Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 1405 del 10/12/2013


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 1405 Anno 2014
Presidente: ESPOSITO ANTONIO
Relatore: DI MARZIO FABRIZIO

SENTENZA
Sul ricorso proposto da Cento Vincenzo, nato il 2.12.1959; Foti Andrea, nato
il 9.11.1962; Rosmini Antonino, nato il 10.12.1967; Russo Francesco, nato il
24.8.1973; Sconti Domenico, nato il 20.1.1957; Serraino Demetrio, nato il
28.6.1947; Suraci Domenico, nato il 30.4.1948; Tomaselli Antonino, nato il
30.6.1953; Tomasello Angelo, nato il 8.3.1949; Libri Pasquale, nato il
26.1.1939; Morabini Antonino, nato il 4.9.1959, avverso la sentenza della
Corte di Appello di Reggio Calabria del 7.2.2012. Sentita la relazione della
causa fatta dal consigliere Fabrizio Di Marzio; udita la requisitoria del sostituto
procuratore generale, Giovanni D’Angelo, il quale ha concluso chiedendo che
tutti i ricorsi siano rigettati; uditi i difensori degli imputati avv. Aurelio
Chizzoniti (per l’imputato Cento); Nico D’Ascola (per gli imputati Sconti e
Foti); Antonino Delfino (per gli imputati Foti, Sconti, Suraci e Tomaselli);
Francesco Calabrese (per gli imputati Russo, Serraino e Rosmini), Giuseppe
Nardo (per l’imputato Rosmini); Marino Punturieri (per l’imputato Russo), i
quali insistono per l’accoglimento dei ricorsi.

Data Udienza: 10/12/2013

RITENUTO IN FATTO
1. Con la sentenza in epigrafe la Corte di appello di Reggio Calabriadecidendo
– quale giudice di rinvio a seguito dell’annullamento, disposto da questa corte
con sentenza del 12 novembre 2009 n. 47314, della sentenza della medesima
corte di appello in data 9 luglio 2003 (ma depositata il 5 dicembre 2006) sugli appelli proposti dagli odierni imputati avverso la sentenza emessa in
data 9 novembre 2001 dal GUP del tribunale della medesima città, esclusa

l’aggravante dell’art. 629 comma 2 cod. pen. contestata a Russo Francesco,
concessa a quest’ultimo e a Morabini Antonino le circostanze attenuanti
generiche, rideterminate le pene per tutti gli imputati, ha confermato nel resto
la decisione impugnata in particolare ritenendo:
– colpevoli del reato di associazione di stampo mafioso descritto al capo A
dell’imputazione (avente ad oggetto una struttura armata di tipo mafioso in
adesione e in sintonia di scopi con la più ampia struttura denominata “cosche
mafiose federate Serraino-Condello-Rosmini”) Cento Vincenzo, Foti Andrea,
Rosmini Antonino, Russo Francesco, Sconti Domenico, Serraino Demetrio,
Suraci Domenico, Tomaselli Antonino, Tomasello Angelo;
– colpevoli del reato di associazione di stampo mafioso descritto al capo D
dell’imputazione (avente ad oggetto una struttura armata di tipo mafioso in
adesione ed in sintonia di scopi con la più ampia struttura denominata “cosche
mafiose federate Libri-Tegano-De Stefano”) Libri Pasquale e Morabini
Antonino.
2. Tutti gli imputati hanno presentato ricorso.
L’esposizione dei motivi presuppone una sintetica ricostruzione della
complessiva vicenda in cui il processo si colloca. Quest’ultima si avvia da una
serie di attività investigative svoltesi dal novembre del 1998 al giugno
dell’anno successivo – massimamente integrate da intercettazioni telefoniche
ed ambientali – predisposte per la cattura delle latitante Sarraino Demetrio.
All’esito delle investigazioni emerse l’esistenza di due associazioni di stampo
mafioso, descritte nei capi A e D dell’imputazione, entrambi operanti nel
territorio di Reggio Calabria. Taluni degli imputati dei reati associativi furono
giudicati secondo il rito ordinario, condannati in primo grado, ma mandati
assolti con riguardo alle citate ipotesi associative con sentenza della corte di
appello di Reggio Calabria del 9 luglio 2003 n. 771, decisione divenuta
irrevocabile il 27 aprile 2006. Gli odierni imputati, invece, prescelsero il rito
abbreviato. Con sentenza del 9 novembre 2001, n. 414, il GUP del Tribunale

l’aggravante di cui all’art. 416 bis comma 4 cod. pen. per tutti gli imputati, e

di Reggio Calabria condannò gli stessi anche con riguardo alle ipotesi dei reati
associativi. La corte di appello, con sentenza del 9 luglio 2003 n. 770,
depositata il 5 dicembre 2006 – ossia 7 mesi dopo l’intervenuta irrevocabilità
della sentenza n. 771- confermò sul punto la condanna di primo grado.
2.1. Proposti i ricorsi per cassazione, questa corte con sentenza del 12
novembre 2009 n. 47314 ha annullato la sentenza impugnata rinviando ad
altra sezione della Corte d’appello di Reggio Calabria per nuovo giudizio.

costituito dalla sentenza n. 771, e preso atto della doppia contrastante
decisione espressa dalle citate sentenze di merito circa l’intraneità
nell’associazione di stampo mafioso di cui al capo A dell’imputazione di Caridi
Giuseppe, ha infatti ritenuto questa corte che spettasse al giudice del merito
di verificare, attraverso una prova di resistenza logica, la fondatezza della
decisione di condanna alla luce della acclarata estraneità, con sentenza
passata in giudicato, del Caridi alla associazione di stampo mafioso rispetto
alla quale gli era stata contestata al contrario l’appartenenza, nonché alla luce
delle considerazioni svolte nella sentenza acquisita circa l’affidabilità delle
dichiarazioni dello stesso.
2.2. Con la sentenza oggi impugnata la Corte di appello di Reggio Calabria
parte dalla constatazione che gli odierni imputati, nei propri ricorsi, hanno
assunto che l’accertata inattendibilità del Caridi demolisca l’ipotesi accusatoria
avendone costituito il fulcro. Rileva tuttavia che il compendio istruttorio è
integrato anche da tutte le risultanze delle complesse indagini preliminari,
comprensive delle cartelle storico-biografiche di tutti gli imputati e dei
collaboratori escussi, delle dichiarazioni rese dall’imputato Cento nel corso
degli interrogatori del PM, dalle numerose informative dei carabinieri: e
dunque da un materiale che non poteva essere a disposizione nel giudizio
ordinario.
Rileva inoltre la corte territoriale che nella sentenza assolutoria è stata
espressamente riconosciuta la sussistenza delle due associazioni di stampo
mafioso contestate ai capi A e D, giacché sono state pronunciate assoluzioni
per non aver commesso il fatto: che dunque come tale sussiste. Ha inoltre
diffusamente argomentato (da p. 23 a p. 32) l’attendibilità delle
intercettazioni delle conversazioni del Caridi. Ha poi esposto, da p. 33 a p. 38
le ulteriori fonti di prova circa la colpevolezza degli odierni imputati. A tal
punto, presentata una sintetica rassegna sulla giurisprudenza formatasi
sull’articolo 416 bis cod. pen., ha ricostruito sulla base del materiale

Ritenuto ricevibile ai sensi dell’art. 238 bis cod. proc. pen. il documento

probatorio in atti la realtà delle associazioni mafiose contestate ai capi A e D.
Infine, ha esaminato le singole posizioni degli odierni imputati giungendo alla
decisione oggi impugnata.
3. Su questa premessa, è possibile riassumere i motivi di ricorso presentati
dagli imputati, esponendo innanzitutto le doglianze degli imputati
dell’associazione di cui al capo A dell’imputazione (associazione di stampo
mafioso operante in San Sperato e rappresentante la continuazione della

cosca “Serraino”).
3.1. Nel ricorso presentato nell’interesse di Tomaselli Antonino, Tomasello
Angelo e Foti Andrea si contestano violazione di legge in relazione agli articoli
192 e 530 cod. proc. pen. nonché 416 bis cod. pen. sotto il profilo dell’erronea
e distorta valutazione delle risultanze di causa, e segnatamente dei colloqui
intercorsi tra altre persone, in mancanza di una qualsiasi intercettazione di
comunicazione diretta degli stessi ricorrenti, e con riferimento alla
dichiarazione di responsabilità dei ricorrenti per tale fattispecie di reato. Si
lamenta inoltre mancanza di motivazione in ordine all’affermazione di
responsabilità, essendosi la corte di appello limitata ad un integrale
riferimento alla sentenza del tribunale ignorando le doglianze mosse nei
motivi di appello. Si lamenta infine travisamento dei fatti circa il contenuto
della sentenza acquisita ai sensi dell’art. 238 bis cod. proc. pen. della quale è
stato ignorato il significato. Si lamenta in particolare che la corte, nella
sentenza impugnata, si sia limitata a considerare soltanto la prima parte della
predetta sentenza, relativa al periodo temporale 1980-1990, ignorando
completamente la parte in cui la sentenza si è soffermata sull’esistenza di una
presunta cosca Tomaselli.
La critica investe il complessivo metodo di lettura delle emergenze
processuali. Si contesta che il quadro probatorio si incardini sulle dichiarazioni
del Caridi, soggetto di particolare ed acclarata inaffidabilità le cui dichiarazioni
non sono sorrette dai riscontri oltre a non essere verificate effettivamente
nella loro intrinseca credibilità. Si segnala inoltre come, rispetto ai tre
ricorrenti, siano state valorizzate conversazioni alle quali gli stessi non hanno
mai partecipato. Si aggiunge che almeno per alcune di dette intercettazioni sia
fortemente opinabile che il Caridi non fosse a conoscenza di essere
intercettato. Si rimarca che nella stessa sentenza impugnata questo soggetto
è riconosciuto incline alla esagerazione e scarsamente attendibile in quanto
affetto da megalomania. In concreto, si contesta la mancata indicazione di
modalità e circostanze in virtù delle quali si possa ritenere che i ricorrenti

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siano stati organicamente inseriti in una presunta cosca mafiosa di cui nella
sentenza acquisita agli atti si nega la stessa esistenza. A tal riguardo, da
pagina 11 pagina 24 del ricorso si riportano ampi stralci di detta sentenza. Si
critica che nella sentenza impugnata non siano state correttamente valutate le
dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, intrinsecamente non credibile
perché contraddittorie, contrastanti l’una rispetto all’altra e tutte prive di
riscontri. Così si dice, in particolare, circa le versioni contrastanti rese dai

siano state esplicitate le singole posizioni ricoperte nella asserita associazione
di stampo mafioso da parte degli odierni ricorrenti.
Con particolare riguardo alla posizione di Tomaselli Antonino si segnala
l’intervenuta assoluzione di Tomasello Antonio, fratello dello stesso, nonché di
altri componenti della famiglia, segnalando come ciò determini una illogicità
nella motivazione, che poggia su tale sfondo familiare la condanna per il reato
associativo circa l’odierno ricorrente. Si censura la mancanza di valutazione di
elementi a favore del ricorrente, dettagliatamente elencati a pagina 37-39 del
ricorso.
Con riguardo allaposizione di Foti Andrea si ribadiscono le censure già svolte,
con attenzione all’accreditamento selettivo delle dichiarazioni rese da taluni
collaboratori di giustizia, con critica dettagliata da pagina 39 a pagina 43 del
ricorso.
3.2. Nel secondo ricorso presentato, esclusivamente, nell’interesse di Foti
Andreasi contesta violazione di legge e vizio di motivazione innanzitutto con
riguardo al metodo di giudizio seguito nella sentenza impugnata, nella quale i
giudici si attardano a motivare sullo stato del Caridi, sulla mitomania dello
stesso, senza dare opportuno rilievo al fatto accertato con sentenza divenuta
irrevocabile che detto soggetto è stato giudicato estraneo all’associazione
contestata agli altri imputati. Trascurando tale inoppugnabile dato, si critica,
nella sentenza impugnata l’affidabilità del dichiarante è ricondotta proprio alla
vicinanza con `ndranghetisti come Serraino Demetrio. In tal modo, tuttavia, si
elude il confronto dialettico con la sentenza numero 771 della stessa corte
d’appello, in cui la vicinanza del dichiarante a Serraino Demetrio era stata
riconosciuta ma non giudicata sufficiente alla prova del fatto associativo. Si
stigmatizza che nella sentenza impugnata non sia stato dato rilievo alle
circostanze sollevate nei motivi nuovi circa l’assenza di affectiosocietatistra il
Caridi e Tomaselli Antonio; circa l’assenza di contributi forniti all’effettiva
costituzione e al rafforzamento della cosca; circa la mancanza di prove

collaboratori Munaò e Iannò. Si stigmatizza che nella sentenza impugnata non

sull’esistenza di una consorteria costruita intorno ai Tomasello/Tomaselli.
Anzi, si segnala, la sentenza confonderebbe la storica cosca Serraino
(confederata con quelle di Rosmini e Condello) con quella oggetto di
contestazione all’odierno imputato. Si critica che i giudici utilizzino le
dichiarazioni del Cento solo nella parte in cui si dice che vi era un gruppo
costituito da Suraci e Caridi, e non anche dove si afferma che a tale gruppo
non sarebbero appartenuti né i Tomasello, né Sconti Domenico e nemmeno il

motivi di appello incentrati sulla assenza di conoscenza fino al 28 maggio del
1999 tra Foti e Cento e sulla contraddittoria affermazione del Caridi circa una
riunione della consorteria nelle settimane precedenti a quello in cui i
menzionati soggetti si sarebbero effettivamente conosciuti. Si critica che la
corte di appello abbia omesso di indicare lo specifico contributo del ricorrente
all’associazione. Si lamenta che la corte di appello non abbia dato il giusto
rilievo all’assenza di intercettazioni a cui abbia partecipato l’odierno imputato,
trattandosi di elemento rilevante al fine di escludere la partecipazione dello
stesso alla asserita consorteria.
Dopo aver esposto, da pagina 8 a pagina 12 ulteriori elementi tratti dalle
intercettazioni non considerati dai giudici di appello, il ricorso si chiude con la
richiesta della declaratoria della intervenuta prescrizione del reato, contestato
a partire dal 10 gennaio 1997, e perciò prescritto nel febbraio 2012, essendo
ormai trascorsi 15 anni dal fatto.
3.3. Nel primo ricorso presentato nell’interesse di Sconti Domenico si
ribadiscono i motivi trattati nell’ultimo ricorso esaminato, precisando quanto
alla posizione del ricorrente, come dai dialoghi di Caridi e Suraci emergano
soltanto aspettative su di un coinvolgimento dello Sconti di cui non vi è prova
che sia mai avvenuto, limitandosi peraltro la sentenza impugnata a far leva
sul prestigio criminale del ricorrente e non su eventuali condotte partecipative
concretamente realizzate. Le dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia
Munaò e Iannò evidenzierebbero, inoltre, l’estraneità del ricorrente alla
consorteria a cui avrebbe preso parte, lo stesso si dice con riguardo alle
dichiarazioni di Cento Vincenzo.
3.4. Nel secondo ricorso presentato nell’interesse di Sconti Domenico si
ribadisce l’esposto motivo, comune a più ricorrenti, sulla violazione di legge in
relazione all’art. 416 bis cod. pen. non essendo stata individuata in sentenza
nè una concreta fattispecie di associazione criminale né la specificità della
condotta posta in essere dal ricorrente e risultando anche assente la prova

ricorrente. Si segnala come la corte territoriale non abbia dato risposta ai

circa la commissione di eventuali reati-fine in capo all’odierno ricorrente. In
un ulteriore motivo si lamenta violazione di legge e vizio di motivazione per
l’inosservanza del canone del rinvio, ribadendo le doglianze già esposte in altri
riscorsi circa l’estraneità del Caridi al panorama mafioso di San Sperato e
l’inattendibilità intrinseca ed estrinseca del dichiarante, affermate nella
sentenza di annullamento con rinvio e non tenute in considerazione nella
sentenza impugnata, invece fondata sulle dichiarazioni del Caridi. Si contesta

inoltre mancanza e manifesta illogicità della motivazione circa la penale
responsabilità dell’imputato ribadendo come lo stesso per oltre un anno non
abbia partecipato alle conversazioni oggetto di captazione, con ciò
nuovamente argomentando lamentele già illustrate con riguardo al precedente
ricorso e appuntando la critica sulla valorizzazione selettiva delle dichiarazioni
captate, sul misconoscimento di tutte le dichiarazioni che avrebbero potuto
risultare favorevoli all’odierno imputato, sull’affidabilità riservata alle
dichiarazioni non riscontrare dei collaboratori di giustizia.
In ordine alla entità della pena, si lamenta violazione di legge in relazione al
testo attuale, derivato dalla novellazione intervenuta ad opera della legge n.
251 del 2005, del 1 0 comma dell’art. 416 bis, allorché alla precedente
previsione sanzionatoria da 3 a 6 anni è stata sostituita quella attuale da 5 a
10 anni. Si osserva infatti che la normativa applicabile, in quanto più
favorevole, era quella inizialmente stabilita; si rileva tuttavia che la sentenza,
nel comminare anni 5 di reclusione, avrebbe applicato una pena illegittima
nella parte in cui indica il minimo edittale appunto non in anni 3 bensì in anni
5 di reclusione. Ne discenderebbe, secondo la difesa, che le pene accessorie
conseguenti risulterebbero determinate in misura illegittima.
3.5. Nel ricorso presentato nell’interesse di Suraci Domenico si espongono le
doglianze sulla violazione di legge in relazione alla individuazione
dell’associazione mafiosa contestata al capo A dell’imputazione, della quale
non vi sarebbe prova in atti eccettuate le conversazioni captate, perlopiù
riferibili al Caridi, criticate perché inattendibili e non riscontrare in atti. In un
ulteriore motivo si lamenta violazione di legge e vizio di motivazione per
l’inosservanza del canone del rinvio, ribadendo le doglianze già esposte in altri
riscorsi circa l’estraneità del Caridi al panorama mafioso di San Sperato e
l’inattendibilità intrinseca ed estrinseca del dichiarante, nonché l’assenza di
prova circa il fatto associativo con riguardo all’odierno ricorrente. Si
stigmatizza inoltre la sentenza di appello laddove fonda il giudizio sulla penale
responsabilità del ricorrente sulle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia,

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nonostante le contraddizioni e i contrasti evidenti in esse.
In ordine alla entità della pena, si lamenta violazione di legge in relazione al
testo attuale, derivato dalla novellazione intervenuta ad opera della legge
numero 251 del 2005, del 1 0 comma dell’art. 416 bis, secondo quanto già
lamentato nel ricorso appena esaminato. Si lamenta inoltre violazione di legge
circa il mancato riconoscimento di una associazione per delinquere piuttosto
che di una associazione di stampo mafioso; il mancato riconoscimento della

pacifico compositore rivestito dal ricorrente; il mancato adeguamento secondo
i parametri dell’art. 133 cod. pen. della entità della pena alla gravità del fatto.
3.6. Nel ricorso presentato nell’interesse di Serraino Demetrio e Russo
Francesco si contesta innanzitutto violazione di legge e vizio di motivazione
appuntando la critica sulle pagine 19 ss. della sentenza impugnata laddove si
afferma l’esistenza di una piattaforma probatoria più ampia di quella raccolta
nel giudizio svoltosi con rito ordinario ma non si fornisce adeguata
giustificazione su come le prove ulteriori abbiano effettivamente concorso a
formare la decisione della corte territoriale; laddove al contempo si afferma
(cfr. pagina 20) e si nega (cfr. pagina 35) l’attendibilità delle dichiarazioni
dell’imputato Cento. La critica, di seguito, involge l’affidabilità delle
dichiarazioni rese dal Caridi, secondo gli argomenti già esposti nei ricorsi in
precedenza trattati.
Con riguardo alla posizione di Serraino Demetrio si lamentano violazione di
legge e vizio di motivazione essendo stato il ricorrente condannato per il
medesimo delitto – per fatti commessi fino al marzo 2001 – nell’ambito di altro
procedimento penale con decisione divenuta definitiva; cosicché si sarebbe
realizzato un doppio giudizio sullo stesso fatto con violazione del divieto del ne

bis in idem. Si osserva come gli argomenti utilizzati dalla corte territoriale per
superare l’obiezione non sarebbero fondati, valorizzando aspetti collaterali
della imputazione -come il diverso ruolo asseritamente assunto dal ricorrente
nel primo e nel secondo caso sottoposto al giudizio, le intervenute mutazioni
nella stessa compagine criminale e la non perfetta coincidenza delle date a cui
sono riferite le condotte imputate, giudicandosi nel presente procedimento di
fatti fino al 9 novembre 2001 – senza considerare che il materiale probatorio
posto a base dei due processi sarebbe praticamente identico, tanto che la
corte territoriale non avrebbe indicato nessun elemento utile adar prova del
protrarsi della condotta oltre il marzo del 2001 e fino al successivo 9
novembre.

circostanza attenuante di cui all’art. 114 cod. pen. nonostante il ruolo di

Infine si contesta come non emerga nessuna prova della intraneità dei
ricorrenti alla supposta associazione e come non vi siano prove della
commissione del fatto contestato al capo P3 dell’imputazione al Russo.
3.7. Nel ricorso presentato, ancora, nell’interesse di Serraino Demetrio e poi
nell’interesse di Rosmini Antonio si lamenta violazione di legge e vizio di
motivazione per essere fondata la condanna di entrambi i ricorrenti sulle
propalazioni del Caridi – il quale afferma che il Serraino avrebbe assunto il

stato condannato; il quale dichiara la partecipazione del Rosmini alla cosca – si
rileva infatti come il Caridi sia stato accertato essere soggetto totalmente
inaffidabile, le cui dichiarazioni non avrebbero dovuto supportare condanna
alcuna. Al proposito si rileva come, oltre a tali propalazioni, le altre supposte
fonti probatorie sconosciute ai giudici del rito ordinario, a cui pure si riferisce
la corte di appello, non risultano essere state utilizzate nella decisione:
pertanto fondata unicamente sulle dichiarazioni del Caridi, senza nemmeno
prestare importanza al fatto obiettivo che i due ricorrenti non sono mai stati
fatti oggetto di intercettazione. In tutto ciò si ravvisa anche una violazione del
canone del rinvio.
Si ribadiscono inoltre, per entrambi gli imputati, le censure concernenti la
violazione del divieto del doppio giudizio, stigmatizzando la motivazione della
sentenza impugnata che ritiene di superare l’obiezione sull’argomento,
ritenuto meramente formalistico, della formale diversità dei capi di
imputazione tra il presente processo e il processo cosiddetto “Olimpia bis”,
definito con sentenza passata in giudicato di condanna di entrambi i ricorrenti
per i medesimi fatti oggi loro contestati, criticando l’argomento della corte
territoriale sulla non perfetta coincidenza temporaletra i fatti oggetto delle due
diverse sentenze, entrambe riferite all’anno 2001, ma nella sentenza in
giudicato fino al mese di marzo mentre nel processo in corso fino al mese di
novembre. Trattandosi infatti di imputazione aperta, rivolta a reati
caratterizzati dalla permanenza della condotta, il dato non dovrebbe essere
idoneo a immutare la realtà del fatto.
3.8. Nel secondo ricorso presentato nell’interesse di Rosmini Antonio si
contestano violazione di legge e vizio di motivazione sempre con riguardo al
divieto del ne bis in idem sulla scorta di argomenti sovrapponibili a quelli già
esposti. Si lamenta inoltre violazione di legge e vizio di motivazione circa il
giudizio sulla penale responsabilità dell’imputato, ritenendola fondata su
dichiarazioni dei collaboratori di giustizia non verificate nella loro credità

ruolo di capo di una organizzazione per la partecipazione alla quale era già

intrinseca e prive di riscontri esterni. Si segnala, peraltro, sia il contenuto non
chiaro delle intercettazioni sia l’assenza di prove ulteriori alle stesse circa la
intraneità del ricorrente alla supposta associazione di stampo mafioso; si
evidenziano anche le contraddizioni in cui sarebbero incorsi taluni collaboratori
di giustizia nel riferire sul ricorrente. Contraddizioni rinvenute nella
contrastanti affermazioni del Munaò (di aver ricevuto mandato dall’odierno
ricorrente per la gestione della locale di San sperato) e del Iannò (di aver

incontrato proprio nel periodo in contestazione l’odierno ricorrente, il quale gli
avrebbe manifestato un totale disinteressamento dichiarando di volersi
trasferire all’estero con la famiglia). Anche in tale ricorso si lamenta violazione
del canone del rinvio, specie con riguardo alla considerazione della sentenza
passata in giudicato ed acquisita ai sensi dell’art. 238 bis cod. proc. pen.
nella quale le dichiarazioni del Caridi sono state definitivamente screditate.
Infine si lamentano violazione di legge e vizio di motivazione per la mancata
concessione delle circostanze attenuanti generiche in ragione della
insufficiente motivazione sulla complessiva pericolosità delinquenziale del
ricorrente; si lamenta inoltre violazione dell’art. 133 cod. pen. circa la misura
della pena irrogata rispetto alle effettive circostanze del fatto giudicato.
3.9. Nel ricorso presentato nell’interesse di Cento Vincenzo si contesta vizio di
motivazione in ordine alla penale responsabilità dell’imputato siccome fondata
sulle dichiarazioni del Munaò, non attentamente vagliate nella sentenza
impugnata laddove il collaboratore afferma di non sapere nulla della asserita
associazione a cui avrebbe partecipato l’imputato; si evidenzia inoltre come
sia incompatibile con tale intraneitàil danneggiamento subito dall’imputato al
proprio esercizio commerciale, a giudizio del Caridi dovuto alla mancata
richiesta di permesso all’apertura dello stesso proprio nei confronti degli
‘ndranghetisti di cui l’odierno imputato sarebbe sodale. Anche indetto ricorso
si evidenzia l’assenza di prove circa l’esistenza dell’associazione e il contributo
alla stessa arrecato dal ricorrente.
3.10. Nel ricorso presentato nell’interesse di Libri Pasquale, imputato per la
associazione di cui al capo D dell’imputazione, si contestano mancanza,
contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in quanto la stessa si
fonda sulle dichiarazioni inaffidabili e non riscontrate del Caridi circa
l’interessamento dell’imputato alla locale di San Sperato. Si espongono le
stesse critiche già riferite sulla insufficienza del quadro probatorio siccome
imperniato intorno alle dichiarazioni del Caridi.
3.11. Morabini Antonino, anch’egliimputato per la associazione di cui al capo D

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dell’imputazione,presenta personalmente il suo ricorso lamentando violazione
di legge e vizio di motivazione per non essersi la corte di appello attenuta al
canone del rinvio non avendo saggiato la resistenza dell’ipotesi accusatoria
tenuto conto dell’avvenuta esclusione da parte del diverso giudice in capo al
Caridi del ruolo e della qualità di interno al supposto sodalizio. Nel ricorso si
dettagliano critiche sulla attendibilità del dichiarante alla stregua di quanto già
esposto. Si critica inoltre il rilievo dato dai giudici di merito alla dichiarazione

rimasto non identificato. Quanto ai contatti tra il ricorrente e Sconti
Domenico, si lamenta che la corte di appello non abbia considerato le
dichiarazioni del coimputato Cento, il quale ha chiarito che tali contatti erano
giustificati da pregressi rapporti di debito-credito intercorrenti tra i due e non
dalla presunta ingerenza della cosca Libri nel territorio di San Sperato. Si
critica inoltre che il presunto ruolo di ambasciatore tra gli appartenenti ai
sodalizi criminali asseritamente svolto dal ricorrente non abbia trovato
conferma nelle dichiarazioni di Munaò, che pur ricordando le ambasciate, allo
stesso modo del collaboratore Iannò ha dichiarato di non conoscere il
ricorrente.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. I ricorsisonomanifestamente infondati.
2. È opportuno, prima di passare all’esame dei motivi di ricorso, richiamare il
contenuto saliente della sentenza di annullamento. In essa questa corte,
ritenuta la piena utilizzabilità degli esiti delle intercettazioni telefoniche,
ritenuto altresì ricevibile ai sensi dell’art. 238 bis cod. proc. pen. il documento
costituito dalla sentenza n. 771 – trattandosi di documento rilevante che
l’interessato non era stato posto in grado di esibire in precedenza – ha
concentrato la propria argomentazione sul tema della doppia contrastante
decisione espressa dalle citate sentenze di merito circa l’intraneità
nell’associazione di stampo mafioso di cui al capo A dell’imputazione di Caridi
Giuseppe. Questi, giudicato con il rito ordinario, fu assolto “per non aver
commesso il fatto”. Si legge nella sentenza della corte d’appello che l’imputato
è certamente un soggetto malavitoso, molto vicino agli ambienti mafiosi ed
affascinato dagli stessi, e tuttavia non sarebbe stata acquisita una prova
sufficiente circa la effettiva partecipazione del Caridi alla associazione
descritta al capo A dell’imputazione. Al contrario, la sentenza pronunciata
all’esito del rito abbreviato si fonda in misura decisiva sugli esiti delle
intercettazioni ambientali captate nella autovettura di quell’imputato; e sulla

secondo cui il ricorrente sarebbe stato fatto “malandrino”, resa da soggetto

valutazione di genuinità e di elevata valenza probatoria riferite alle
conversazioni captate.
Sulla portata e sui limiti della assoluzione del Caridi con sentenza irrevocabile,
questa corte ha osservato che: “nel vigente ordinamento processuale non
esiste alcuna disposizione in ordine alla efficacia del giudicato, formatosi
nell’ambito di altro procedimento penale, a differenza di quanto avviene
relativamente ai rapporti fra processo penale e processo civile, amministrativo

L’art. 238 bis c.p.p., infatti, si limita a consentire l’acquisizione in dibattimento
di sentenze divenute irrevocabili, ma dispone che esse siano valutate a norma
dell’art. 187 c.p.p. e art. 192 c.p.p., comma 3, “ai fini della prova del fatto in
esse accertato” Sez. 6^, 4 marzo 1996, Barletta).
Ancor più perentoriamente si è statuito che l’acquisizione agli atti del
procedimento, alla stregua di quanto previsto dall’art. 238 bis c.p.p., di
sentenze divenute irrevocabili non comporta, per il giudice di detto
procedimento, alcun automatismo nel recepimento e nell’utilizzazione a fini
decisori dei fatti nè, tanto meno, dei giudizi di fatto contenuti nei passaggi
argomentativi della motivazione delle suddette sentenze, dovendosi al
contrario ritenere che quel giudice conservi integra l’autonomia e la libertà
delle operazioni logiche di accertamento e formulazione di giudizio a lui
istituzionalmente riservate (cfr. ancora: sez. 6^, 14096/2007, Iaculano; Sez.
1^, 16 novembre 1998, Hass).
Pertanto, le risultanze di un precedente giudicato penale, acquisite ai sensi
dell’art. 238 bis c.p.p., devono essere valutate alla stregua della regola
probatoria di cui all’art. 192 c.p.p., comma 3, ovvero come elemento di prova
la cui valenza, per legge non autosufficiente, deve essere corroborata da altri
elementi di prova che lo confermino.
Più di recente (Cass. Pen. sez. 6^, 42799/2008, Campesan) si è anche
affermato che tali sentenze sono valutate al pari delle dichiarazioni dei
coimputati del medesimo procedimento o in procedimento connesso,
attraverso la verifica dei necessari riscontri che possono eventualmente
consistere in elementi di prova sia rappresentativa che logica.
Infine, la locuzione “fatto accertato” con sentenza irrevocabile va riferita, non
solo alla statuizione contenuta in dispositivo, ma anche alle acquisizioni di
fatto risultanti dalla motivazione del provvedimento (cfr. Cass. Pen. sez. 6^,
14096/2007, Iaculano; sez. 6^ Sez. 1^, 20 maggio 1997, Bottaro).
Ne discende che, una volta acquisite ai sensi dell’art. 238-bis c.p.p., le

e disciplinare.

sentenze irrevocabili sono valutabili entro i limiti ben precisi indicati dall’art.
187 c.p.p. e art. 192 c.p.p., comma 3;pertanto il giudice, perchè tali sentenze
assurgano a dignità di prova nel diverso processo penale al quale vengono
acquisite, deve, in primo luogo, nel contraddittorio delle parti, accertare la
veridicità dei fatti ritenuti come dimostrati dalle dette sentenze e rilevanti ex
art. 187 c.p.p., salva la facoltà dell’imputato di essere ammesso a provare il
contrario; del pari, su richiesta dell’accusa, il giudice dovrà acquisire al

dibattimento, nel contraddittorio delle parti, gli elementi di prova – costituiti
da riscontri esterni individualizzanti – che confermino la veridicità dei fatti,
accertati nelle sentenze irrevocabili acquisite e che divengano, in tal modo,
fonti di prova del reato, per cui si procede, sicchè sulla base delle esposte
premesse non è ipotizzabile alcuna violazione del principio della terzietà del
giudice nè di quello del diritto di difesa (cfr. in termini la citata sentenza,
14096/2007, Iaculano; conforme; Sez. 1^, 26 maggio 1995, Ronch, e S.U.
33748/2005 Mannino).
In altre parole, la sentenza divenuta irrevocabile ed acquisita come
documento non ha efficacia vincolante, ma va liberamente apprezzata dal
giudice di merito, unitamente agli altri elementi di prova (Cass. pen. Sez. 3,
8823/2009 Rv. 242767, Bagarella)”.
Così disegnato il perimetro del giudizio da svolgersi, questa corte ha concluso
che: “E’ quindi evidente, in tale indicato contrasto, frutto di antipodiche
letture del pressocchè identico e sovrapponibile materiale processuale, che
non può competere al giudice di legittimità una “verifica di resistenza” o di
“indifferenza” della decisione di responsabilità, nata in un contesto di rito
abbreviato, a fronte di una sostenuta ed argomentata perdita radicale di
attendibilità intrinseca ed estrinseca, dichiarata nel diverso giudizio ordinario,
e che ha riguardato la fonte probatoria che domina e fonda l’esito di
colpevolezza dei soli sodali che hanno optato per il rito ordinario.
Nè può sostenersi che in tal modo si verrebbero a privilegiare sul piano della
sanzione le scelte di coloro che hanno optato per il rito abbreviato, tenuto
conto della diversità dei dati processuali utilizzabili nei due riti, e considerato
altresì che, nella specie, per una singolare convergenza di circostanze, anche
temporali, vi è stata una eccezionale forbice cronologica tra le due decisioni
sulla medesima imputazione (difficilmente ripetibile) e che, in sede di rito
ordinario, l’istruttoria dibattimentale, sollecitata dalle parti pubblica e privata,
ha recuperato e colmato le “aporie cognitive” rispetto al rito speciale”.
Circa il giudizio di rinvio dopo l’annullamento, nella sentenza in esame questa

13

corte ha ulteriormente chiarito che: “vanno richiamate le recenti
considerazioni sviluppate dalla Corte costituzionale (sentenza 29/2009), la
quale, sul tema della sentenza irrevocabile, acquisita ex art. 238 bis c.p.p., ha
stabilito che la portata del principio del contraddittorio, nella formazione della
prova, va individuata in considerazione della specificità dei singoli mezzi di
prova stessi, considerato che la decisione, irrevocabile, se non può essere
apprezzata come un documento in senso proprio, poichè si caratterizza per il

fatto di contenere un insieme di valutazioni, di un materiale probatorio
acquisito in un diverso giudizio, non può neppure essere equiparata alla prova
orale.
In relazione alla specifica natura della sentenza irrevocabile, quindi, il
principio del contraddittorio trova il suo naturale momento di esplicazione non
tanto in ordine “all’an dell’acquisizione”, superato nella specie dalla decisione
di questa Corte, ma in quello successivo della valutazione e utilizzazione.
Acquisita la sentenza e disposto l’annullamento con rinvio del provvedimento
impugnato, le parti – pubblica e private – rimangono cosi libere di indirizzare
la critica, in contraddittorio avanti al giudice di merito, in funzione delle
rispettive esigenze di verità.
Con l’annotazione che tale critica, ai fini della valutazione e utilizzazione in
questione, dovrà tenere conto del tipo di procedimento (nella specie di rito
ordinario), in cui la sentenza acquisita è stata pronunciata e, quindi, anche del
contraddittorio in esso svoltosi.
Come chiaramente argomentato dalla Corte delle leggi, la scelta del
legislatore, di consentire al giudice di apprezzare liberamente l’apporto
probatorio, scaturente dagli esiti di altro processo, conclusosi con sentenza
irrevocabile, e così di permettere correlativamente alle parti di utilizzare,
come elementi di prova, i risultati che da quella sentenza sono emersi – nel
quadro delle prospettive s’eventualmente contrapposte, da misurare nel
contraddittorio dibattimentale – si salda logicamente alla scomparsa, nel
nuovo sistema processuale, della pregiudiziale penale”.
In altri termini, conclude la sentenza “al giudice di rinvio è affidato il compito
di saggiare la resistenza dell’ipotesi accusatoria, tenuto conto dell’avvenuta
esclusione (da parte del giudice diverso), in capo al “parlante Caridi”, del
ruolo e della qualità di intraneo al sodalizio, correlando le affermazioni, rese e
documentate, dei protagonisti, alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia,
in particolare MunaòUmberto e Iannò Paolo, nonchè alle dichiarazioni
dell’imputato Cento Vincenzo ed agli altri elementi del compendio processuale

14

quale offerto dalla peculiarità del rito ed utilizzate, in concreto, dal giudice
della condanna per la pronuncia di colpevolezza”.
3. A tal punto, occorre ulteriormente premettere che, secondo un
orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, a seguito di annullamento
per vizio di motivazione, il giudice di rinvio, benché sia obbligato a giustificare
il suo convincimento secondo lo schema implicitamente o esplicitamente
enunciato nella sentenza rescindente, decide con i medesimi poteri che aveva

divieto di ripetere i vizi già censurati in sede di giudizio rescindente e di
conformarsi all’interpretazione ivi data alle questioni di diritto, e nell’obbligo di
non fondare la decisione sulle argomentazioni già ritenute incomplete o
illogiche. Inoltre, il giudice del rinvio non è tenuto ad esaminare solo i punti
specificati, isolandoli dal residuo materiale probatorio, ma mantiene,
nell’ambito dei capi colpiti dall’annullamento, piena autonomia di giudizio nella
ricostruzione del fatto, nell’individuazione e valutazione dei dati, nonché il
potere di desumere, anche aliunde – e dunque eventualmente sulla base di
elementi trascurati dal primo giudice – il proprio libero convincimento,
colmando, in tal modo, i vuoti motivazionali segnalati ed eliminando le
incongruenze rilevate (cfr., nei medesimi sensi, Sez. 6^, n. 42028 del 4
novembre 2010, Regine, rv. 248738;sez. 4^, n. 43720 del 14 ottobre 2003,
Colao, rv. 226418; sez. 5^, n. 4761 del 18 gennaio 1999, Munari, rv.
213118; sez. 6^, n. 9476 dell’8 ottobre 1997, Bandera ed altri, rv. 208783;
sez. 1^, n. 1397 del 10 dicembre 1997, dep. 5 febbraio 1998, Pace ed altri,
rv. 209692). A seguito di annullamento per vizio di motivazione, il giudice di
rinvio è, pertanto, vincolato dal divieto di reiterare, a fondamento delle nuova
decisione, gli stessi argomenti ritenuti illogici o carenti dalla Corte di
cassazione, ma resta libero di pervenire, sulla scorta di argomentazioni
diverse da quelle censurate in sede di legittimità, ovvero integrando e
completando quelle già svolte, allo stesso risultato decisorio della pronuncia
annullata. Ciò in quanto spetta esclusivamente al giudice di merito il compito
di ricostruire i dati di fatto risultanti dalle emergenze processuali e di
apprezzare il significato e il valore delle relative fonti di prova, senza essere
condizionato da valutazioni in fatto eventualmente sfuggite al giudice di
legittimità nelle proprie argomentazioni, essendo diversi i piani su cui operano
le rispettive valutazioni e non essendo compito della Corte di cassazione di
sovrapporre il proprio convincimento a quello del giudice di merito in ordine a
tali aspetti.

il giudice il cui provvedimento è stato annullato: gli unici limiti consistono nel

Del resto, ove la Suprema Corte soffermi eventualmente la sua attenzione su
alcuni particolari aspetti da cui emerga la carenza o la contraddittorietà della
motivazione, ciò non comporta che il giudice di rinvio sia investito del nuovo
giudizio sui soli punti specificati, poiché egli conserva gli stessi poteri che gli
competevano originariamente quale giudice di merito relativamente
all’individuazione ed alla valutazione dei dati processuali, nell’ambito del capo
della sentenza colpito da annullamento (cfr. nel medesimo senso anche Sez.

4^, n. 30422 del 21 giugno 2005, Poggi, rv. 232019; Sez. 6^, n. 16659 del
21 genanio 2009, Muto, rv. 243514).
4. Infine, sui denunciati vizi di motivazione va osservato, sempre in premessa,
che questa Corte ha ripetutamente affermato che ricorre il vizio di
motivazione illogica o contraddittoria solo quando emergono elementi di
illogicità o contraddizioni di tale macroscopica evidenza da rivelare una totale
estraneità fra le argomentazioni adottate e la soluzione decisionale (Cass. 25
maggio 1995, n. 3262). In altri termini, occorre che sia mancata del tutto, da
parte del giudice, la presa in considerazione del punto sottoposto alla sua
analisi, talché la motivazione adottata non risponda ai requisiti minimi di
esistenza, completezza e logicità del discorso argomentativo su cui la
decisione è fondata e non contenga gli specifici elementi esplicativi delle
ragioni che possono aver indotto a disattendere le critiche pertinenti dedotte
dalle parti (Cass. 15 novembre 1996, n. 10456).
Queste conclusioni restano ferme pur dopo la legge n. 46 del 2000 che,
innovando sul punto l’art. 606 lett. e) c.p.c., consente di denunciare i vizi di
motivazione con riferimento ad “altri atti del processo”: alla Corte di
cassazione resta comunque preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a
fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi o
diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, ritenuti
maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa,
dovendosi essa limitare a controllare se la motivazione dei giudici di merito sia
intrinsecamente razionale e capace di rappresentare e spiegare l’iter logico
seguito, (ex plurimis: Cass. 1° ottobre 2008 n. 38803). Quindi, pur dopo la
novella, non hanno rilevanza le censure che si limitano ad offrire una lettura
alternativa delle risultanze probatorie, dal momento che il sindacato della
Corte di cassazione si risolve pur sempre in un giudizio di legittimità e la
verifica sulla correttezza e completezza della motivazione non può essere
confusa con una nuova valutazione delle risultanze acquisite. La Corte, infatti,
deve limitarsi a verificare se la giustificazione del giudice di merito sia

16

compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di
apprezzamento (v. Cass. 3 ottobre 2006, n. 36546; Cass. 10 luglio 2007, n.
35683; Cass. 11 gennaio 2007, n. 7380) e tale da superare il limite del
ragionevole dubbio. La condanna al là di ogni ragionevole dubbio implica,
infatti, in caso di prospettazione di un’alternativa ricostruzione dei fatti, che
siano individuati gli elementi di conferma dell’ipotesi ricostruttiva accolta, in
modo da far risultare la non razionalità del dubbio derivante dalla stessa

fondarsi su un’ipotesi alternativa del tutto congetturale seppure plausibile (v.
Cass. sez. IV, 17.6.2011, n. 30862; sentenza Sezione 1^, 21 maggio 2008,
Franzoni, rv. 240673; anche Sezione 4^, 12 novembre 2009, Durante, rv.
245879).
La motivazione è invece mancante non solo nel caso della sua totale assenza,
ma anche quando le argomentazioni addotte dal giudice a dimostrazione della
fondatezza del suo convincimento siano prive di completezza in relazione a
specifiche doglianze formulate dall’interessato con i motivi d’appello e dotate
del requisito della decisività (Cass. 17 giugno 2009, n. 35918).
5. Come si espone di seguito, nessuno di tali vizi ricorre nel caso di specie, dal
momento che il giudice di appello ha svolto un ragionamento argomentativo
coerente, completo e privo di discontinuità logiche giungendo per tale via ad
una adeguata ricostruzione dei fatti e a una corretta qualificazione giuridica
degli stessi.
6. In merito alle dichiarazioni del Caridi, contestate in tutti i ricorsi in esame,
deve rilevarsi quanto segue.
Innanzitutto, la corte di appello chiarisce (a pagina 21) come anche nella
sentenza acquisita non si sconfessi in nessun modo l’esistenza delle due
associazioni di stampo mafioso oggetto del presente processo, bensì si
esclude soltanto che i soggetti giudicati abbiano preso parte a tali
associazioni, come esplicitato dalle formule assolutorie ricordate anche nella
sentenza di rinvio.(Le contrarie affermazioni contenute in taluni ricorsi sono
dunque manifestamente destituite di qualsivoglia fondamento).
Nella sentenza impugnata si chiarisce inoltre come dall’esame degli atti risulti,
secondo quanto già acclarato nella sentenza acquisita, che il dichiarante è
soggetto tendente alla esagerazione e a manifestazioni di megalomania. Alla
luce di tale constatazione la corte di appello ha dichiarato il metodo seguito
nella valutazione delle dichiarazioni di tale soggetto. In tal senso ha osservato
che,pur non potendosi escludere, in radice, esagerazioni e menzogne, laddove

ipotesi alternativa, con la precisazione che il dubbio ragionevole non può

il colloquio abbia avuto come temi questioni di non grande rilievo, devono
ritenersi insussistenti ragioni per mentire; lo stesso deve ritenersi nel caso in
cui tra i conversanti vi fosse un rapporto di sicura fiducia; e così pure nei casi
in cui la stessa questione è riferita in modo eguale a più interlocutori in tempi
diversi; e infine nei casi in cui il contenuto delle dichiarazioni ha carattere
autoaccusatorio (v. pagine 23-32).
A riscontro delle dichiarazioni di tale soggetto, la corte di appello adduce il

narrato di alcuni collaboratori di giustizia sentiti sugli stessi fatti, nonché le
affermazioni, in pari misura convergenti (v. pagine 32-35), dell’imputato
Cento Vincenzo (v. pagine 35-32).
Cosicché, e concludendo sul punto, pur rilevandosi una tendenza caratteriale
all’esagerazione dei fatti e alla megalomania, il Caridi è ritenuto credibile.
Ciò posto, la corte di appello ricostruisce sulla scorta delle intercettazioni
riscontrate dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e dell’imputato
Cento l’esistenza delle due associazioni di stampo mafioso per cui è causa (v.
pagine 44-55); la compartecipazione in esse degli odierni imputati (v. pagine
55-123).
Sulle dichiarazioni del Cento, deve essere messo in evidenza come la corte di
appello – aspramente criticata nei ricorsi per averne valorizzato soltanto una
parte – dia logicamente conto dell’accreditamento di talune delle stesse
piuttosto che di tutte, segnalando come degne di affidabilità debbano essere
considerate le dichiarazioni rese dal soggetto intercettato e ignaro di essere
ascoltato, diversamente da quelle rese dallo stesso imputato in sede di
indagini preliminari, essendosi egli rivelato evidentemente interessato a
salvaguardare la posizione di taluno dei coimputati oltre che di se stesso per
ragioni di amicizia e gratitudine dettagliatamente indicate nella motivazione
impugnata.
A fronte di tale motivazione, diffusamente svolta dalla corte di appello previa
puntuale indicazione delle singole fonti di prova, dei fatti per come emersi
nelle conversazioni captate e confermati, negli aspetti essenziali, nelle
dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e dell’imputato Cento, nei ricorsi si
svolgono critiche di natura esclusivamente fattuale, mai involgenti la tenuta
logica della motivazione impugnata alla quale si rimprovera, essenzialmente,
di discostarsene dalle conclusioni raggiunte, per altri imputati, nella sentenza
acquisita agli atti. Per corroborare tale critica si adducono numerosi argomenti
di fatto volti a segnalare una serie di circostanze ritenute favorevoli per i
ricorrenti ma non considerate in modo soddisfacente per le difese nella

18

sentenza impugnata. Soltanto che, secondo la giurisprudenza di questa corte,
in tema di prova di delitti maturati nell’ambito di organizzazioni criminali di
tipo mafioso, le eventuali smagliature e discrasie, anche di un certo rilievo,
rilevabili nelle dichiarazioni accusatorie rese dai collaboratori di giustizia, sia al
loro interno, sia nel confronto tra esse, non implicano, di per sé, il venir meno
della loro affidabilità, quando, sulla base d’adeguata motivazione, risulti
dimostrata la loro complessiva convergenza nei nuclei fondamentali (Cass.

criticata esclusivamente sulla ricostruzione dei fatti e perciò
inammissibilmente nei ricorsi in esame.
In tale contesto, sulle doglianze sollevate circa le condotte tenute dai
ricorrenti sia con riguardo alla partecipazione degli stessi al sodalizio sia con
riguardo alla mancata individuazione circa la commissione di reati-fine, va
puntualizzato come le stesse siano manifestamente infondate in quanto in
tema di reati associativi, il “themadecidendum” riguarda la condotta di
partecipazione o direzione, con stabile e volontaria compenetrazione del
soggetto nel tessuto organizzativo del sodalizio: ne consegue che le
dichiarazioni dei collaboratori o l’elemento di riscontro individualizzante non
devono necessariamente riguardare singole attività attribuite all’accusato,
giacché il “fatto” da dimostrare non è il singolo comportamento dell’associato
bensì la sua appartenenza al sodalizio (Cass. sez. II, 3.5.2012, n. 23687).
Va a tale riguardo osservato, insistendo sul punto diversi ricorsi in esame,
come la mancanza di una qualsiasi intercettazione in cui i ricorrenti
interloquiscono con altri soggetti sui fatti di causa è di per sé dato del tutto
irrilevante ai fini dell’accertamento della penale responsabilità, qualora la
stessa sia suffragata da idonei riscontri probatori: come impeccabilmente
argomenta la corte di appello nel caso di specie.
7. Ciò posto, sugli ulteriori motivi specificamente sollevati nei singoli ricorsi,
va osservato quanto segue.
7.1. Nei ricorsi presentati da Tomaselli Antonino, Tomasello Angelo e Foti
Andrea, si critica il metodo espositivo con rinvio alla decisione di primo
gradosenza attenta valutazione dei motivi di appello. È sufficiente tuttavia
ribadire come sia consolidato orientamento di questa Corte che la motivazione
per relationem sia legittima «quando: 1) – faccia riferimento, recettizio o di
semplice rinvio, a un legittimo atto del procedimento, la cui motivazione risulti
congrua rispetto all’esigenza di giustificazione propria del provvedimento di
destinazione; 2) – fornisca la dimostrazione che il giudice ha preso cognizione

sez. I, 18.9.2008, n. 42990): come è riscontrabile nella sentenza impugnata,

del contenuto sostanziale delle ragioni del provvedimento di riferimento e le
abbia meditate e ritenute coerenti con la sua decisione; 3) – l’atto di
riferimento, quando non venga allegato o trascritto nel provvedimento da
motivare, sia conosciuto dall’interessato o almeno ostensibile, quanto meno al
momento in cui si renda attuale l’esercizio della facoltà di valutazione, di
critica ed, eventualmente, di gravame e, conseguentemente, di controllo
dell’organo della valutazione o dell’impugnazione». (Cfr., per tutte, Cass. Sez.

specie la corte territoriale, nel confermare la decisione impugnata, ha prima
rinviato alla esposizione dei fatti contenuta nella sentenza impugnata, con
particolare riguardo al contenuto delle intercettazioni telefoniche, per poi
svolgere una dettagliata motivazione circa la intraneità dei ricorrenti alla
associazione di cui al capo A dell’imputazione (per Foti cfr. pagina 64-69; per
Tomaselli Antonino e Tomasello Angelo cfr. pagine 112-123).
Va ribadito che nei due ricorsi le critiche non superano la soglia del fatto,
senza mai evidenziare né effettive violazioni di legge e nemmeno vizio alcuno
di motivazione.
Quanto, infine, al rilievo sollevato nell’interesse di Foti circa l’intervenuta
prescrizione del reato per il decorso del termine di anni 15 dal gennaio 1997,
la manifesta infondatezza dello stesso emerge dalla semplice lettura del capo
d’imputazione, in cui la condotta è contestata non fino al 1997 bensì a partire
dall’anno 1997, ed è dichiarata come ancora in atto al momento della
formulazione del capo d’imputazione.
7.2. Quanto ai ricorsi presentati nell’interesse di Sconti Domenico, richiamate
le superiori osservazioni, è sufficiente rilevare come la corte territoriale
ricostruisca la penale responsabilità dello stesso nelle pagine 91-99 della
sentenza, specificamente precisando come da numerose intercettazioni
telefoniche emerga il ruolo del ricorrente quale punto di riferimento del clan
Serraino nelle vicende oggetto del presente giudizio. Nei ricorsi si articolano,
sul punto, critiche meramente fattuali oppure volte a contestare con diversa
interpretazione il contenuto delle intercettazioni telefoniche: con critiche,
pertanto, che non si emancipano dal livello del fatto, di inammissibile
valutazione in questa sede di legittimità.
Il motivo sulla violazione di legge in ordine al trattamento sanzionatorio è
manifestamente infondato come emerge dalla stessa lettura della pagina 99
della sentenza impugnata, in cui si da atto come la pena principale sia
compresa tra 3 e 5 anni di reclusione, e non, come affermato nel ricorso con

Un. Sentenza n. 17 del 21.6.2000 dep. 21.09.2000 Rv. 216664). Nel caso di

pena base di anni 5 di reclusione; cosicché il riferimento alla pena base ivi
contenuto è con ogni evidenza pertinente non alla misura edittale bensì al
trattamento sanzionatorio in concreto irrogato, il quale ultimo è chiaramente
ricompreso nella forbice edittale applicabile rationetemporis al caso di specie.
Per il resto, sul trattamento sanzionatorio, comunque ritenuto eccessivo, deve
rilevarsi che il giudice d’appello, con motivazione congrua ed esaustiva, anche
previo specifico esame degli argomenti difensivi attualmente riproposti, è

giunto a una valutazione di merito come tale insindacabile nel giudizio di
legittimità, quando – come nel caso di specie – il metodo di valutazione delle
prove sia conforme ai principi giurisprudenziali e l’argomentare scevro da vizi
logici (Cass. pen. sez. un., 24 novembre 1999, Spina, 214794), rilevando in
particolare la sussistenza di precedenti penali (che fanno escludere
l’applicabilità delle circostanze attenuanti generiche), la prognosi negativa
sulla personalità dell’imputato e la proporzione della pena inflitta alla gravità
del fatto commesso (incentrato, piuttosto che nel ruolo di pacifico compositore
preteso dalla difesa, ai fini dell’applicazione dell’art. 114 cod. pen., in un ruolo
primario dell’imputato nel contesto mafioso: il quale accertamento di fatto
esclude in radice l’applicabilità dell’invocata circostanza, peraltro già
inapplicabile in riferimento al reato associativo secondo la condivisibile
giurisprudenza di Cass. Sez. II, 21.9.2011, n. 36538).
Del resto questa Corte ha chiarito che in sede di legittimità non è censurabile
una sentenza per il suo silenzio su una specifica deduzione prospettata col
gravame quando la stessa è disattesa dalla motivazione della sentenza
complessivamente considerata. Pertanto, per la validità della decisione non è
necessario che il giudice di merito sviluppi nella motivazione la specifica ed
esplicita confutazione della tesi difensiva disattesa, essendo sufficiente per
escludere la ricorrenza del vizio che la sentenza evidenzi una ricostruzione dei
fatti che conduca alla reiezione della deduzione difensiva implicitamente e
senza lasciare spazio ad una valida alternativa. Sicché, ove il provvedimento
indichi con adeguatezza e logicità quali circostanze ed emergenze processuali
si sono rese determinanti per la formazione del convincimento del giudice, sì
da consentire l’individuazione dell’iter logico-giuridico seguito per addivenire
alla statuizione adottata, non vi è luogo per la prospettabilità del denunciato
vizio di preterizione. (Cass. Sez. 2 sent. n. 29434 del 19.5.2004 dep.
6.7.2004 rv 229220).
Per questi rilievi, deve concludersi che la determinazione in concreto della
pena costituisce il risultato di una valutazione complessiva e non di un giudizio

21

analitico sui vari elementi offerti dalla legge, sicché l’obbligo della motivazione
da parte del giudice dell’impugnazione deve ritenersi compiutamente
osservato, anche in relazione alle obiezioni mosse con i motivi d’appello,
quando egli, accertata l’irrogazione della pena tra il minimo e il massimo
edittale, affermi di ritenerla adeguata o non eccessiva. Ciò dimostra, infatti,
che egli ha considerato sia pure intuitivamente e globalmente, tutti gli aspetti
indicati nell’art. 133 cod. pen. ed anche quelli specificamente segnalati con i

motivi d’appello. (Cass. Sez. 6, sent. n. 10273 del 20.5.1989 dep. 12.7.1989
rv 181825. Conf. mass. N. 155508; n. 148766; n. 117242).
7.3. Per il ricorso presentato nell’interesse di Suraci Domenico, articolato sulle
esposte doglianze circa l’esistenza dell’associazione di cui al capo A
dell’imputazione e la pretesa violazione del canone del rinvio, già trattate nei
punti che precedono, è sufficiente segnalare come il giudizio sulla penale
responsabilità del ricorrente, condotto le pagine 106-112 della sentenza
impugnata secondo i criteri già illustrati come conformi a diritto e alle regole
della logica argomentativa, è fatto oggetto di contestazione soltanto in punto
di fatto: pertanto, in maniera di inammissibile valutazione in questa sede di
legittimità. Circa la mancata applicazione della circostanza attenuante di cui
all’art. 114 cod. pen., puntualmente motiva la corte territoriale alla pagina
112 sulla giurisprudenza di questa corte – appena richiamata – per cui la
circostanza attenuante della partecipazione di minima importanza non trova
applicazione in riferimento al reato associativo.
In merito al trattamento sanzionatorio, sulla legalità della pena vale quanto
già osservato in ordine al ricorso precedente; circa la determinazione concreta
della stessa vale la compiuta motivazione resa dalla corte di appello sul
passato criminale del reo (ostativo al riconoscimento delle circostanze
attenuanti generiche) e sulla prognosi di pericolosità sociale dello stesso,
attesa anche l’importanza del contributo arrecato alla vita associativa.
7.4. Anche per il ricorso presentato nell’interesse di Serraino Demetrio e
Russo Francesco vale quanto già esposto in ordine alla conformità a diritto e
alla completezza e logicità della motivazione della sentenza impugnata in
ordine al giudizio sulla penale responsabilità dei prevenuti, condotto alle
pagine 100-106 per il primo e alle pagine 85-91 per il secondo (dove la
responsabilità riguardo al delitto contestato al capo P3 dell’imputazione è
compiutamente argomentata alle pagine 89-90). E così pure nella
considerazione sulla manifesta infondatezza delle censure mosse dei ricorrenti
siccome involgenti il piano del fatto.

22

Quanto alla motivo sulla violazione del principio del ne bis in idem circa la
posizione del Serraino, l’infondatezza dello stesso risulta dalla motivazione
della sentenza impugnata alle pagine 103-104, ove si premette il carattere
“aperto” della contestazione, l’assenza di qualsiasi elemento utile ad
argomentare una eventuale dissociazione del ricorrente dalla associazione di
stampo mafioso, e dove si argomenta come dal complessivo materiale
probatorio acquisito risulti non soltanto la compartecipazione dell’imputato

– fatto nuovo rispetto al passato – la posizione di vertice assunta in tale
contesto (in particolare, sono richiamate le univoche risultanze di
numerosissime intercettazioni telefoniche).
7.5. La manifesta infondatezza dei motivi del ricorso presentato nell’interesse
di Serraino Demetrio e Rosmini Antonio, e del ricorso presentato nell’esclusivo
interesse di quest’ultimo, discende dalla motivazione già esposta circa il
rispetto, da parte del giudice del merito, del canone del rinvio e circa la
conformità a diritto e alla logica della motivazione che fonda la penale
responsabilità di tutti i ricorrenti sulle dichiarazioni del Caridi debitamente
riscontrate, per come già precisato, dalle numerose e ulteriori emergenze
istruttorie acquisite in atti (vale in tal senso la motivazione resa dalla corte
territoriale, quanto alla posizione del Rosmini, alle pagine 76-84 della
sentenza impugnata).
Quanto alla motivo sulla violazione del principio del ne bis in idem circa la
posizione del Rosmini, l’infondatezza dello stesso risulta dalla motivazione
della sentenza impugnata alle pagine 79-80, ove si premette il carattere
“aperto” della contestazione, e dove si argomenta come dal complessivo
materiale probatorio acquisito risulti non soltanto la compartecipazione
dell’imputato all’associazione di stampo mafioso ben oltre la data del marzo
2001 ma anche, fatto nuovo rispetto ai precedenti procedimenti già definiti e
riferiti a periodi precedenti, la posizione di vertice assunta in tale contesto.
La doglianza sul trattamento sanzionatorio, svolta in generale circa l’entità
della pena ma particolarmente incentrata sulla mancata concessione delle
circostanze attenuanti generiche, è manifestamente infondata attesa la
puntuale motivazione circa la sussistenza di gravi precedenti penali e il
conseguente giudizio di pericolosità dell’imputato nonché la corrispondenza
della pena irrogata alla gravità del fatto posti a base della decisione della
corte di merito alla pagina 84 della sentenza impugnata.

all’associazione di stampo mafioso ben oltre la data del marzo 2001 ma anche

7.6. Anche il ricorso presentato nell’interesse dell’imputato Centosi mostra
manifestamente infondato, attesa la completezza e la logicità della
motivazione in ordine alla penale responsabilità del ricorrente svolta da pagina
55 a pagina 63 della sentenza impugnata. In particolare, deve segnalarsi
l’importanza attribuita del giudice di merito alle stesse dichiarazioni rese
dall’imputato al PM, dimostrative di una analitica conoscenza del contesto
mafioso; al che devono aggiungersi-come analiticamente argomentato nella

conversazioni e dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, secondo un
coerente quadro argomentativo in nessun modo scalfito dalle critiche di
natura fattuale svolte nel ricorso.
7.7. Stesse conclusioni valgono per il ricorso presentato nell’interesse di Libri
Pasquale, in cui si dichiarano vizio di motivazione con speciale riguardo
all’accreditamento riconosciuto dai giudici alle dichiarazioni del Caridi. Anche
in tal caso le critiche non si elevano dal piano del fatto, risultando
inammissibilia fronte della compiuta motivazione svolta nella sentenza
impugnata da pagina 69 a pagina 72.
7.8. Quanto al ricorso presentato da Morabini Antonino, deve preliminarmente
evidenziarsi come lo stesso esponga motivi esclusivamente di fatto. Ad ogni
modo, la penale responsabilità dell’imputato è compiutamente e logicamente
argomentata nella sentenza impugnata alle pagine 73-76. Invece, quanto alle
contestazioni circa l’accreditamento del Caridi e la violazione del canone del
rinvio, vale quanto già esposto.
8. Ne consegue, per il disposto dell’art. 616 c.p.p., la condanna dei ricorrenti
al pagamento delle spese processuali nonché ciascuno al versamento, in
favore della Cassa delle ammende, di una somma che, considerati i profili di
colpa emergenti dai ricorso, si determina equitativamente in Euro 1000.
PQM
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle
spese processuali e ciascuno al versamento della somma di euro 1000,00 in
favore della Cassa delle ammende.

Così deliberato il 10.12.2013

sentenza impugnata- le ulteriori risultanze costituite dalle intercettazioni di

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