Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 13361 del 12/12/2013


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 13361 Anno 2014
Presidente: MARASCA GENNARO
Relatore: GUARDIANO ALFREDO

SENTENZA

sui ricorsi proposti da
Roveto Romano, nato a Cetraro il 23.9.1961, e da Roveto Adriana, nata
a Cetraro il 18.6.1976, avverso il decreto emesso dalla corte di appello
di Milano il 22.10.2012;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed i ricorsi;
udita la relazione svolta dal consigliere dott. Alfredo Guardiano;
letta la requisitoria scritta con cui il pubblico ministero, nella persona del
sostituto procuratore generale dott. Pietro Gaeta, ha concluso per
l’inammissibilità di entrambi i ricorsi.

FATTO E DIRITTO

1. Con decreto del 22.10.2012 la corte di appello di Milano confermava il
decreto con cui il tribunale di Milano, in data 4.4.2012, aveva applicato

Data Udienza: 12/12/2013

la misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale di p.s.,
con obbligo di soggiorno nel comune di residenza o di abituale dimora,
per la durata di anni tre nei confronti di Roveto Romano, nonché la
misura di prevenzione patrimoniale della confisca avente ad oggetto una
serie di beni, mobili ed immobili, specificamente indicati nel
provvedimento oggetto di ricorso, nei confronti del suddetto Roveto e
della sorella Roveto Adriana.

ricorso, a mezzo dei rispettivi difensori di fiducia, Roveto Romano e
Roveto Adriana, deducendo autonomi motivi di impugnazione.
In particolare Roveto Adriana, nel ricorso a firma dell’avv. Andrea
Tomaselli, lamenta violazione di legge e mancanza di motivazione del
provvedimento impugnato in riferimento all’art. 26, d.lgs. 6.9.2011, n.
159.
Roveto Romano, con il ricorso a firma dell’avv. Mario Murgo, lamenta: 1)
violazione di legge e mancanza di motivazione del provvedimento
impugnato in ordine alla applicazione della misura di prevenzione
personale, avendo la corte territoriale omesso di considerare che i
precedenti penali del Roveto si limitano a due violazioni dell’art. 73,
d.p.r. 309/90, non essendo mai stato indagato, né condannato il
proposto per il reato di cui all’art. 74, d.p.r. 309/90, per cui, da un lato
risulta priva di fondamento l’affermazione del giudice di secondo grado,
secondo cui il Roveto avrebbe avuto “contatti ad alto livello col mondo
del narcotraffico già a partire dagli anni ottanta”, dall’altro nel caso in
esame non è applicabile l’ipotesi di cui agli artt. 1 e 2 della I. n. 575 del
1965, dovendosi, semmai, procedere nei modi prescritti dall’art. 4, I. n.
1423 del 1956, con notifica del prescritto avviso orale da parte del
questore competente; 2) violazione di legge e vizio di motivazione del
provvedimento impugnato, in relazione all’art. 26, d.lgs. n. 159 del
2011, con riferimento alla nullità, dichiarata dal tribunale, dell’atto di
donazione del 29.11.2004, con cui il Roveto aveva donato alla sorella
Adriana i beni confiscati, atteso che tra la conclusione dell’atto a titolo
gratuito e la proposta di applicazione della misura di prevenzione del

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2. Avverso tale decreto, di cui chiedono l’annullamento, hanno proposto

16.9.2011, sono trascorsi più dei due anni dai quali la menzionata
disposizione normativa fa discendere la presunzione del carattere fittizio
delle intestazioni di beni effettuate dal proposto; né costituisce, ad
avviso del ricorrente, “indice valido a supportare la pretesa intestazione
fittizia dei beni il rilascio da Roveto Adriana al fratello Romano Roveto di
una procura generale”, trattandosi di “un atto legato unicamente ed
esclusivamente al rapporto familiare ed alle esigenze personali di

“appaiono pretestuose e unicamente funzionali a sostenere le ipotesi
ablative, giacché nessun indice in tal senso è desumibile al riguardo”; 3)
violazione di legge e vizio di motivazione del provvedimento impugnato
in relazione ai singoli beni oggetto di confisca, per avere la corte
territoriale, con motivazione generica e fondata su mere presunzioni,
ritenuto dimostrata la provenienza illecita di tali beni, trascurando, “non
nella forma, ma nella sostanza”, le allegazioni documentali depositate
dal proposto già nel giudizio innanzi al tribunale e di seguito arricchite
con ulteriori allegazioni, accluse al ricorso, unitamente ad una memoria
del proposto.
3. Con memoria depositata il 6.12.2013, a firma degli avv. Murgo e
Giovanni Aricò, il ricorrente insiste per l’accoglimento del ricorso,
evidenziando ancora una volta come il Roveto non sia mai stato
indagato, sottoposto a giudizio o condannato per reati associativi e che
la corte di appello di Brescia, con sentenza del 9.10.2013, ha revocato la
sentenza pronunciata dal tribunale di Milano il 30.9.2009, confermata
dalla corte di appello di Milano il 3.11.2010, con cui era stata affermata
la responsabilità del Roveto per il fatto commesso il 24 marzo 2009,
ritenuto rilevante dalla corte di appello di Milano ai fini della conferma
dell’applicazione della misura di prevenzione.
4. I ricorsi vanno dichiarati inammissibili, per diverse ragioni.
5. Ed invero, con riferimento al ricorso della Roveto Adriana, terza
interessata, va rilevato che costituisce orientamento da tempo
consolidato nella giurisprudenza di legittimità, condiviso dal Collegio,
quello secondo cui in tema di procedimento di prevenzione, il difensore

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Adriana Roveto”, per cui le argomentazioni svolte dalla corte territoriale

del terzo interessato, non munito di procura speciale, non è legittimato a
ricorrere per cassazione avverso il decreto che dispone la misura di
prevenzione della confisca, gravando sul terzo interessato, in quanto
portatore di interessi civilistici, un onere di patrocinio, che é soddisfatto
solo attraverso il conferimento di procura alle liti al difensore (cfr., ex
plurimis, Cass., sez. II, 27/03/2012, n. 27037, B., rv. 253404; Cass.,
sez. VI, 23/10/2012, n. 7510, E. e altro, rv. 254580).

ricorso presentato dal difensore di fiducia della Roveto, avv. Andrea
Tomaselli, sfornito di procura speciale.
6. In relazione al ricorso proposto dal Roveto Romano, va osservato che
in materia di misure di prevenzione il ricorso per cassazione è
circoscritto entro confini rigorosi, che sono stati definiti dalla
elaborazione della giurisprudenza di legittimità sviluppatasi in sede di
interpretazione dell’art. 4, co. 11, I. 27 dicembre 1956, n. 1423,
(attualmente sostituito dall’art. 10, co. 3, d. Ivo. 6 settembre 2011, n.
159) che, in virtù del richiamo ad esso operato dall’art. 3 ter, co. 2, I. 31
maggio 1965, n. 575, (attualmente sostituito dall’art. 27, co. 2, d. Ivo. 6
settembre 2011, n. 159) disciplina le impugnazioni avverso le misure di
prevenzione personali e patrimoniali, prevedendo che contro il
provvedimento con cui la corte di appello decide sull’impugnazione
proposta, è ammesso ricorso in Cassazione solo “per violazione di
legge”.
Proprio alla luce del chiaro dettato normativo, secondo quello che appare
come un orientamento ormai consolidato nella giurisprudenza del
Supremo Collegio, si è affermato che in materia di misure di prevenzione
il ricorso per cassazione può essere proposto soltanto per violazione di
legge, in cui sono compresi i vizi di mancanza della motivazione e di
motivazione apparente, sicché è inammissibile il ricorso con cui vengano
denunciati i vizi di contraddittorietà o di illogicità manifesta della
motivazione ovvero diretto a far valere vizi che non rendano la
motivazione del tutto carente e priva dei requisiti minimi di coerenza e
di logicità tale da risultare meramente apparente (cfr., Cass., sez. I,

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Nel caso in esame siffatto onere non è stato adempiuto, essendo stato il

17.1/2011, n. 5838, P.; Cass., sez. I, 12.1.2011, n. 5117, M.; Cass.,
sez. I, 10.12.2010, n. 580, V.).
Ne consegue che le censure prospettate dal Roveto Romano (ed invero
anche dalla sorella Adriana) nei motivi di ricorso, risolvendosi, ictu ocu/i,
da un lato in una mera prospettazione alternativa delle risultanze
processuali rispetto a quanto già valutato nel merito dai giudici di primo
e di secondo grado, dall’altro in una generica doglianza sulla mancanza

risultano inammissibili.
7 Ciò appare in particolar modo evidente ove si tenga conto, come
correttamente evidenziato nella requisitoria scritta del pubblico
ministero, che la corte territoriale, lungi dall’adottare una motivazione
inesistente o apparente, ha puntualmente disatteso, anche riportandosi
al contenuto della motivazione del tribunale, le singole doglianze
difensive riportate nei motivi di ricorso, che appaiono come una mera,
acritica riproposizione dei motivi di appello, sottolineando, con
approfondita, analitica ed articolata motivazione, corredata da pertinenti
richiami giurisprudenziali, la sussistenza, nel caso in esame, di tutti i
presupposti di legge per l’applicazione delle due misure di sicurezza,
personale e patrimoniale, con particolare riferimento sia al requisito
della attualità della pericolosità sociale, desunta, tra l’altro, dalle
numerose condanne per reati in materia di droga (rispetto alle quali
appare irrilevante la decisione cui ha fatto riferimento il ricorrente nella
memoria del 6.12.2013, che, comunque, sotto questo profilo, sollecita
una valutazione di merito non consentita in questa sede), “che
restituiscono l’immagine di un soggetto profondamente radicato nei
traffici di stupefacenti” (cfr. pp. 11-14), sia alla sproporzione dei beni
oggetto di confisca del proposto rispetto alla sua capacità reddituale (cfr.
pp. 14-27), soffermandosi, inoltre, specificamente sulle ragioni per cui
deve considerarsi del tutto fittizia la donazione apparentemente
effettuata dal Roveto in favore della sorella Adriana il 29 novembre 2004
(cfr. p. 27).

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di motivazione effettiva del provvedimento della corte territoriale,

6. Sulla base delle svolte considerazioni i ricorsi di cui in premessa
vanno dichiarati inammissibili, con condanna di ciascun ricorrente, ai
sensi dell’art. 616, c.p.p., al pagamento delle spese del procedimento,
nonché in favore della cassa delle ammende di una somma a titolo di
sanzione pecuniaria, che appare equo fissare in euro 1000,00, tenuto
conto della manifesta inammissibilità dei motivi di ricorso, rispetto ai
quali i difensori dei ricorrenti non possono ritenersi immuni da colpa (cfr.

P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento
delle spese processuali e della somma di euro 1000,00 a favore della
cassa delle ammende.
Così deciso in Roma il 12.12.2013

Corte Costituzionale, n. 186 del 13.6.2000).

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