alla
ricorrenza, nel caso di specie, della circostanza aggravante di cui all’art. 7
legge n. 203 del 1991 per difetto di motivazione. Segnatamente si erano,
nell’occasione, richiamate le costanti affermazioni di questa Corte che
hanno definito gli elementi in base ai quali deve ritenersi integrata
l’aggravante in argomento sotto l’aspetto dell’utilizzazione del metodo
mafioso: e cioè, pur non occorrendo la dimostrazione circa l’esistenza di
un’associazione a delinquere di stampo mafioso, è necessario che la
violenza o la minaccia assumano veste tipicamente mafiosa (sez. 1 n. 5881
del 4/11/2011, Rv. 251830); in sostanza il legislatore ha previsto di
apprestare una più efficace deterrenza, con l’introduzione
dell’aggravamento della sanzione, ove venga accertato l’utilizzo del metodo
delinquenziale mafioso, che può essere, di certo, utilizzato anche dal
delinquente comune, il quale si avvalga dell’esistenza in una data zona del
contesto

intimidatorio

derivante dalla presenza sul territorio delle

associazioni mafiose. Ciò comporta che la tipicità dell’atto intimidatorio è
ricollegabile, non già alla natura ed alle caratteristiche dell’atto violento in
sé considerato, ma invece al metodo utilizzato, nel senso che la violenza
posta in essere risulta concretamente collegata alla forza intimidatrice
derivante dal vincolo associativo (sez. 6 n. 30426 del 17/5/2002, Rv.
222427; sez. 1 n. 4898 del 26/11/2008, Rv. 243346). Occorre, quindi, per
la sussistenza dell’aggravante in questione, una compiuta e rigorosa
dimostrazione dell’effettivo utilizzo del metodo mafioso, che non può essere
desunto dalla mera reazione delle vittime alla condotta tenuta dall’agente,
ma deve concretizzarsi in un comportamento oggettivamente idoneo ad

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3. Il ricorso proposto dal Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di

esercitare sulle vittime stesse una particolare coartazione psicologica che
presenti i caratteri propri dell’intimidazione derivante da un’organizzazione
criminale mafiosa (sez. 6 n. 21342 del 2/4/2007, Rv. 236628; sez. 6 n.
28017 del 26/5/2011, Rv. 250541). Ed ancora nella direzione indicata la
Corte, nell’annullare la sentenza della Corte d’appello, ha considerato non
sufficiente, sempre ai fini dell’integrazione della circostanza aggravante
dell’utilizzo del metodo mafioso, il mero collegamento con contesti di

26326 del 26/4/2007, Rv. 236861; sez. 2 n. 28861 del 14/6/2013, Rv.
256470).
Fatta questa premessa, rileva il Collegio che la Corte territoriale,
nella decisione impugnata, si è, correttamente, adeguata, nei limiti imposti
al giudice di rinvio, ai principi di diritto che erano stati affermati da questa
Corte di legittimità. Giova, al riguardo, ricordare che, in caso di
annullamento per difetto di motivazione, il giudice di rinvio rimane vincolato
soltanto all’obbligo di dare alla sentenza una motivazione adeguata ed
immune da vizi logici, con il divieto implicito di fondare la decisione sugli
stessi argomenti dei quali era stata dichiarata l’illogicità (sez. 5 n. 5248 del
27/3/1991, Rv. 187141). E nel caso di specie la Corte d’Appello di Torino ha
rilevato che gli unici elementi emersi nell’indagine di fatto volta a verificare,
sulla base dei principi sopra indicati, l’utilizzo da parte degli imputati del
metodo mafioso, erano costituiti dall’atteggiamento intimidatorio dello lana
e dal riferimento alla provenienza geografica degli amici con cui frequentava
il locale; elementi, questi, legittimamente, ritenuti insufficienti a ritenere la
condotta posta in essere aggravata ai sensi dell’art. 7 legge n. 203 del
1991, non essendo gli stessi risultati in alcun modo evocativi della forza
intinnidatrice derivante dal vincolo associativo mafioso.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Così deciso, il 13 dicembre 2013

Il C

liere estensore

Il Presidente

criminalità organizzata o la caratura mafiosa degli autori del fatto (sez. 6 n.

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