Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 13981 del 29/10/2015


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 13981 Anno 2016
Presidente: VECCHIO MASSIMO
Relatore: MINCHELLA ANTONIO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
VOLLARO RAFFAELE N. IL 07/07/1967
avverso il decreto n. 171/2013 CORTE APPELLO di NAPOLI, del
28/01/2014
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. ANTONIO
MINCHELLA;
lette/gefitite-le conclusioni del PG Dott.

Uditi difensor Avv.;

,

Data Udienza: 29/10/2015

RILEVATO IN FATTO
Con decreto in data 04.06.2013 il Tribunale di Napoli applicava a Vollaro Raffaele la
sorveglianza speciale di p.s. con obbligo di soggiorno per anni tre ed imponeva una
cauzione di € 5.000,00: la pericolosità sociale veniva ritenuta sulla scorta dei seguenti
elementi: a) denunzie per reati associativi, detenzione di armi e tentato omicidio; b)
applicazione di misure cautelari per estorsione aggravata ed usura; c) sottoposizione ad
Avviso Orale; d) sottoposizione a processo penale; e) ripetuti controlli di polizia che lo

consorteria camorristica detta “Clan Vollaro”, capeggiata dal fratello dell’interessato.
L’interessato proponeva appello, sostenendo che non era mai stato condannato per reati
associativi; che la condanna riportata per estorsione aggravata non era di per sé indicativa
di pericolosità sociale; che per i reati a lui contestati nell’anno 2012 era ancora in corso il
relativo processo; che mancavano elementi fattuali dimostrativi dell’abituale dedizione ad
attività illecite; che il rapporto di parentela con esponenti di un clan camorristico non
poteva essere enfatizzato.
La Corte di Appello di Napoli in data 28.01.2014 rigettava l’impugnazione suddetta,
richiamando la diversità tra procedimento di cognizione e di prevenzione sotto il profilo del
tipo di prova da addurre e sottolineando che nel procedimento di prevenzione sono
sufficienti circostanze di fatto, oggettivamente valutabili, tali da condurre a giudizi di
ragionevole probabilità e quindi non necessariamente tali da condurre a valutazioni di
certezza; si richiamava la condotta di vita del prevenuto, la reiterata violazione di leggi
penali e le frequentazioni con soggetti pregiudicati del “clan Vollaro”, la cui esistenza era
attestata da diverse sentenze.
Avverso detta decisione propone ricorso l’interessato a mezzo del suo Difensore per
violazione o erronea applicazione della norma penale ex art. 606, comma 1 lett. b),
cod.proc.pen. con riguardo alla Legge n° 1423/1956: si sostiene che la pericolosità sociale
non può essere fondata sulla ricezione di risultati investigativi e che una richiesta di
applicazione di una misura di prevenzione non può avere alla base elementi sintomatici o
rivelatori di pericolosità, bensì circostanze di fatto che, nella fattispecie, mancherebbero
atteso che il Vollaro è ancora sub judice per il delitto di estorsione aggravata.
Il P.G. si esprime chiedendo che il ricorso venga dichiarato inammissibile: si rileva che i
motivi del ricorso appaiono infondati poiché il giudizio di pericolosità sociale è autonomo
rispetto all’accertamento di responsabilità penale e che episodi specifici (sia pure non
ancora accertati in via definitiva) ben possono fondare un giudizio di pericolosità sociale; si
richiama l’iter logico delle circostanze riportate nel provvedimento impugnato (ininterrotta
carriera criminale, stile di vita improntato ad attività criminosa, contiguità con un clan
camorristico).

avevano colto in compagnia di soggetti pregiudicati, alcuni dei quali inseriti nella

CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
Il ricorso in esame concerne il tema dell’applicazione delle misure di prevenzione, il cui
presupposto è la pericolosità sociale.
La pericolosità sociale è una qualità, un modo di essere del soggetto, da cui si desume la
probabilità che egli commetta reati.
La pericolosità considerata nel settore delle misure di prevenzione è quella sociale in senso

predisposizione al delitto o la presunta vita delittuosa. Tale pericolosità si può ricavare
legittimamente dall’esame della intera personalità del soggetto e da situazioni o fatti che
giustificano sospetti e presunzioni, fondati su elementi obiettivi e fatti specifici.
Il giudizio di pericolosità in tema di applicazione delle misure di prevenzione della
sorveglianza speciale di pubblica sicurezza postula una oggettiva valutazione di fatti sintomatici della condotta abituale e del tenore di vita del soggetto – accertati in modo da
escludere valutazioni meramente soggettive ed incontrollabili da parte dell’Autorità
proponente, sì che il relativo giudizio può basarsi anche su elementi che giustifichino
sospetti e presunzioni, purchè obbiettivamente accertati, quali i precedenti penali, le
recenti denunzie per gravi reati, lo spessore economico della vita del prevenuto, l’abituale
compagnia di pregiudicati o di soggetti sottoposti a misure di prevenzione ed altre
concrete manifestazioni oggettivamente contrastanti con la sicurezza pubblica, in modo
che comunque risulti esaminata globalmente l’intera personalità del soggetto, quale risulta
attraverso tutte le manifestazioni della sua vita e senza che assuma rilievo preponderante
l’eventuale incensuratezza del prevenuto e senza che occorra l’affermazione di
colpevolezza per un reato.
Nel giudizio di prevenzione, proprio in ragione della sua autonomia dal processo penale, la
prova indiretta o indiziaria non deve essere dotata dei caratteri prescritti dall’art. 192
cod.proc.pen. Ne discende che, in materia di applicazione delle misure di prevenzione,
deve procedersi ad una valutazione degli indizi che è di natura diversa da quella necessaria
per l’affermazione della responsabilità penale. Il Giudice della prevenzione, pertanto, ben
può utilizzare elementi tratti dalla base cognitiva di procedimenti penali,
indipendentemente dal loro esito, ed anche non conclusi, ma deve farsi carico di
individuare circostanze di fatto rilevanti accertate nel giudizio penale e rivalutarle
nell’ottica del giudizio di prevenzione, per stabilire se le stesse siano o meno sintomatiche
della pericolosità sociale del soggetto (Sez. 1, n. 43046 del 15/10/2003, dep. 11/11/2003,
Rv. 226609; Sez. 6, n. 1171 del 19/03/1997, dep. 02/05/1997, Rv. 208115; v., inoltre,
Sez. 1, n. 6613 del 17/01/2008, dep. 12/02/2008, Rv. 239358). È pertanto destituita di
ogni fondamento la doglianza circa la mancata emissione di sentenze di condanna a carico
del ricorrente.

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lato; comprende, cioè, da una parte, condotte non costituenti reato e, dall’altra, l’accertata

Nella specie, il decreto impugnato ha fatto corretta applicazione di questi parametri
valutativi: in esso è stata richiamata la situazione giudiziaria del prevenuto, la sussistenza
di segnalazioni di polizia relative alla sua frequentazione con soggetti pregiudicati, la
vicinanza – per ragioni anche familiari – ad una consorteria di natura camorristica, la
reiterata violazione di leggi, la sottoposizione all’Avviso Orale, l’applicazione di misure
cautelari per gravi delitti e l’attuale sottoposizione a processo penale.
A fronte di ciò, il ricorso ripete doglianze palesemente di merito, contestando l’esistenza di
circostanze oggettive da cui trarre adeguata valutazione, ma senza addurre una analisi

Il ricorso è inammissibile.
Occorre osservare, alla luce di una costante linea interpretativa tracciata da questa
Suprema Corte, che il sindacato di legittimità sui provvedimenti in materia di prevenzione,
in coerenza con la natura e la funzione del relativo procedimento, è limitato alla violazione
di legge e non si estende al controllo della motivazione, a meno che questa sia del tutto
mancante o meramente apparente, ipotesi in cui sussisterebbe comunque il vizio di
violazione di legge (Sez. 6, n. 24272 del 15/01/2013, dep. 04/06/2013, Rv. 256805; Sez.
6, n. 35240 del 27/06/2013, dep. 21/08/2013, Rv. 256263; v., inoltre, Sez. 6, n. 35044
del 08/03/2007, dep. 18/09/2007, Rv. 237277, nonché Sez. 5, n. 19598 del 08/04/2010,
dep. 24/05/2010, Rv. 247514). Nel caso di specie il ricorrente, pur denunciando
formalmente il vizio della violazione di legge, tende in sostanza a confutare la motivazione
del provvedimento impugnato, nella chiara prospettiva di accreditare una diversa ed
alternativa interpretazione delle circostanze di fatto emerse nei giudizi e di togliere così
valenza agli elementi posti alla base della formazione del correlativo epilogo decisorio.
Il decreto impugnato, di contro, è sorretto da un apparato argomentativo del tutto congruo
e logicamente correlato alle risultanze indiziarie ivi esposte e rappresentate, le quali sono
state dai Giudici di merito apprezzate tenendo conto dei rilievi difensivi e nel pieno rispetto
di un quadro di principi esattamente interpretati ed applicati, sicché non può sotto alcun
profilo parlarsi di motivazione mancante o apparente.
In definitiva non risulta il vizio di motivazione lamentato, sia pure sub specie di violazione
di legge penale; il provvedimento della Corte d’Appello è motivato in modo specifico,
rispondendo a tutti i dubbi sollevati dal ricorrente. Nè può dolersi costui delle valutazioni
sfavorevoli operate dalla Corte, non potendosi certo procedere in questa sede ad una
rivalutazione del materiale istruttorio, che comporterebbe un giudizio di fatto
inammissibile, anche a prescindere dai limiti operanti in materia di misure di prevenzione,
nel giudizio di legittimità.
Al riguardo giova ricordare che nella giurisprudenza di questa Corte è stato enunciato, e
più volte ribadito, il condivisibile principio di diritto secondo cui “è inammissibile il ricorso
per cassazione fondato su motivi che ripropongono le stesse ragioni già discusse e ritenute
infondate dal giudice del gravame, dovendosi gli stessi considerare non specifici. La

3

critica realmente volta alle connessioni logiche della motivazione impugnata.

mancanza di specificità del motivo, invero, deve essere apprezzata non solo per la sua
genericità, come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le
ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento
dell’impugnazione, questa non potendo ignorare le esplicitazioni del giudice censurato
senza cadere nel vizio di aspecificità conducente, a mente dell’art. 591, comma 1, lett. c),
all’inammissibilità” (in termini, Sez. 4, n. 5191 del 29/03/2000 Ud. – dep. 03/05/2000 Rv. 216473; CONF: Sez. 5, n. 11933 del 27/01/2005, dep. 25/03/2005, Rv. 231708; Sez.
4 n. 18825 del 09.02.2012, Rv 253849).

cod.proc.pen., comma 1, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali
e, in mancanza di elementi atti ad escludere la colpa nella determinazione della causa di
inammissibilità (Corte cost. sentenza n. 186 del 2000), al versamento a favore della Cassa
delle Ammende di una sanzione pecuniaria che si stima equo determinare, tra il minimo e
il massimo previsti, in Euro 1.000,00.
P.Q.M
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali e al versamento della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle Ammende.

Così deciso in Roma, il 29 ottobre 2015.

Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso consegue di diritto, ai sensi dell’art. 616

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