Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 13448 del 12/02/2014


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Penale Sent. Sez. 6 Num. 13448 Anno 2014
Presidente: CONTI GIOVANNI
Relatore: CITTERIO CARLO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
BOUSBER ABDELKADER N. IL 01/01/1976
avverso l’ordinanza n. 3935/2007 CORTE APPELLO di MILANO, del
04/07/2012
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. CARLO CITTERIO;
lette/septife le conclusioni del PG Dott.
etovi.yeirt

Udit i dife sor Avv.;

Data Udienza: 12/02/2014

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1

CONSIDERATO IN FATTO
1. Nell’interesse dell’imputato Abdelkader Bousber, il difensore ricorre per
cassazione avverso l’ordinanza con la quale il 4.7.2012 la Corte d’appello di Milano
ha dichiarato inammissibile l’atto di impugnazione dallo stesso presentato contro la
condanna per i delitti di resistenza e lesioni personali, come deliberata dal Tribunale

è del 13.6.2005; il fascicolo processuale è pervenuto a questa Corte suprema in
data 23.8.2013). Contesta che le richieste di rivisitazione migliorativa del
trattamento sanzionatorio siano state formulate in termini non integranti “uno
specifico ed argomentato motivo”, evidenziando che d’altra parte la sentenza di
primo grado sostanzialmente era argomentata con il generico richiamo ai criteri
indicati dell’art. 133 c.p..

2. Il procuratore generale in sede ha presentato conclusioni scritte per
l’inammissibilità del ricorso.

RAGIONI DELLA DECISIONE
3. Nell’attuale sistema processuale penale, il giudizio d’appello ha il compito di
verificare e rivalutare l’adeguatezza del dispositivo deliberato in primo grado
rispetto all’imputazione ed al contenuto, probatorio e in rito, del fascicolo
processuale (nei limiti del devoluto, salvi i poteri d’ufficio ex art. 129 e 597 c.p.p.,
con pienezza di apprezzamento e quindi con gli stessi poteri del primo giudice del
merito).
Il giudizio di legittimità, invece, ha il compito di verificare se la decisione del
giudice d’appello ha bene applicato norme sostanziali o processuali espressamente
sanzionate e, specialmente per quanto qui rileva, se è stata argomentata con una
motivazione non apparente o inesistente su aspetti determinanti per la
deliberazione e, altresì, immune dai vizi di contraddittorietà, interna o con specifici
atti probatori determinanti (considerati esistenti quando così non è o ignorati
quando in realtà erano presenti), e di ‘manifesta’ illogicità.
Tale caratteristica della cognizione del giudice di legittimità fonda l’assunto
comune, secondo il quale nel processo di legittimità ‘imputata’ è la sentenza.
Invece nel giudizio di appello la motivazione della sentenza di primo grado, in
realtà, diviene un parametro essenziale per la decisione solo quando il giudice di

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di Milano in data 18.12.2006 (il fatto, accaduto all’interno della Casa circondariale,

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secondo grado giudichi necessario modificarne il dispositivo (in ragione del cd.
obbligo rafforzato di motivazione: per tutte,

Sez.6, sentenze n. 8705/2013,

5879/2013 e 22120/2009; 18081/2011, 46742/2013).
Questo spiega la diversa dizione normativa che indica il contenuto (ed i limiti)
della cognizione dei due giudizi: i ‘punti’ della decisione (SU sent. 10251/2007), per
il primo (597.1); i ‘motivi’ proposti, per il secondo (609.1).

diverso contenuto che in essi assume il (medesimo) requisito di ‘specificità’ del
motivo (sempre necessario pena la sua originaria inammissibilità: 581.1 lett.c- e
591.1 lett. c-), sia l’inconfigurabilità nel giudizio d’appello della causa di
inammissibilità del motivo costituita, per il giudizio di cassazione, dalla sua
‘manifesta infondatezza’ (606.3).

3.2 Quanto al requisito della ‘specificità’ del motivo ed al suo diverso
atteggiarsi nei due giudizi sono esemplari, per la nitidezza dell’argomentare e la
chiarezza dell’insegnamento, oltretutto nella loro significativa distanza temporale, le
sentenze di questa Corte suprema Sez. 1 n. 12066/1992 e Sez.2 n. 36406/2012.
La prima decisione doveva risolvere la questione di diritto dell’ammissibilità
dell’atto di appello presentato dopo la deliberazione ma prima del deposito della sua
motivazione. Pur in tale peculiare contesto, la sentenza riflette dichiaratamente in
via generale e sistematica sull’applicabilità della categoria della genericità ai motivi
di impugnazione per il giudizio di appello. Osserva in particolare che «nell’ambito
dei punti investiti dai motivi la cognizione del giudice di appello non è vincolata alle
alternative proposte con i motivi della parte (così come avviene per il giudizio di
cassazione), bensì può estendersi, a guisa di nuovo giudizio, su tutte le questioni
prospettabili e su tutto il materiale del giudizio … Nell’ambito del giudizio di appello
è sufficiente che la parte indichi specificamente i punti della sentenza di primo
grado che richiede che siano riesaminati dal giudice di appello, indicando le ragioni
della richiesta (cfr. art. 581 lett. c, c.p.p. vigente). Nell’ambito del devoluto il
giudice di appello potrà riesaminare liberamente il materiale del giudizio, senza
essere vincolato alle ragioni dei motivi». Ciò che è necessario per l’ammissibilità
dei motivi d’appello è pertanto (solo) che essi «non siano inficiati da una evidente
genericità di per sé soli>>.
La seconda decisione ha chiarito con netta affermazione che il giudice
d’appello è tenuto (nell’ambito e per l’effetto del principio devolutivo) a rivisitare “in
toto” i capi ed i punti della sentenza di primo grado oggetto di impugnazione: da

3.1 La diversità strutturale dei due giudizi di impugnazione spiega altresì sia il

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qui l’ammissibilità dell’appello che pur riproponga censure già esaminate e
confutate dal giudice di primo grado. Tale pronuncia spiega che «in punto di
genericità non possono applicarsi all’appello gli stessi parametri che operano
rispetto al ricorso per cassazione. Infatti, nell’ambito del giudizio di appello è
sufficiente che la parte indichi specificamente i punti della sentenza di primo grado
che richiede che siano riesaminati dal giudice di appello, indicando le ragioni della
richiesta. Ciò in quanto con i motivi d’appello, che non siano inficiati da una

dell’impugnazione dà al giudice di appello la possibilità di riesaminare il materiale
del giudizio senza vincoli che non siano quelli del limite del punto impugnato».
Nel caso concreto deciso dalla Corte, l’appello «per ciascun capo indicava, in
modo sintetico ma puntuale, le ragioni delle censure. Né può affermarsi che tali
censure erano state già esaminate e confutate dal giudice di primo grado»
perché, spiega, «tale rilievo, se è pertinente nell’ambito del giudizio di
cassazione, nel quale costituisce motivo di “aspecificità” la mancanza di
correlazione tra le ragioni argomentative della decisione impugnata e quelle poste a
fondamento dell’impugnazione, non può essere utilizzato con riferimento al giudizio
di appello in considerazione dell’effetto devolutivo dei motivi di impugnazione, che
consente ed impone al giudice di secondo grado la rivisitazione dei capi e punti
impugnati».

3.3 L’affermazione che la riproposizione di questioni tutte già prospettate in
primo grado e disattese dal primo giudice non integra la genericità del motivo di
impugnazione per il giudizio di appello (per la strutturale destinazione di questo
grado alla piena rivisitazione del merito) è ribadita anche da
1470/2013.

Sez.3, sent.

Questa pronuncia, tuttavia (e richiamandosi a corrispondente

affermazione contenuta in Sez.4, ord. 48469/2011) contiene un assunto che non
può essere condiviso nella sua concreta formulazione, perché quantomeno
fuorviante: quello secondo cui «in sede di appello, l’esigenza di specificità del
motivo di gravame ben può essere intesa e valutata con minore rigore rispetto al
giudizio di legittimità, avuto riguardo alla peculiarità di quest’ultimo».
In realtà, come ben evidenziato già nelle richiamate sentenze

Sez. 1 n.

12066/1992 e Sez.2 n. 36406/2012 (e come efficacemente spiegato pure da Sez.6,
sent. 21873/2011, secondo cui «non può ritenersi che, rispetto al giudizio di
cassazione, le esigenze di specificità dei motivi siano attenuate nel giudizio di
appello, che è competente a rivalutare anche il fatto», nonché da Sez. 6 sentenze
1770/2013 e 9093/2013), il requisito della specificità del motivo deve sempre

evidente genericità di per sé soli, l’individuazione dei punti della sentenza oggetto

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essere valutato con il medesimo “rigore” in entrambe le impugnazioni (per l’appello
e per la cassazione), costituendo come già accennato requisito indefettibile di
entrambe, pena l’inammissibilità del motivo stesso.
La diversità dell’operare del medesimo requisito nei due giudizi attiene
pertanto non alla minore o maggiore intensità del “rigore” nella sua valutazione,
bensì alla diversità strutturale dei due giudizi. Così, la riproposizione di questioni già
esaminate e disattese dal giudice del provvedimento impugnato non è causa di

la rivisitazione integrale del punto ‘attaccato’, con i medesimi poteri del primo
giudice ed anche a prescindere dalle ragioni dedotte nel motivo, quindi potendosi,
fisiologicamente, rivedere e modificare l’apprezzamento con cui il primo giudice
aveva disatteso la stessa richiesta (immediatamente esemplificativo il diverso
possibile giudizio sull”equità’ di una determinata pena per un determinato fatto e
in relazione ad un determinato imputato: che è quanto poi accaduto nella
fattispecie, v. oltre sub 6). Lo è invece per il giudizio di cassazione, perché in esso
la censura deve colpire uno dei vizi della motivazione tassativamente indicati dalla
lettera E del primo comma dell’art. 606 c.p.p. e una deduzione che invece
riproponga la censura presentata al giudice d’appello senza confrontarsi con la
risposta da questi argomentata e le sue ragioni, per ciò solo esula dalla struttura
del giudizio di legittimità (Sez.5, sent. 28011/2013; Sez.6, sent. 22445/2009;
Sez.5, sent. 11933/2005; Sez.4, sent. 15497/2002; Sez. 5, sent. 2896/1999).
In sintesi, mentre per il giudizio di cassazione è generico anche il motivo che
si caratterizza per l’omesso confronto argomentativo con la motivazione della
sentenza impugnata, per il giudizio d’appello rileva solo la genericità intrinseca al
motivo stesso, prescindendo da ogni confronto con quanto argomentato dal giudice
del provvedimento impugnato (argomentazioni cui ben può il giudice d’appello
richiamarsi per rigettare l’impugnazione che si fondi sulla reiterazione di deduzioni
già disattese).
La genericità intrinseca del motivo d’appello si determina quando esso, pur
nella libertà della formulazione, non indichi con chiarezza le ragioni di diritto e gli
elementi di fatto che lo sorreggono, con esplicito riferimento al caso concreto e in
modo pertinente al punto della decisione cui il motivo stesso si riferisce (per tutte,
Sez.6, sentenze 1770/2013 e 21873/2011 cit.).

3.4 Deve pertanto essere affermato il principio di diritto che il motivo
d’appello è inammissibile per mancanza di specificità quando, in sé considerata (e
quindi prescindendo dalla motivazione del provvedimento impugnato), la deduzione

i

genericità del motivo d’appello perché il giudizio di secondo grado ha per contenuto

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che lo sorregge non è pertinente al caso concreto e non è formulata in termini tali
da indicare dove la verifica autonoma del giudice d’appello deve indirizzarsi e da
consentire, sulla base di quanto dedotto, un apprezzamento tendenzialmente
idoneo ad orientare la decisione del punto devoluto.

3.5 E’ poi certamente illegittima una valutazione preventiva del giudice
d’appello che riconduca all’inammissibilità originaria del motivo di ricorso la sua

inammissibilità che presuppone una valutazione della censura nel suo contenuto.
Essa può definirsi l’evidente intrinseca inidoneità delle ragioni dedotte a fondare la
conclusione che si intende perseguire con l’impugnazione, in relazione al contenuto
del provvedimento impugnato. In altri termini, la previsione dell’inammissibilità per
manifesta infondatezza attribuisce al giudice la possibilità di una sorta di
anticipazione della decisione con rito semplificato (e quindi con una contrazione
delle usuali forme del contraddittorio previste per le varie tipologie del giudizio): il
legislatore richiede l’evidenza della intrinseca inconsistenza della censura, e ciò
giustifica sul piano sistematico l’eccezione alla pienezza dell’esercizio del diritto di
difesa nelle forme usuali, in congrua consonanza con i principi della ragionevole
durata del processo e dell’efficienza della giurisdizione.
Proprio per la sua natura di apprezzamento che giudica nel loro contenuto le
questioni dedotte, la ‘manifesta infondatezza’ dell’impugnazione può essere causa
di inammissibilità originaria dell’atto di impugnazione solo nei casi in cui il non
irragionevole esercizio della discrezionalità del legislatore l’abbia espressamente
prevista (606.3; 41.1, 48.2, 634.1, 666.2).
Nessuna norma tra quelle che disciplinano in via generale le impugnazioni (in
particolare non l’art. 591, sull’inammissibilità dell’impugnazione) e in modo
specifico il giudizio d’appello (593-605) prevede la possibilità per il giudice del
secondo grado di merito di anticipare una valutazione di infondatezza dell’atto di
appello, pur quando essa sia evidente, a momento antecedente la sentenza.
Sicché, a fronte di un motivo d’appello che superi il vaglio della specificità,
nessun apprezzamento sulla sua infondatezza pur evidente può legittimare una
preliminare dichiarazione di originaria inammissibilità da parte del giudice del
merito, che eviti la fase del giudizio. Né osta alla conclusione indicata, in quanto
con esso non contraddittorio ma coerente a tale ricostruzione sistematica,
l’insegnamento della Corte di legittimità che esclude il vizio di motivazione quando il
giudice d’appello ometta di rispondere, in sentenza, a motivo d’appello che sia
manifestamente infondato (da ultimo Sez.5, sent. 27202/13): infatti, ogni vizio

i

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‘manifesta infondatezza’. La manifesta infondatezza del motivo è causa di

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della motivazione, tra quelli previsti dall’art. 606. lett. e), rileva in quanto, oltre che
sussistente, sia pure determinante per la deliberazione; il che non è quando la
deduzione rimasta priva di risposta sia valutata dal giudice di legittimità
manifestamente infondata.

4.

Quando delibera l’inammissibilità originaria dell’appello, il giudice del

secondo grado di merito deve dar conto specifico della sussistenza, nel caso

impugnazione, di una delle ragioni indicate dall’art. 591 c.p.p.. Nel valutare la
sussistenza del requisito della specificità della doglianza difensiva, non potrà poi
ignorare il tenore della motivazione del provvedimento impugnato, quando ciò
possa essere utile al giudizio positivo: si pensi ad un motivo d’appello che chiede
pena equa, senza particolari approfondimenti, a fronte di una motivazione che sul
punto della quantificazione della sanzione si sia limitata ad affermare
assertivamente l’adeguatezza della pena in concreto applicata.

5. Nel caso concreto, la sentenza di primo grado motiva il trattamento
sanzionatorio nei seguenti termini: spiega l’applicazione delle attenuanti generiche
“per meglio adeguare la pena al caso concreto”; “stima equo”, “tenuto conto dei
criteri di cui all’art. 133 c.p. ed ai sensi dell’art. 69 comma terzo c.p.” le
quantificazioni che poi indica come pena base e aumento per la ritenuta
continuazione. L’appello lamentava l’eccessività della pena e dell’aumento per la
continuazione, nonché la mancata prevalenza delle attenuanti generiche,
evidenziando la mancanza di concretezza nella motivazione del trattamento
sanzionatorio e le conclusioni della pubblica accusa conformi alle proprie, in
definitiva criticando come eccessivamente rigorosa la sanzione complessivamente
applicata.
Si tratta di fattispecie di rilievo scolastico, nella quale a fronte di un’assertiva
valutazione di adeguatezza della pena applicata, l’interessato ne protesta
l’inadeguatezza, nelle sue diverse articolazioni. Chiari i punti ‘attaccati’, specifica la
ragione della doglianza (l’erroneità della ritenuta, con apprezzamento assertivo,
‘adeguatezza’), evidenti l’individuazione dell’ambito di cognizione devoluto al
giudice d’appello e il contenuto del giudizio richiestogli, previa rivalutazione
complessiva della vicenda: se quella pena fosse o meno adeguata.
Per contro la Corte ambrosiana risponde con stile ‘modulistico’, addirittura
parlando di “motivazione ampia, congrua e argomentata su tutti i punti rilevanti per
la decisione”, e di “puntuale e ampio apparato argomentativo della decisione di

concreto, e quindi confrontandosi puntualmente con quel determinato atto di

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primo grado”: una successione di clausole di stile idonee ad ogni caso e quindi a
nessuno.

6. L’ordinanza andrebbe pertanto annullata per mancanza di motivazione e le
considerazioni che precedono sul contenuto degli originari motivi d’appello
imporrebbero la trasmissione degli atti per la celebrazione del relativo giudizio.
Ma i reati si sono prescritti alla data del 13.2.2013 (dopo la deliberazione

da parte della Corte milanese a questa Corte suprema).
E’ consolidata la giurisprudenza di legittimità che ritiene la prevalenza della
causa di improcedibilità per estinzione del reato dovuta all’intervenuta prescrizione
sui vizi della motivazione del provvedimento impugnato (per l’assorbente ed
insuperabile rilievo che il primo atto del giudizio d’appello dovrebbe consistere nel
dichiarare l’improcedibilità dell’azione penale per la sopravvenuta prescrizione
quando, come nella specie, non rinunciata).
Da qui l’annullamento dell’ordinanza della Corte d’appello e della sentenza di
primo grado, per tale avvenuta estinzione dei reati per cui si procede.

P.Q.M.
Annulla senza rinvio l’ordinanza impugnata e la sentenza del Tribunale di
Milano in data 18 dicembre 2006 perché i reati sono estinti per prescrizione.
Così deciso in Roma, il 12.2.2014

dell’ordinanza di inammissibilità e prima della trasmissione del fascicolo processuale

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