Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 13903 del 28/02/2014


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 13903 Anno 2014
Presidente: ZECCA GAETANINO
Relatore: DOVERE SALVATORE

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
1) SPAMPINATO PIER PAOLO, N. IL 4/2/1974,
avverso la sentenza n.

730/2013 pronunciata dalla Corte di Appello di

Catania il 7/5/2013;
udita la relazione fatta dal Consigliere Dott. Salvatore Dovere;
udite le conclusioni del P.G. Dott.

Gianluigi Pratola, che ha chiesto la

declaratoria di inammissibilità del ricorso;
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 27.11.2012 la Corte di Cassazione, sezione Terza, ha
annullato con rinvio la sentenza di condanna alla pena di anni quattro di
reclusione ed euro diciottomila di multa, pronunciata dalla Corte di Appello di
Catania nei confronti di Spampinato Pier Paolo, giudicato colpevole del reato di
detenzione a fini di spaccio di 15 involucri di cellophane contenenti cocaina, con
l’aggravante della recidiva specifica, reiterata ed infraquinquennale, commesso il
2.1.2011, limitatamente all’omesso giudizio di comparazione tra la contestata
recidiva e la ritenuta attenuante di cui all’art. 73, co. 5 T.U. Stup.

Data Udienza: 28/02/2014

Rinnovando il giudizio, con il provvedimento indicato in epigrafe la Corte
territoriale ha ritenuto che la riconosciuta attenuante non fosse prevalente sulla
recidiva, per le circostanze del fatto e la personalità negativa del prevenuto,
gravato da precedenti penali per rapina, furto ed evasione.

2. Avverso tale decisione ricorre per cassazione l’imputato a mezzo del
difensore di fiducia, avv. Filippo Freddoneve, e con un unico motivo deduce vizio
motivazionale

per aver indicato, il Collegio distrettuale, ragioni ostative al

conducenti alla violazione di quanto disposto dalla Corte costituzionale con
sentenza n. 251/2012, perché

il giudizio espresso dal giudice territoriale

renderebbe la recidiva di per sé idonea a precludere la prevalenza delle
attenuanti.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3.

Il ricorso è

fondato, limitatamente al trattamento sanzionatorio,

ancorchè per ragioni diverse da quelle evidenziate dall’esponente.

4. In tema di giudizio di comparazione tra le circostanze attenuanti e la
recidiva reiterata di cui all’art. 99, comma quarto, cod. pen., la giurisprudenza di
legittimità ha espresso il principio per il quale il potere discrezionale attribuito al
giudice anche dalla legge n. 251/05 è correttamente esercitato ove egli abbia
preso in esame gli elementi enunciati nell’art. 133 cod. pen., rimanendo sottratta
al sindacato di legittimità la motivazione resa al riguardo, se aderente ad
elementi tratti dalle risultanze processuali e logicamente corretti (Sez. 2, n. 4969
del 12/01/2012 – dep. 09/02/2012, Doku, Rv. 251809).
Nel caso che occupa la Corte di Appello ha reso esplicite le ragioni per le
quali ha ritenuto di non dover accordare prevalenza all’attenuante di cui all’art.
73, co. 5 T.U. Stup.: gravità del fatto, essendo stato trovato l’imputato in
possesso di quindici involucri in zona teatro di spaccio; la negativa personalità
dello Spampinato.
Come affermato da ultimo dalla richiamata sentenza n. 251/2012 della Corte
costituzionale, la recidiva reiterata riflette i due aspetti della colpevolezza e della
pericolosità; sicché il giudizio di comparazione deve essere condotto nella
prospettiva della valutazione della misura dell’incidenza di tali elementi, in
rapporto a fattori di segno opposto.
Il richiamo alla gravità del fatto ed ai precedenti penali dell’imputato risulta
quindi congruo, in quanto realmente espressivi della misura della colpevolezza
(che contribuisce a plasmare anche il fatto tipico) e della pericolosità sociale.

giudizio di prevalenza delle attenuanti erronee in fatto e sostanzialmente

Il rilievo del ricorrente secondo il quale i dati di fatto assunti dalla Corte di
Appello non sarebbero corrispondenti a quanto accertato nel processo non è
conforme al principio di autosufficienza del ricorso, in particolare per quanto
concerne la quantità della droga rinvenuta allo Spampinato (peraltro, quindici
involucri ben possono consistere in cinque dosi).
In conclusione, il motivo va rigettato.

5. Per illustrare le ragioni per le quali la sentenza impugnata merita non di

dell’intervento, nelle more di questo giudizio, del d.l. 23.12.2013, n. 146
(convertito con modificazioni dalla legge 22 febbraio 2014, n. 10), il cui articolo
2, co. 1 lett. a) ha modificato l’art. 73, co. 5 del d.p.r. 9.10.1990, n. 309, con
un testo del seguente tenore: “Al decreto del Presidente della Repubblica 9
ottobre 1990, n. 309 sono apportate le seguenti modificazioni:
a) all’articolo 73, il comma 5 è sostituito dal seguente comma:
“5. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque commette uno
dei fatti previsti dal presente articolo che, per i mezzi, la modalità o le
circostanze dell’azione ovvero per la qualità e quantità delle sostanze, è di
lieve entità, è punito con le pene della reclusione da uno a cinque anni e della
multa da euro 3.000 a euro 26.000”.
Il mutamento normativo impone di interrogarsi in merito al ruolo che la
nuova disposizione può assumere nella regolamentazione del caso in esame. Pur
se il reato ascritto allo Spampinato è stato commesso il 2.1.2011, e quindi prima
dell’entrata in vigore dell’art. 2 d.l. n. 146/2013 (24.12.2013), la circostanza che
esso sia stato giudicato dalle corti di merito come ‘fatto di lieve entità’, oggetto
di disciplina tanto della norma vigente al tempo della commissione del reato che
di quella recata dal menzionato art. 2, espone il medesimo all’applicazione
dell’art. 2 cod. pen.
Orbene, in tema di mutamenti normativi che investano il trattamento
sanzionatorio di una determinata fattispecie, questa Corte ha ripetutamente
affermato che la valenza del principio di legalità della pena impone che
l’eventuale violazione del medesimo debba essere rilevata d’ufficio (cfr. Sez. 5,
n. 3945 del 13/11/2002 – dep. 28/01/2003, De Salvo, Rv. 224220, relativa al
nuovo regime previsto – nella specie per il delitto di lesioni personali – dal
decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274; Sez. 1, n. 1711 del 14/04/1994 dep. 23/05/1994, P.M. in proc. Marchese, Rv. 197464).
Anche ad aderire alla tesi più restrittiva, che ammette la rilevabilità di
ufficio da parte della Corte di Cassazione a condizione che la stessa, così come
indicata nel dispositivo, non sia per legge irrogabile (non anche quando il

meno di essere annullata, occorre prendere le mosse dalla considerazione

trattamento sanzionatorio sia di per sé complessivamente legittimo ed il vizio
attenga al percorso argomentativo attraverso il quale il giudice è giunto alla
conclusiva determinazione dell’entità della condanna: Sez. 2, n. 22136 del
19/02/2013 – dep. 23/05/2013, Nisi e altro, Rv. 255729), rimane ferma la
doverosità della individuazione della ‘pena legale’, quale determinatasi a seguito
del divenire normativo, salvo trarne o meno le conseguenze in termini di
annullamento della sentenza impugnata (dovendosi a tal proposito tener in conto
che occorre pur sempre che il ricorso non sia inammissibile: Sez. 2, n. 44667 del

del 09/07/2004 – dep. 14/09/2004, Raimo, Rv. 230636).

6. Com’è noto, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza
di legittimità, in tema di reati concernenti sostanze stupefacenti, l’ipotesi
disciplinata dall’art. 73, co. 5, d.p.r. n. 309/90, come riproducente l’art. 71 della
legge 23.12.1975, n. 685 e quale venuto ad essere per effetto dell’art. 14 della
legge 26.6.1990, n. 162, configura una circostanza attenuante delle ipotesi
criminose previste dai commi 1 e 4 dell’art. 73 cit., e non già una figura
autonoma di reato (cfr., Cass., Sez. Un., sent. n. 9148 del 31.5.1991, Parisi, Rv.
187930).
Per contro, come già è stato espresso da questa Corte (Sez. 4, sent. n.
7363 del 9.1.2014, Fazio, n.m.) la nuova disposizione ha delineato un reato
autonomo, incentrato sulla lievità dell’illecito.
In effetti, una pluralità di indici depongono per la introduzione di una
nuova ipotesi di reato. In primo luogo va considerato il dato testuale della
disposizione, che si apre con una clausola di sussidiarietà, “salvo che il fatto non
costituisca più grave reato”, chiaramente espressiva della volontà legislativa di
estendere alla nuova fattispecie lo status di reato, tanto da disciplinarne la
relazione con enti ontologicamente omologhi, stabilendo la prevalenza di quelli
più gravi e, per converso, la subvalenza di quelli meno gravi. Ancora
nell’enunciato si rinviene una locuzione tradizionalmente utilizzata nella
delineazione di fattispecie tipiche: “Chiunque commette uno dei fatti previsti dal
presente articolo”;

e non priva di rilievo è la introduzione del trattamento

sanzionatorio non più mediante l’espressione “si applicano le pene”, bensì con la
locuzione “è punito con le pene”.
Ancor più netti sono i testi che vanno a sostituire i richiami all’art. 73,
comma 5 d.p.r. 309/90 contenuti rispettivamente negli articoli 19, co. 5 e 380,
co. 2 lett. c) cod. proc. pen. Il comma 1-bis dell’art. 2 del d.l. n. 146/2013, come
introdotto dalla legge di conversione, dispone che all’art. 380, comma 2, lett. h),
cod. proc. pen., le parole “salvo che ricorra la circostanza prevista dal comma 5

08/07/2013 – dep. 06/11/2013, Aversano e altri, Rv. 257612; Sez. 5, n. 36293

del medesimo articolo” sono sostituite dalle seguenti “salvo che per il caso dei
delitti di cui al comma 5 del medesimo articolo”; il comma 1-ter del medesimo
articolo aggiunge alla fine dell’art. 19, comma 5, le parole “salvo che per i delitti
di cui all’art. 73, comma 5, del testo unico di cui al decreto del Presidente della
Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, e successive modificazioni”. In sintesi, può
rilevarsi che, in entrambi i casi, il legislatore ha avuto cura di qualificare come
“delitti” i fatti cui all’art. 73, comma 5 del d.p.r. n. 309 del 1990, addirittura
sostituendo, nell’art. 380 cod. proc. pen., questa espressione a quella

Né va taciuto che la rubrica dell’art. 2 recita: “Delitto di condotte illecite
in tema di sostanze stupefacenti o psicotrope di lieve entità”.
Com’è stato osservato (Sez. 4, sent. n. 10514 del 28.2.2014, Verderamo,
n.m., nella quale si approfondiscono i rilievi sopra esposti), nessuno degli
elementi appena passati in rassegna risulterebbe da solo in grado di condurre ad
indiscutibile soluzione una questione qualificatoria che già sul piano generale
risulta quanto mai complessa e foriera di dispute interpretative. Basti ricordare i
numerosi interventi spiegati dalle Sezioni Unite per dirimere i contrasti
giurisprudenziali in tema di natura circostanziale o ‘basica’ di determinate
fattispecie (per citare solo le più recenti, Sez. U, n. 4694 del 27/10/2011 – dep.
07/02/2012, Casani ed altri, Rv. 251270; Sez. U, n. 35737 del 24/06/2010 dep. 05/10/2010, P.G. in proc. Rico, Rv. 247910, proprio in materia di
stupefacenti; Sez. U, n. 26351 del 26/06/2002 – dep. 10/07/2002, P.G.in proc.
Fedi, Rv. 221663; Sez. U, n. 119 del 29/10/1997 – dep. 08/01/1998, Deutsch,
Rv. 209126).
Tuttavia, il convergere di più indici, in unione ad altre evidenze (si allude al
comunicato-stampa rilasciato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri all’esito
del Consiglio dei Ministri n. 41 del 17 dicembre 2013, nonché alla relazione al
disegno della legge di conversione del decreto; nel primo si è parlato di «una
nuova ipotesi di reato in luogo della previgente circostanza attenuante»; nella
seconda si qualifica espressamente la fattispecie riformulata come fattispecie
autonoma di reato), espressive di una volontà del legislatore storico di innovare
profondamente la disciplina degli illeciti previsti dall’art. 73, co. 1 d.p.r. n.
309/1990, attraverso l’abbandono della tradizionale scansione sanzionatoria
(reato base punito con pene elevate, associato ad ipotesi attenuante imperniata
sulla lievità del fatto), convincono questa Corte – in ciò confortata dalle prime
analisi dottrinarie – della acquisizione dell’ipotesi del fatto lieve, com’è oggi
delineata per effetto dell’art. 2 d.l. n. 146/2013, al novero delle fattispecie
autonome di reato.

precedente impiegata di “circostanza”.

7. L’incidenza della nuova norma nel presente procedimento risulterebbe
immediatamente apprezzabile già nel rapporto tra questa e l’articolazione delle
condotte illecite operata dall’art. 4-bis e 4-vicies ter del d.l. 30.12.2005, n. 272,
convertito con modificazioni dalla legge 21.2.2006, n. 49. Disposizioni che hanno
sostituito (in particolare la prima) l’originario testo dell’art. 73 d.p.r. 9.10.1990,
n. 309, e dalle quali sono scaturite le norme con le quali si sono confrontati i
giudici di merito (e lo stesso giudice rescindente) nella vicenda in esame. Infatti,
la natura autonoma della fattispecie caratterizzata dalla lievità del fatto sottrae

concorso di circostanze eterogenee, con l’effetto che occorre chiedersi quale sia
la norma che deve trovare applicazione nel caso in esame, siccome norma più
favorevole.
Senonchè, la ricognizione delle possibili epifanie della relazione tra i testi in
discorso, immediatamente intuibili nella loro pluralità, non può però svolgersi
senza considerare che gli articoli 4-bis e 4-vicies ter sopra citati sono stati
travolti dalla sentenza dichiarativa della loro illegittimità costituzionale, anch’essa
pronunciata nelle more di questo giudizio (C. cost. sent. n. 32 dell’11-12.2.2014,
depositata il 25.2.2014).
La considerazione di tale pronuncia si impone, ancorchè non ancora
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale alla data della deliberazione della presente
decisione (G.U. del 5.3.2014 n. 11, la Serie Speciale).
Invero, in passato la previsione di cui all’art. 30, co. 3 L. 11 marzo 1953, n.
87, per il quale

“le norme dichiarate incostituzionali non possono trovare

applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione”, ha portato
questa Corte ha ritenere rilevante (nella specie, ai fini della tempestività della
presentazione della dichiarazione di ricusazione, basata sulla dichiarazione di
illegittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2 cod. proc. pen.), la data di
pubblicazione della sentenza della Corte Costituzionale nella Gazzetta Ufficiale,
mentre è stata ritenuta priva di incidenza la data del deposito della sentenza e a
fortiori qualsiasi altra forma di conoscenza effettiva precedente alla
pubblicazione. A rafforzare tale giudizio è stato reclutato anche l’art. 136 Cost.,
interpretato nel senso che la sentenza della Corte Costituzionale che dichiara la
illegittimità costituzionale di una norma di legge esplica effetti nell’ordinamento
giuridico solo con la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale (Sez. 6, n. 3771 del
03/10/1997 – dep. 02/12/1997, Giallombardo M, Rv. 209076).
Tuttavia la tesi della assenza di effetti derivanti dalla dichiarazione di
incostituzionalità nel tempo anteriore alla sua pubblicazione sulla Gazzetta
Ufficiale trova ferma opposizione in autorevole parte della dottrina
costituzionalista, la quale afferma che la dichiarazione di incostituzionalità

questa al giudizio di comparazione previsto dall’art. 69 cod. pen. per l’ipotesi di

produce effetti erga omnes dal giorno del deposito in cancelleria, mentre la
pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale è necessaria per “fondare responsabilità di
chi non ne avesse tenuto conto”. In quest’ordine di idee si ritiene che già dalla
conoscenza anticipata della dichiarazione d’incostituzionalità – segnatamente,
per effetto dei comunicati stampa della Corte – discende un corrispondente
dovere di negare l’applicazione o l’esecuzione dell’atto incostituzionale e di
omettere comportamenti contrari al decisum, nei termini resi noti dal
comunicato. E, si aggiunge, lo stesso giudice non deve ritenersi vincolato

dichiarazione d’incostituzionalità perché la legge incostituzionale non è
annullabile, ma nulla e quindi non obbligatoria.
Su un piano più generale, va rilevato come risulti quanto mai attuale
l’attenzione degli studiosi del diritto costituzionale – non solo nazionale – verso
quelli che vengono definiti gli “effetti preliminari” della dichiarazione di
incostituzionalità, ovvero gli effetti che si producono già prima che vengano ad
esistenza tutti i requisiti richiesti per la piena efficacia dell’atto. A dimostrazione
della complessità di un fenomeno che non si lascia raggiungere se non attraverso
il raccordo di principi tradizionali, quali la certezza del diritto, alla mappa
valoriale nella quale si riconosce l’attuale comunità (in un’accezione che non
necessariamente la riduce alla comunità nazionale).
Volendo limitare l’analisi ai dati normativi, mette conto rimarcare che altre
previsioni della legge n. 87/53 (gli artt. 19, 26, co. 3, 29 e. 30, co. 1 e 2),
rendono manifesto il rilievo accordato dal legislatore al deposito della sentenza
nella cancelleria della Corte regolatrice, tanto da confortare la tesi dell’esistenza
di due diverse forme di pubblicazione delle pronunce di accoglimento della Corte
costituzionale, l’una di carattere processuale, incentrata sul deposito in
cancelleria, l’altra avente la funzione di consentire la conoscenza legale dell’atto
consistente, a seconda dei casi, nella pubblicazione in Gazzetta Ufficiale o nel
Bollettino Ufficiale della Regione.
Dal canto loro, i testi dell’art. 136 Cost. e dell’art. 30, co. 3 cit. non risultano
certamente preclusivi della tesi che qui si sostiene. Il primo afferma che “quando
la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto
avente forza di legge, la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla
pubblicazione della decisione”; il secondo, in linea di continuità, fa divieto di
applicare le norme dichiarate incostituzionali dal giorno successivo alla
pubblicazione della decisione. Come può agevolmente notarsi, le menzionate
disposizioni non vietano di anticipare l’applicazione delle norme che residuano
alla pronuncia ablativa, rendendo subvalente la transeunte formale vigenza della
norma incostituzionale alla sostanziale illegalità della medesima e così evitando

7

dall’efficacia della legge incostituzionale sino alla pubblicazione della

.:

che, sulla scorta di questa, nel giudizio di legittimità debba pronunciarsi una
decisione terminativa del procedimento.
Sul piano teleologico, una simile interpretazione può vantare di non
incorrere nel paradosso di pretendere medio tempore l’osservanza di norme
giuridiche la cui incostituzionalità è stata oramai affermata – in un atto
compiutamente formatosi con il deposito -, perpetuando quella lesione della
legalità costituzionale che la pronuncia vuole risolvere.
La stessa Corte costituzionale ha mostrato di tenere in conto la dichiarazione

udienza e resa nota con il deposito della sentenza in pari data (C. cost. ord. n.
47 del 10-20.2.1997), ancorchè, com’è ovvio, la stessa non fosse stata ancora
pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale.
In conclusione, sulla scorta di quanto osservato, questa Corte ritiene di
dover fare propria la tesi per la quale dal deposito in cancelleria della sentenza
dichiarativa dell’incostituzionalità della norma al giudice non è precluso di
applicare la legge tenendo presente l’intervenuta declaratoria.
Tanto importa di dover tener conto della menzionata pronuncia, sia in
ragione di quanto sopra espresso a riguardo della rilevabilità d’ufficio
dell’eventuale violazione del principio di legalità della pena, sia in adesione al
principio, già posto da questa Corte, secondo il quale, in tema di ricorso per
cassazione, la pubblicazione in epoca successiva alla presentazione del ricorso di
una sentenza della Corte costituzionale di accoglimento, con contenuto additivo,
consente al ricorrente di giovarsene senza presentare motivi aggiunti, essendo
sufficiente anche depositare una semplice memoria difensiva, purché con i motivi
originari il giudice di legittimità sia stato investito del controllo della motivazione
della sentenza di merito sul punto su cui è intervenuta la declaratoria di
incostituzionalità (Sez. 6, n. 37102 del 19/07/2012 – dep. 26/09/2012,
Checcucci e altro, Rv. 253471; Sez. 3, n. 3091 del 18/01/1999 – dep.
08/03/1999, Cangelosi S e altri, Rv. 213574). Nella specie, come si è esposto in
apertura, il ricorso in esame attiene al giudizio di bilanciamento delle concorrenti
circostanze eterogenee.

8. Orbene, a seguito della sentenza n. 32/2014 il testo dell’art. 73, co. 5,
come introdotto dal citato art. 4bis risulta eliminato dall’ordinamento con effetto
retroattivo.
Infatti, la declaratoria di incostituzionalità incide sulla norma fin dalla sua
origine, eliminandola dell’ordinamento e rendendola inapplicabile ai rapporti
giuridici in corso (Corte Cost. sent. n. 127 del 15.12.1966), ed incide altresì
sulle situazioni pregresse, salvo il limite insuperabile del giudicato, che tuttavia

di illegittimità costituzionale pronunciata in altro procedimento alla medesima

:

trova un’eccezione in materia penale (sul tema cfr. Sez. 1, n. 26899 del
25/05/2012 – dep. 09/07/2012, Pmt in proc. Harizi, Rv. 253084; Sez. U, n.
27614 del 29/03/2007 – dep. 12/07/2007, P.C. in proc. Lista, Rv. 236535).
D’altronde, in questo senso si è espresso a chiare lettere il giudice delle
leggi per il quale, con la dichiarazione dell’illegittimità costituzionale delle norme
impugnate, “riprende applicazione l’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 nel testo
anteriore alle modifiche con queste apportate” (con il conseguente ripristino del
differente trattamento sanzionatorio dei reati concernenti le cosiddette “droghe

rispetto ai reati concernenti le cosiddette “droghe pesanti”, puniti con la pena
della reclusione da otto a venti anni, oltre la multa), atteso che i vizi procedurali
in cui era incorso il legislatore del 2006 (in sede di conversione dell’originario
decreto-legge), dovevano considerarsi tali da dar luogo ad un atto legislativo
affetto da un “vizio radicale nella sua formazione [come tale] inidoneo ad
innovare l’ordinamento e, quindi, anche ad abrogare la precedente normativa
(sentenze n. 123 del 2011 e n. 361 del 2010)”.
Ciò, tuttavia, non significa che l’interprete possa abbandonare ogni
attenzione verso la disciplina investita dalla declaratoria di illegittimità
costituzionale.
Una prima ragione della persistente necessità di tener conto, sia pure
indirettamente, della norma scaturita dall’entrata in vigore degli artt. 4-bis e 4vicies ter citt. è stata indicata dalla stessa Corte Costituzionale, la quale ha
evidenziato come, a seguito dell’intervenuta decisione, si pone per il giudice
ordinario il compito di “individuare quali norme, successive a quelle impugnate,
non siano più applicabili perché divenute prive del loro oggetto (in quanto
rinviano a disposizioni caducate) e quali, invece, devono continuare ad avere
applicazione in quanto non presuppongono la vigenza degli artt. 4-bis e 4-vicies
ter”dichiarati costituzionalmente illegittimi.
L’indagine al riguardo, operata da questa Corte nella già menzionata
sentenza in causa Verderamo con motivazione che si condivide integralmente,
conduce a ritenere che la caducazione degli artt. 4-bis e 4-vicies ter non ha
incidenza sulla vigenza dell’art. 73, co. 5 d.p.r. n. 309/90, come sostituito
dall’art. 2 d.l. n. 146/2013.
Sul piano testuale risulta di tutta evidenza l’assenza di punti di contatto
tra l’art. 2 d.l. n. 146/2013 e le norme dichiarate incostituzionali. Il primo, come
si è riportato in apertura, apporta modifiche al decreto del Presidente della
Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, sostituendovi il comma 5 dell’art. 73.
Manca, pertanto, ogni riferimento agli artt. 4-bis e 4-vicies ter del decreto-legge

leggere”, puniti con la pena della reclusione da due a sei anni e della multa,

30 dicembre 2005, n. 272, o all’art. 73, comma 5, del d.p.r. n. 309/90 ‘come
modificato dal predetto decreto’.
Orbene, pur dovendosi registrare una perdurante difficoltà di distinguere
la natura del rinvio operato da una norma ad altra, non può non considerarsi il
maggior favore che deve essere accordato al rinvio formale-dinamico rispetto a
quello materiale-statico (in tal senso C. cost., ord. n. 121 del 14.1.1988) e la
subvalenza delle intenzioni del legislatore storico rispetto a quanto risulta
dall’enunciato normativo, sia pure attraverso l’interpretazione. Nel caso di

oggettivamente si presta a fungere da elemento di raccordo con qualsiasi
contenuto venga ad assumere l’articolo 73, salvo le ipotesi di palese
incompatibilità strutturale. Si è quindi in presenza di un rinvio alla fonte di
produzione della norma (rinvio cd. mobile) piuttosto che alla norma materiale
vigente in un determinato momento storico (rinvio cd. fisso: in tal senso già la
sentenza in causa Verderamo). A fronte di ciò, appare quindi non decisivo che il
legislatore del 2013 abbia potuto voler fare riferimento unicamente a disposizioni
coeve.
Tale soluzione pare svelare il senso più vero della ricordata affermazione
che richiama all’impegno di verificare quali norme siano “divenute prive de/loro
oggetto, perchè rinviano a disposizioni caducate” e quali “devono continuare ad
avere applicazione in quanto non presuppongono la vigenza degli artt. 4-bis e 4vicies ter”. Non vi è alcun dubbio, infatti, che l’art. 2 di. n. 146/2013 non è

stato in alcun modo ‘privato del proprio oggetto’ né presuppone la vigenza degli
artt. 4-bis e 4-vicies ter.
Inoltre, la stessa avvertenza posta dalla Corte costituzionale – quanto alle
norme che non possono più trovare applicazione – va tenuta in considerazione
nella consapevolezza dell’esteso riconoscimento che, anche da parte del giudice
delle leggi (cfr. ex multis, sent. n. 368 del 9.7.1992), viene tributato al principio
di conservazione dei valori giuridici. Ciò conduce a preferire l’interpretazione che,
senza inciampi logico-formali o insensatezze assiologiche, lascia ‘viventi’ e non
solo ‘vigenti’ l’art. 2 d.l. n. 146/2013 e il comma 5 dell’art. 73 d.p.r. n. 309/90,
come da quello sostituito.
E’ però evidente – e questa Corte lo ha già esplicitato – che il punctum
dolens si rintraccia nell’innesto, in un tessuto normativo permeato dalla

diversificazione della risposta statuale in base alla variabile tipologica, di una
disposizione che uniforma il trattamento sanzionatorio relativo a ogni ipotesi di
reato concernente sostanze stupefacenti, quale ne sia l’oggetto materiale, droga
c.d. leggere o droga cd. pesante, quando esse siano riconducibili al paradigma
della ‘lieve entità’ del fatto.

10

specie, la locuzione utilizzata dalla norma (“fatti previsti dal presente articolo”)

Mentre la disciplina delle c.d. ipotesi-base dei reati concernenti sostanze
stupefacenti prevista dall’art. 73 ad oggi (tornata) in vigore, distingue, sul piano
del trattamento sanzionatorio, i casi riguardanti il traffico delle droghe c.d.
‘pesanti’ (per cui è prevista la pena da otto a vent’anni di reclusione, oltre la
multa) da quelli riferiti alle droghe c.d. ‘leggere’ (punite con la reclusione da due
a sei anni, oltre la multa), nel caso in cui tali fatti – “per i mezzi, la modalità o le
circostanze dell’azione ovvero per la qualità e quantità delle sostanze” – siano di
lieve entità, la sanzione prevista (indipendentemente dalla natura, ‘pesante’ o

anni, oltre la multa.
Ciò giustifica l’interrogativo circa la compatibilità e la possibilità di
coesistenza delle previsioni in esame.
Ma il quesito può trovare soluzione positiva; come è stato scritto nella
sentenza in causa Verderamo, da un verso il quadro complessivo non appare
minato da un’irragionevolezza di tale irriducibilità da prospettare un presumibile
conflitto, della norma introdotta dal citato art. 2, con il parametro costituzionale
di cui all’art. 3 della Costituzione. Dall’altro, lo sforzo ricostruttivo richiesto
all’interprete istituzionale, al di là delle mutevoli scelte normative riconducibili
all’iniziativa di maggioranze politiche contingenti, è quello di ricercare il possibile
coordinamento dei materiali normativi disponibili, utile a soddisfare, tanto
l’esigenza di una coerenza di senso logico dei testi, quanto la necessità di una
persistente compatibilità assiologica delle norme ricavate con i principi e i valori
della Carta costituzionale.
Deve pertanto ritenersi che l’ipotesi introdotta dall’art. 2 d.l. n. 146/2013,
identificata come “delitto di condotte illecite in tema di sostanze stupefacenti o
psicotrope di lieve entità” e sistematicamente collocata nel testo dell’art. 73, co.
5, d.p.r. n. 309/90, rimanga configurabile quale reato autonomo punibile con la
reclusione da uno a cinque anni, oltre la multa, pur a seguito dell’emissione della
sentenza n. 32/2014 della Corte Costituzionale.

9. Il secondo motivo che impone di tener ancora in conto la disciplina
scaturita dall’art. 4-bis cit. risiede nel principio di prevalenza della norma più
favorevole.
Quando alla legge del tempo in cui è stato commesso il reato succede una
norma che dispone un trattamento più sfavorevole, quella prevalenza è
accordata in forza del divieto di retroattività della norma più sfavorevole, che è
unanimemente ritenuto costituzionalmente imposto in termini assoluti – ovvero
non condizionabile dalla ponderazione con altri valori costituzionali – dall’art. 25
Cost.

11

‘leggera’, della sostanza stupefacente) è quella della reclusione da uno a cinque

Quando la legge del tempo in cui venne commesso il reato prevede un
trattamento più gravoso rispetto a quello introdotto da una norma successiva, la
pretesa di fare applicazione di questa seconda legge non può vantare identica
copertura costituzionale.
Il dibattito intorno al tema della retroattività della norma più favorevole è
ampio e complesso e sarebbe un fuor d’opera darne conto nella sua interezza. In
special modo per la diretta rilevanza, in questa sede, di una particolare
sfaccettatura di quel tema; sfaccettatura che rimanda ad una regolamentazione

scriverà, in estrema sintesi, di quel dibattito.
L’opinione dominante ha per lungo tempo rinvenuto un sicuro ancoraggio del
principio di retroattività della norma più favorevole nella legge ordinaria e,
ritenuti inconferente gli artt. 13 e 25 Cost., ha guardato all’art. 3 della Carta ovvero al principio di uguaglianza – come al solo referente costituzionale (ad
esempio, C. cost. sent. n. 393 del 23.11.2006; si veda anche Cass. Sez. 2, n.
35079 del 07/07/2009 – dep. 09/09/2009, Sylla, Rv. 244631).
Ne è derivato il corollario di una tutela ‘relativa’, ovvero di una recessività
del principio rispetto a valori costituzionali ritenuti in modo ragionevole
prevalenti dal legislatore. Secondo la Corte costituzionale, “Il livello di rilevanza
dell’interesse preservato dal principio di retroattività della lex mitior – quale
emerge dal grado di protezione accordatogli dal diritto interno, oltre che dal
diritto internazionale convenzionale e dal diritto comunitario – impone di ritenere
che il valore da esso tutelato può essere sacrificato da una legge ordinaria solo in
favore di interessi di analogo rilievo (quali – a titolo esemplificativo – quelli
dell’efficienza del processo, della salvaguardia dei diritti dei soggetti che, in vario
modo, sono destinatari della funzione giurisdizionale, e quelli che coinvolgono
interessi o esigenze dell’intera collettività nazionale connessi a valori
costituzionali di primario rilievo; cfr. sentenze n. 24 del 2004; n. 10 del 1997, n.
353 e n. 171 del 1996; n. 218 e n. 54 del 1993). Con la conseguenza che lo
scrutinio di costituzionalità ex art. 3 Cost., sulla scelta di derogare alla
retroattività di una norma penale più favorevole al reo deve superare un vaglio
positivo di ragionevolezza, non essendo a tal fine sufficiente che la norma
derogatoria non sia manifestamente irragionevole” (C. cost. sent. n. 393/2006;

per la giurisprudenza di legittimità, Sez. 3, n. 34117 del 27/04/2006 – dep.
12/10/2006, Alberini e altro, Rv. 235051).
Più di recente, tuttavia, proprio l’esistenza delle fonti internazionali alle quali
ha fatto riferimento il giudice delle leggi anche nella decisione testè menzionata
ha condotto a nuove soluzioni. Mette conto rammentare l’art. 15, co. 1 del Patto
internazionale relativo ai diritti civili e politici adottato a New York il 16.12.1966

per così dire ‘eccentrica’. Ed è solo al fine di dare conto di tale eccentricità che si

e ratificato e reso esecutivo con legge 25.10.1977, n. 881 (la quale reca una
riserva avente l’effetto di allineare gli obblighi internazionali nascenti dal Patto ai
contenuti del comma 4 dell’art. 2 cod. pen.); l’art. 49 della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea (proclamata a Nizza il 7.12.2006 e alla quale il
Trattato di Lisbona, entrato in vigore il 1.12.2009, ha attribuito valore giuridico
pari a quello delle norme dei trattati istitutivi della U.E.), il cui primo comma
recita: “Nessuno può essere condannato per un’azione o un’omissione che, al
momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno

quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso. Se,
successivamente alla commissione del reato, la legge prevede l’applicazione di
una pena più lieve, occorre applicare quest’ultima”;

l’art. 7 della Convenzione

per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU),
firmata a Roma il 4.11.1950 e ratificata e resa esecutiva con legge 4.8.1955, n.
848, a mente del quale “Nessuno può essere condannato per una azione o una
omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato
secondo il diritto interno o internazionale. Parimenti, non può essere inflitta una
pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso”
(co. 1). Anche la CEDU è stata oggetto di previsione da parte del Trattato di
Lisbona, essendo disposto che

“l’Unione aderisce alla Convenzione per la

salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali” (art. 6).
In questa sintetica rassegna non va dimenticata la giurisprudenza della
Corte di giustizia dell’Unione europea, che ha riconosciuto il principio di
retroattività della lex mitior quale principio della tradizione costituzionale degli
Stati membri e lo ha quindi assegnato al novero dei principi generali del diritto
comunitario (sent. 3.5.2005, Berlusconi e altri, cause riunite C-387/02, C391/02, C-403/02; sent. 11.3.2008, Jager, C-42006; sent. 28.4.2011, El Dridi,
C 61/11, nella quale si afferma che “il giudice del rinvio dovrà tenere debito

conto del principio dell’applicazione retroattiva della pena più mite, il quale fa
parte delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri”).
Non è possibile trarre dalle norme sopra menzionate la conclusione della loro
natura di fonti di garanzie e di diritti direttamente operanti a favore dei cittadini
degli Stati membri dell’Unione, trattandosi comunque di regole che si indirizzano
alle istituzioni europee e agli Stati membri.
Ciò non di meno, il nuovo tenore dell’art. 117, co. 1 Cost. (quale scaturito
dalla legge costituzionale 18.10.2001, n. 3), per il quale “La potestà legislativa è
esercitata dallo Stato e dalle regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei
vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”,

ha

offerto il supporto ad una ricostruzione del sistema delle fonti nella quale le

13

o il diritto internazionale. Parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di

norme della CEDU hanno valore di parametro di legittimità della normativa
nazionale, quali norme interposte tra legge ordinaria e Costituzione (C. cost.,
sentenze n. 348 e 349 del 2007). Sicchè “la norma CEDU, nel momento in cui va
ad integrare il primo comma dell’art. 117 Cost., da questo ripete il suo rango nel
sistema delle fonti, con tutto ciò che segue, in termini di interpretazione e
bilanciamento”da parte del giudice delle leggi (sentenza n. 317 del 2009).

Le implicazioni nell’ambito del principio di retroattività della norma più
favorevole sono state tratte dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 236 del

dell’uomo a riguardo della derivazione della regola della retroazione favorevole
dall’art. 7 CEDU (sentenza 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia, nella
quale si legge che “se la legge penale in vigore al momento della commissione
del reato e le leggi penali posteriori adottate prima della pronuncia definitiva
sono diverse, il giudice deve applicare quella le cui disposizioni sono più
favorevoli all’imputato”),

ha affermato che: a) nell’art. 7 CEDU il principio in

parola non ha una rigidità maggiore di quello che aveva già trovato
riconoscimento nella giurisprudenza di questa Corte, nel senso di non tollerare
deroghe o limitazioni giustificate da situazioni particolari; b) nella CEDU quel
principio incontra il limite del giudicato, diversamente da quanto prevede nel
nostro ordinamento l’art. 2, secondo e terzo comma, cod. pen.; c) il principio di
retroattività della

lex mitior

riconosciuto dalla CEDU concerne le sole

«disposizioni che definiscono i reati e le pene che li reprimono» e, quindi, non
coincide con quello che è regolato dall’art. 2, quarto comma, cod. pen., che
riguarda ogni disposizione penale successiva alla commissione del fatto, che
apporti modifiche in melius di qualunque genere alla disciplina di una fattispecie
criminosa, incidendo sul complessivo trattamento riservato al reo.

10. Così delineato il principio in parola, si può rapidamente svolgere la parte
finale di questo excursus.
Il quesito che si pone nel caso che occupa è se la regola appena ricordata
possa trovare applicazione anche quando la norma successiva più favorevole sia
stata dichiarata incostituzionale. Infatti, si consideri che, a riguardo dei fatti non
lievi, l’art. 73, co. 1, nel testo dettato dalla legge n. 49/2006 punisce le
condotte ivi delineate, aventi quali possibili oggetti tanto le cd. droghe pesanti
che le cd. droghe leggere, con la pena da sei a venti anni di reclusione (si omette
per brevità il riferimento alla multa, irrilevante ai fini che qui occupano). La
norma scaturita dall’approvazione del d.p.r. n. 309/90, e rivivificata dalla
pronuncia di incostituzionalità, prevede per le droghe pesanti la pena da otto a
venti anni di reclusione e per le droghe leggere la pena da due a sei anni di

14

19.7.2011, che, tenuto conto di quanto precisato dalla Corte europea dei diritti

reclusione. E’ quindi possibile – ma il rilievo considera unicamente la
commisurazione della pena – che un fatto commesso sotto la vigenza dell’art. 73,
co. 1 d.p.r. 309/90 trovi nella norma dichiarata incostituzionale la norma più
favorevole.
La risposta deve essere negativa. Secondo quanto affermato dalla Corte
costituzionale, “il principio di retroattività della norma penale più favorevole in
tanto è destinato a trovare applicazione, in quanto la norma sopravvenuta sia, di
per sè, costituzionalmente legittima. Il nuovo apprezzamento del disvalore del

tutela del principio di eguaglianza – l’estensione a ritroso del trattamento più
favorevole, a chi ha commesso il fatto violando scientemente la norma penale
più severa, solo a condizione che quella nuova valutazione non contrasti essa
stessa con i precetti della Costituzione. La lex mitior deve risultare, in altre
parole, validamente emanata: non soltanto sul piano formale della regolarità del
procedimento dell’atto legislativo che l’ha introdotta e, in generale, della
disciplina delle fonti (v., con riferimento alla mancata conversione di un decretolegge, sentenza n. 51 del 1985); ma anche sul piano sostanziale del rispetto dei
valori espressi dalle norme costituzionali. Altrimenti, non v’è ragione per
derogare alla regola sancita dai citati art. 136, primo comma, Cost. e 30, terzo
comma, della legge n. 87 del 1953, non potendosi ammettere che una norma
costituzionalmente illegittima – rimasta in vigore, in ipotesi, anche per un solo
giorno – determini, paradossalmente, l’impunità o l’abbattimento della risposta
punitiva, non soltanto per i fatti commessi quel giorno, ma con riferimento a tutti
i fatti pregressi, posti in essere nel vigore dell’incriminazione o
dell’incriminazione più severa”(sent. n. 394 del 23.11.2006).
L’affermazione è stata resa prima che con la sentenza Scoppola c. Italia si
pervenisse alla netta presa di posizione della Corte Edu a favore del principio di
retroattività della norma più favorevole. Tuttavia, come si è visto, i lineamenti
che quel principio assume non sono stati ritenuti, allo stato, tali da determinarne
una più ampia area di applicazione. Per quel che qui interessa, non sembra che
dalla giurisprudenza di Strasburgo emergano ragioni per ritenere che sia da
rivedere la regola posta dalla Corte costituzionale a riguardo del limite al
principio in parola derivante dalla invalidità della lex mitior. In proposito, è
opportuno rammentare che compete al giudice delle leggi verificare in che modo
la giurisprudenza della Corte europea si inserisce nell’ordinamento nazionale. Se
da un verso non è sindacabile l’interpretazione della Convenzione fornita dalla
Corte di Strasburgo in quanto le norme della CEDU devono essere applicate nel
significato loro attribuito da quella Corte (C. cost. sentenze n. 1 e 113/2011, n.
93/2010, n. 239 e 311/2009, n. 39/2008, n. 348 e 349/2007), dall’altro la Corte

15

fatto, successivamente operato dal legislatore, può giustificare – in chiave di

costituzionale deve

“valutare come ed in qual misura il prodotto

dell’interpretazione della Corte europea si inserisca nell’ordinamento
costituzionale italiano” (sentenza n. 317/2009), in modo da tener conto delle
peculiarità dell’ordinamento giuridico in cui la norma convenzionale è destinata a
inserirsi (sentenza n. 311/2009 e n. 236/2011).
Tanto implica che i fatti commessi prima della vigenza della legge 49/2006
trovano disciplina sempre nel d.p.r. 309/90 (che troverà motivo di comparazione
solo con la previsione del d.l. n. 146/2013 e quindi limitatamente ai fatti lievi).

del principio di retroattività della norma penale più favorevole a cospetto della
previsione dell’art. 136 Cost., laddove pone la regola dell’efficacia ex tunc della
dichiarazione di illegittimità costituzionale.
La tutela attenuata del principio ne giustifica la sottordinazione.
Per contro, i fatti commessi sotto la vigenza della norma incostituzionale
devono trovare in essa la loro disciplina quando la legge pregressa (che si
ripropone per effetto della dichiarazione di incostituzionalità) sia meno
favorevole; e ciò proprio per il valore assoluto del principio di irretroattività della
norma meno favorevole.

11. Tirando le somme del discorso sin qui condotto, va in primo luogo
rammentato che l’applicazione del principio di prevalenza della lex mitior, nei
termini sopra esposti, richiede di tener conto della disposizione in concreto
complessivamente più favorevole; in nessun caso potrà procedersi, evocando il
favor rei, alla formazione di una ‘terza’ norma, costituita dalla combinazione di
parti di disposizioni diverse, perchè in tal modo si verrebbe ad applicare una
terza fattispecie di carattere intertemporale non prevista dal legislatore, violando
così il principio di legalità (ex multis, Sez. 4, n. 36757 del 04/06/2004 – dep.
17/09/2004, Perino, Rv. 229687; Sez. 4, n. 42496 del 19/09/2012 – dep.
31/10/2012, P.G. in proc. Mercuri, Rv. 254613).
Nella materia che occupa, tanto significa dover tener conto dell’eventuale
giudizio di bilanciamento operato dal giudice, non potendosi individuare la

lex

mitior sulla scorta del solo fatto dell’avvenuta concessione della attenuante del
fatto lieve.
Pertanto, si rileva che:
– per i fatti commessi sotto la vigenza del d.p.r. n. 309/90 e quindi sino al
27.2.2006 incluso, trova applicazione:
– quanto ai fatti non lievi, unicamente la disciplina dell’art. 73, co. 1 e
4 d.p.r. n. 309/90;

16

Il fondamento normativo di tale soluzione si rinviene nella natura recessiva

me

– quanto ai fatti lievi, occorre distinguere a seconda che si tratti di
droghe pesanti, per le quali si applicherà il comma 5 come sostituito
dal d.l. n. 146/2013 anche in caso di ritenuta prevalenza
dell’attenuante (per il più elevato massimo edittale della
disposizione più risalente), ovvero di droghe leggere, per i quali
trova applicazione il comma 5, nella versione del 1990, ma solo se
l’ipotesi attenuta non risulta elisa dall’eventuale giudizio di
bilanciamento; ove ritenuta equivalente o subvalente, trova

per i fatti commessi sotto la vigenza della legge n. 49/2006 e quindi dal
28.2.2006 al 24.12.2013:
– quanto ai fatti non lievi, trova applicazione la legge n. 49/2006 ove
si tratti di droga pesante; nel caso di droga leggera, trova
applicazione l’art. 73, co. 4 d.p.r. n. 309/1990;
– quanto ai fatti lievi, ove trattasi di droghe pesanti risulta in ogni
caso più favorevole il d.l. n. 146/2013; ove si tratti di droghe
leggere, assume rilievo l’esito dell’eventuale giudizio di
comparazione di cui all’art. 69 cod. pen.
Ove questo abbia visto assegnare prevalenza alla circostanza
attenuante speciale, norma più favorevole risulterà il comma 5 del
d.p.r. n. 309/90 come introdotto dall’art. 14 della I. n. 162/1990.
Ove il giudizio di bilanciamento abbia visto equivalente o subvalente
la circostanza del fatto lieve, risulterà più favorevole la norma
introdotta dal d.l. n. 146/2013.
Deve tuttavia essere rimarcato che, in tutti i casi nei quali risulterebbe più
favorevole l’attuale testo dell’art. 73, co. 5, dovrà tenersi conto della eventuale
ritenuta sostituibilità della pena principale con quella del lavoro di pubblica
utilità, che prevista unicamente dalla legge n. 49/2006, rende la medesima lex
mitior nel caso concreto (sempre che la pena non sia stata inflitta in misura

superiore a cinque anni di reclusione).

12. Quanto sin qui esposto dà conto delle ragioni per le quali la sentenza
impugnata deve essere annullata, limitatamente alla determinazione del
trattamento sanzionatorio, con rinvio alla Corte di Appello di Catania.
Nel caso che occupa, infatti, poiché il reato è stato commesso sotto la
vigenza della norma incostituzionale è ben possibile tenerne conto ai fini della
identificazione della lex mitior. Lex mitior che, dovendo rimanere ferma la
configurazione del fatto come lieve, e trattandosi di droga pesante (cocaina),
risulta essere la norma di più recente introduzione. La pena inflitta allo

applicazione la norma di più recente introduzione;

Spampinato, giudicato con il rito abbreviato, è stata determinata a partire da
una pena base di anni sei di reclusione ed euro 27.000 di multa, sulla quale,
risultando eliso dal giudizio di bilanciamento l’effetto diminuente della ritenuta
circostanza attenuante del fatto lieve, si è apportata la riduzione prevista per il
rito. Pertanto, tale pena risulta illegale perché la qualificazione del fatto come
lieve deve comportare l’applicazione della nuova disciplina, in quanto più
favorevole al reo, con la necessità di rideterminare la pena. Operazione che
implica una integrale rinnovazione del giudizio di commisurazione, in funzione

ritenuta – e quindi non ritrattabile – recidiva; giudizio che non può che essere
riservato al giudice del merito.
P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata, con rinvio e limitatamente alla determinazione
della misura della pena. Rigetta nel resto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 28/2/2014.

della nuova cornice edittale da assumersi a riferimento e della incidenza della

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