Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 13343 del 28/01/2014


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 13343 Anno 2014
Presidente: TERESI ALFREDO
Relatore: FRANCO AMEDEO

SENTENZA
sul ricorso proposto da Pizzolla Francesco, nato a Taranto il 23.12.1957;
avverso l’ordinanza emessa il 12 luglio 2013 dal tribunale del riesame di
Lecce;
udita nella udienza in camera di consiglio del 28 gennaio 2014 la relazione fatta dal Consigliere Amedeo Franco;
udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale
dott. Gabriele Mazzotta, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso;
uditfrk i’. difensor, avv. Gaetano Vitale; w.
Svolgimento de/processo
Con l’ordinanza in epigrafe il tribunale del riesame di Lecce confermò
l’ordinanza 12 giugno 2013 del Gip del tribunale di Lecce, che aveva disposto
la misura cautelare della custodia in carcere nei confronti di Pizzolla Francesco, in riferimento ai reati di cui agli artt. 416 bis e 74 d.P.R. 309 del 1990,
nonché a plurimi reati fine di spaccio di cui all’art. 73 d.p.R. 309 del 1990.
L’indagato, a mezzo dell’avv. Gaetano Vitale, propone ricorso per cassazione deducendo:
1) violazione di legge degli artt. 273, 274 e 275 cod. proc. pen. e mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione anche per omessa
valutazione di atti rilevanti.
Lamenta che la motivazione dell’ordinanza impugnata è meramente apparente ed acriticamente ripetitiva delle considerazioni svolte nella ordinanza cautelare, senza esaminare le eccezioni della difesa e con omessa considerazione di
atti rilevanti e travisamento della prova.
2) in ordine ai reati di cui agli artt. 416 bis cod. pen., 74 e 73 d.p.R. 309
del 1990, osserva che l’ordinanza impugnata si limita a rinviare alla ordinanza

Data Udienza: 28/01/2014

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. genetica per il motivo che il complesso delle circostanze indizianti non potrebbe essere sintetizzato. Osserva che gli elementi ritenuti dal tribunale del riesame
costitutivi del sodalizio mafioso non fanno mai riferimento alcuno a Pizzolla
Francesco, che appare totalmente estraneo ai fatti contestati. Del resto
l’ordinanza impugnata parla genericamente di associazione mafiosa gravante
intorno ad alcuni esponenti della famiglia Taurino. L’appartenenza di Pizzolla
Francesco all’associazione è desunta solo dal suo concorso in alcuni singoli delitti, dato che nella motivazione non si rileva alcun altro elemento indiziario
della sua partecipazione. E’ manifestamente illogica la valutazione di alcuni
servizi di osservazione e allegati fotografici, i quali anzi indicano assoluta estraneità alla associazione ed una sua collocazione quasi autonoma.
3) mancanza assoluta di motivazione e motivazione meramente apparente
su specifiche doglianze indicate nell’atto di gravame.
4) manifesta illogicità della motivazione laddove ritiene unica misura adeguata la custodia cautelare in carcere.
Motivi della decisione
Il ricorso si risolve in una censura in punto di fatto della decisione impugnata, con la quale si richiede una nuova e diversa valutazione delle risultanze
processuali riservata al giudice del merito e non consentita in questa sede di legittimità, ed è comunque manifestamente infondato, avendo il tribunale del riesame fornito congrua, specifica ed adeguata motivazione sulle ragioni per le
quali ha ritenuto sussistenti gravi indizi di colpevolezza in ordine ai reati contestati, nonché le esigenze cautelari e l’adeguatezza della misura applicata.
In particolare, l’ordinanza impugnata ha desunto i gravi indizi sulla sussistenza del contestato sodalizio mafioso: – dalla genesi stessa del sodalizio, radicatosi nel quartiere Isola Porta Napoli di Taranto, all’indomani dei provvedimenti giudiziari che attinsero i vertici di due preesistenti clan, creando le premesse, per effetto del vuoto di potere creatosi, dell’insediarsi e dello strutturarsi
in senso conforme alla fattispecie incriminatrice, del clan Taurino, composto
essenzialmente da soggetti legati anche da vincoli parentali nonché da pregiudicati locali già affiliati ai preesistenti sodalizi mafiosi; – dai due significativi episodi costituiti dal ferimento di Vito Attolino, intervenuto nella lite insorta tra il
fratello ed i generi di Ignazio Taurino (e dal relativo clima di omertà e reticenza
direttamente percepito nel corso delle indagini) e dalla tentata estorsione in
danno di Titania S.r.l., attuata da Ignazio Taurino con minacce di gravi ritorsioni all’interno del ristorante della stessa famiglia, fatto da cui, emergeva il controllo territoriale da parte del clan; – dalla capacità, da parte dell’associazione,
attraverso la figura apicale di Giuseppe Taurino, di assegnazione e ripartizione
delle varie zone da destinare allo spaccio, con l’effetto, evidentemente conseguente all’intimidazione dalla stessa promanante, di escludere altri aspiranti
gruppi malavitosi dediti allo spaccio da dette aree; ed in particolare dalle frasi
pronunciate da Nicola Taurino in relazione alla richiesta di una azione di forza
contro chi aveva occupato una zona riservata all’associazione; – dalla gestione
dell’attività economica inerente il commercio ambulante, anche in occasione
delle manifestazioni pubbliche; – dal prospettato ricorso, in diverse occasioni,
da parte dell’associazione (e dello stesso Nicola Taurino), ad atti di violenza

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funzionali a consolidare l’intimidazione dalla stessa promanante; – dal controllo
del territorio da parte del sodalizio, in grado di fare affidamento, per effetto dello stato di assoggettamento, in vere e proprie forme di solidarietà e di accondiscendenza nei confronti dei membri della consorteria (come nell’episodio
dell’arresto di Umberto Conte); – dalla significativa dichiarazione di Nicola
Taurino di aver chiamato l’ingegnere proprietario dell’albergo Akropolis, ubicato nelle immediate vicinanze del Circolo Subway, per sapere se la PG avesse o
meno installato delle microspie sui balconi della propria struttura ricettiva; dalla disponibilità di armi da parte del sodalizio; – dal controllo delle attività
produttive di lucro (quali quelle legate all’imminente arrivo di studenti universitari in città per l’inaugurazione di una nuova sede dell’ateneo tarantino); – dalla tutela legale assicurata ai consociati, sotto forma di mutua assistenza.
E’ quindi pienamente congrua ed adeguata la motivazione con la quale sono stati ritenuti sussistenti gravi indizi sull’esistenza, nel territorio di Taranto
vecchia, di un organismo associativo di stampo mafioso, gravitante intorno alla
figura di alcuni esponenti della famiglia Taurino, finalizzato essenzialmente al
traffico di sostanze stupefacenti nonché al compimento di una serie indeterminata di altri delitti, funzionali ad acquisire, mediante l’intimidazione e l’assoggettamento, il controllo di altre attività economiche all’interno del quartiere.
Per quanto concerne il reato di cui all’art. 74 d.P.R. 309 del 1990, il tribunale del riesame ha ritenuto quali indici positivi dell’esistenza del sodalizio criminoso: 1) il contatto tra gli imputati; 2) il numero di episodi accertati, essi
stessi espressione di un accordo che travalicava le singole operazioni di cessioni o di approvvigionamento di stupefacenti; 3) la disponibilità di mezzi (e segnatamente di due basi logistiche nel Quartiere Isola Porta Napoli di Taranto);
4) il riprodursi di uno schema operativo sostanzialmente identico per ciascuna
delle operazioni poste in essere; 5) la ripartizione di compiti tra gli associati,
con le svariate funzioni, rispettivamente, di approvvigionamento, di smercio, di
monitoraggio delle illecite transazioni.
Quanto specificamente alla posizione di Pizzolla Francesco, l’ordinanza
impugnata ha ritenuto che nei confronti di questi i gravi indizi di colpevolezza
si desumevano: – dall’episodio relativo alla perquisizione domiciliare effettuata
dalla GdF, alla ricerca di sostanza stupefacente, a casa di Daniele Basile, in occasione della quale Pizzolla Francesco si prodigò a contattare due avvocati, invitandoli con toni perentori, a presenziare alla perquisizione in atto, allo scopo
di assicurare tutela legale al proprio consociato; – dalla intercettazione del dialogo fra Ivan Mattia e Pizzolla Francesco, nel corso del quale il Pizzolla riferiva
al suo interlocutore di una discussione avuta in precedenza con un terzo soggetto non identificato, che pare avesse lamentato al Pizzolla il mancato sostegno
alle famiglie dei propri sodali ín stato di arresto; – dal fatto che nel medesimo
episodio il Pizzolla implicitamente confermava la sua disponibilità a garantire
ai propri consociati e alle proprie famiglie i mezzi necessari al loro sostentamento durante il periodo di reclusione di taluno dei sodali; – dal fatto che il Pizzolla aveva un ruolo di rilievo all’interno del sodalizio, con potere di coordinamento dell’attività di spaccio perpetrata presso il civ. 202 di via Duomo, dove lo
stesso veniva notato in compagnia del Mattia a ricevere denaro provento di ces-

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sione di sostanza stupefacente, a cedere o a ricevere richieste di droga da parte
di potenziali acquirenti e ad impartire direttive ai correi; – dal fatto che dalle indagini svolte appariva che il Pizzolla e il Mattia avevano il compito di procacciare la sostanza stupefacente del tipo cocaina da mettere successivamente sul
mercato, per conto del clan e che quindi il primo aveva un ruolo di spicco all’interno del sodalizio, ruolo avvalorato dagli ulteriori riferimenti trattati in dettaglio nell’ordinanza impositiva.
L’ordinanza impugnata ha poi, con congrua ed adeguata motivazione, rilevato che il Pizzolla era personalmente coinvolto nei reati fine che gli sono specificamente attribuiti, per i quali ricorreva uno schema operativo sempre identico, ricavabile sulla base dei seguenti elementi di fatto, compiutamente documentati dai contestuali servizi di osservazione ed allegati fotografici: 1) la presenza sistematica e quotidiana nei luoghi destinati allo spaccio; 2) l’arrivo del
potenziale acquirente, a piedi o a bordo di un mezzo, il quale, fermatosi in prossimità del gruppetto formulava la richiesta di stupefacente conversando indifferentemente con uno qualsiasi degli indagati, essendo evidentemente nota al
mercato dei consumatori, la fungibilità dei ruoli rivestiti dagli associati e la
condivisa detenzione della droga da destinare alla vendita; 3) a trattativa conclusa, il dirigersi di uno degli indagati verso il luogo di “stoccaggio” dello stupefacente; 4) il contestuale servizio di monitoraggio, da parte degli altri indagati, reso evidente dalla loro vigile e accorta presenza durante le trattative e, ancor
più, dalla vigilanza svolta durante il momento nevralgico dell’apprensione dello
stupefacente, da parte del correo di turno, ai fini della consegna all’acquirente;
5) la materiale dazione della droga acquistata e l’allontanarsi dell’acquirente.
L’ordinanza impugnata, quindi, ha specificamente elencato i gravi elementi indiziari dai quali emerge la partecipazione dell’indagato ai singoli reati di
spaccio contestatigli.
Il terzo ed il quarto motivo sono anch’essi del tutto generici, perché non
vengono indicate le specifiche doglianze avanzate con la richiesta di riesame e
che non sarebbero state esaminate né i vizi di motivazione e gli elementi di fatto
pretermessi in relazione alla scelta della misura.
In ogni modo, l’ordinanza impugnata ha, con congrua ed adeguata motivazione, anche qui con richiamo alle considerazioni della ordinanza del Gip, ritenuto che sussistevano le esigenze cautelari per il pericolo di commissione di
gravi delitti della stessa specie di quello per cui si procede e che la misura carceraria era adeguata e indispensabile. Il tribunale del riesame ha osservato che il
ricorrente risponde del delitto di cui all’art. 416 bis c.p., per il quale vige la presunzione assoluta di adeguatezza esclusiva della custodia in carcere, mentre
nella specie non risultavano elementi atti a dimostrare l’insussistenza di esigenze cautelari.
Il ricorso deve in conclusione essere dichiarato inammissibile per manifesta infondatezza e genericità dei motivi.
In applicazione dell’art. 616 cod. proc. pen., segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di elementi che possano far ritenere non colpevole la causa di inammissibilità del ricorso, al pagamento in favore della cassa delle ammende di una somma, che, in considerazio-

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ne delle ragioni di inammissibilità del ricorso stesso, si ritiene congruo fissare
in € 1.000,00.
Per questi motivi
La Corte Suprema di Cassazione
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 1.000,00 in favore della cassa delle
ammende.
La Corte dispone inoltre che copia del presente provvedimento sia trasmessa al direttore dell’istituto penitenziario competente perché provveda a
quanto stabilito dall’art. 94, co. 1 ter, disp. att. cod. proc. pen.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte Suprema di Cassazione, il 28
gennaio 2014.

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