Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 13364 del 10/01/2014


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 13364 Anno 2014
Presidente: LOMBARDI ALFREDO MARIA
Relatore: VESSICHELLI MARIA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
LOMBARDI MADDALENA N. IL 11/10/1962
avverso il decreto n. 162/2011 CORTE APPELLO di NAPOLI, del
27/09/2012
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. MARIA VESSICHELLI;
jj
-r».5, kt
e le conclusioni del PG Dott. /’ QatL
lette/s
•….

••■••■

Uditi difensor Avv.;

Data Udienza: 10/01/2014

Fatto e diritto
Propone ricorso per cassazione, Lombardi Maddalena, avverso il decreto della Corte d’appello
di Napoli -Sezione misure di prevenzione -in data 27 settembre 2012, con il quale, in parziale
riforma di quello di primo grado (del 2011), è stato ridotto, ad anni tre, il periodo di durata
della misura di prevenzione della sorveglianza speciale, applicata alla Lombardi, ed è stata
invece confermata la cauzione di € 15.000.
Deduce il difensore, la totale mancanza di motivazione, nella prospettiva della invocata

n. 575 del 1965, ossia in ragione della pericolosità qualificata della proposta, imputata e
condannata in primo grado per un episodio di estorsione, aggravato ai sensi dell’art. 7 I. n.
203 del 1991, la difesa aveva inteso dimostrare, attraverso la produzione della sentenza del
secondo grado di giudizio, relativo al medesimo processo, che la aggravante in questione era
stata esclusa ed erano state altresì concesse le circostanze attenuanti generiche: elementi, a
suo parere, capaci di provocare la necessaria rivalutazione del carattere della attualità della
prognosi di pericolosità, già formulata.
Ed invece la Corte d’appello non aveva affatto esaminato e tantomeno valutato la incidenza
della produzione documentale.
Il Procuratore Generale ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso, osservando che è
inammissibile la richiesta formulata dalla difesa sulla sola base della sentenza nel separato
processo penale e senza, per giunta, aggredire la motivazione comunque resa dalla Corte
territoriale.
Il ricorso è inammissibile, conformemente alle conclusioni scritte del Procuratore Generale, sia
pure per ragioni anche ulteriori.
Per giustificare la declaratoria di inammissibilità, è sufficiente rilevare che, nel procedimento di
prevenzione, il ricorso per cassazione è ammesso solo per violazione di legge, con la
conseguenza che il vizio della motivazione del decreto può essere dedotto solo qualora se ne
deduca l’inesistenza o la mera apparenza.
Nel caso di specie, invero, la difesa ricorre alla denuncia di assenza di motivazione su un punto
decisivo, ma proprio tale denuncia è destituita di qualsiasi fondamento.
del decreto impugnato evidenzia la presa in
Infatti, il ricco impianto motivazionale
considerazione delle conclusioni raggiunte dal giudice nel separato processo penale, in grado
di appello. Tanto che i giudici a quibus motivano le ragioni per le quali se ne discostano
consapevolmente, evocando, a pag. 4, il principio della autonomia valutativa del giudice della
prevenzione rispetto al giudice penale ” da poco riaffermato dalla Corte costituzionale con
sentenza n. 21 del 9 febbraio 2012″.
In altri termini, nelle quattro cartelle delle quali si compone il provvedimento impugnato, la
Corte spiega con dovizia di particolari, in fatto e in diritto ( vedi il particolare dello schiaffo
inferto in pubblico , e con modalità di intimidazione derivanti dall’appartenenza al clan, al
dipendente dal quale, la proposta, pretendeva la restituzione di una parte dello stipendio che
quello aveva ricevuto dal custode giudiziario, insediatosi, a seguito di sequestro, nella gestione
del supermercato, al quale il marito della proposta medesima, capo di un clan camorristico, era
direttamente interessato), le ragioni per le quali il comportamento accertato a carico della
ricorrente era comunque rilevante e sufficiente a giustificare la sussistenza dei presupposti per
la adozione e il mantenimento della misura.

1

rivalutazione della attualità della pericolosità della proposta, di una prova prodotta in appello.
Ed invero, posto che la misura di prevenzione personale era stata disposta ai sensi dell’ad 1 I.

E cioè, i giudici del merito hanno chiarito,

a prescindere anche dalla esclusione della
aggravante dell’art. n. 7 citata, ad opera del giudice penale, perché il comportamento della
proposta si connotasse comunque di particolari tali da consentirne la qualificazione, se non
come sintomatico di partecipazione o responsabilità per una condotta comunque denotata da
caratura mafiosa, certamente, sul piano almeno indiziario, come indicativo di una più generale

Ed è pacifico che il giudice della prevenzione abbia esercitato poteri valutativi ad esso spettanti
secondo la costante giurisprudenza di legittimità che ha più volte ripetuto che, in tema di
misure di prevenzione, persino l’assoluzione (anche se irrevocabile) dal delitto di cui all’art.
416 bis cod. pen. non comporta automatica esclusione della pericolosità del soggetto, quando
la valutazione di tale requisito sia stata effettuata in base ad elementi distinti, anche se
desumibili dai medesimi fatti storici venuti in rilievo nella sentenza di assoluzione (Sez. 5,
Sentenza n. 145 del 12/01/1999 Cc. (dep. 23/04/1999 ) Rv. 213189; Conformi Sezioni Unite:
N. 18 del 1996 Rv. 205261).
A tutto ciò va aggiunto anche che i motivi di ricorso, del tutto impropriamente sul piano stesso
della logica, lamentano la mancata valutazione della sentenza della Corte d’appello e della
esclusione della aggravante dell’art. 7 , soltanto nella prospettiva della necessità di
rivalutazione sulla “attualità” della detta pericolosità e non, piuttosto, in quella più radicale,
della ( ipotetica) caducazione dei presupposti di fatto per la operatività della misura di
prevenzione personale.
Sul punto, invero, il provvedimento impugnato è ugualmente irreprensibile poiché richiama la
costante giurisprudenza che, in tema di applicazione di misure di prevenzione personali
all'”appartenente” ad associazioni di tipo mafiosa, presume il perdurare della pericolosità, in
assenza di elementi concreti- diversi dal decorrere del tempo- che evidenzino la rescissione del
vincolo o dei rapporti con lo stesso clan.
Ed è indubbio che tali elementi non potrebbero che essere circostanziali rispetto al dato- di
partenza del ragionamento- della predetta appartenenza e, quindi, viceversa, non possono
essere ricercati in circostanze che sarebbero capaci, ontologicamente, ove verificate, di far
cadere il presupposto stesso della affermazione della appartenenza: queste ultime ( tra esse
comprese, in linea di principio, la sentenza assolutoria o quella che esclude la aggravante
speciale), ove ricorrenti, potrebbero, infatti, dover comportare il venir meno della misura per
assenza della pericolosità ab origine e non già per assenza di attualità della medesima, posto
che l’accertamento giudiziario è, evidentemente, “ora per allora”.
Alla inammissibilità consegue, ex art. 616 cpp, la condanna della ricorrente al versamento, in
favore della cassa delle ammende, di una somma che appare equo determinare in euro 1000.
PQM
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del
procedimento ed a versare alla cassa delle ammende la somma di euro 1000.
Così deciso in Roma ill0 gennaio 2014

Il Presidente

“appartenenza” della donna “al clan camorristico Russo”: ossia della riferibilità, ad essa, della
categoria menzionata dall’art. 1 I. n. 565 del 1965, che giustificava la perdurante applicabilità
della misura di prevenzione personale.

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