Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 128 del 22/11/2013


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 128 Anno 2014
Presidente: MANNINO SAVERIO FELICE
Relatore: AMORESANO SILVIO

SENTENZA

sui ricorsi proposti da:
1) Gallace Bruno
2) Romagnoli Tiziano
3) Romagnoli Umberto

nato il 14.2.1972
nato il 26.3.1989
nato il 16.8.1947

avverso l’ordinanza dell’1.7.2013
del Tribunale di Roma
sentita la relazione svolta dal Consigliere Silvio Amoresano
sentite le conclusioni del P. G., dr. Mario Fraticelli, che ha
chiesto il rigetto dei ricorsi
sentito il difensore di Gallace Bruno,avv.Francesco Lojacono,
che ha concluso per l’accoglimento dei ricorsi

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Data Udienza: 22/11/2013

1. Con ordinanza in data 1.7.2013 il Tribunale di Roma rigettava le richieste di riesame
proposte da Gallace Bruno, Romagnoli Tiziano e Romagnoli Umberto, confermando l’ordinanza
emessa dal GIP del Tribunale di Roma il 28.5.2013, con la quale veniva applicata nei confronti
dei predetti la misura cautelare della custodia in carcere per il delitto di associazione per
delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti e per specifici reati-fine relativi alla detenzione
e spaccio di quantitativi anche rilevanti di cocaina ed hashish.
Il Tribunale rigettava, preliminarmente, l’eccezione del ne bis in idem cautelare sia perché gli
interessati non avevano adempiuto ad un onere di documentazione in relazione ad atti di altro
procedimento, sia perché, comunque, secondo la giurisprudenza di cassazione, il divieto
enunciato dall’art.649 c.p.p. presuppone l’avvenuto esercizio dell’azione penale in relazione
allo stesso fatto in diverso ed autonomo processo pendente presso lo stesso ufficio (e non era
questa certamente la fattispecie in esame).
Tutt’al più poteva ravvisarsi un’ipotesi di contestazione a catena ex art.297 c.3 c.p.p., ma tale
profilo esulava dal presente procedimento.
Assumeva, poi, il Tribunale che gravi indizi di colpevolezza dell’appartenenza degli indagati,
con il ruolo di capi ed organizzatori, al sodalizio criminoso finalizzato al traffico di stupefacenti
sul litorale romano, emergevano dalle intercettazioni telefoniche ed ambientali, che avevano
trovato riscontro nel sequestro, in numerose occasioni, di sostanze stupefacenti, e nell’arresto
in flagranza di alcuni degli indagati.
Sussistevano, infine, le esigenze cautelari ed unica misura adeguata risultava quella di
massimo rigore applicata.
2. Propongono distinti ricorsi per cassazione (ma di contenuto sostanzialmente identico) tutti
gli indagati, denunciando, con il primo motivo, l’inosservanza o erronea applicazione di legge in
relazione alla ritenuta non applicabilità del principio del ne bis in idem.
Dalla stessa sentenza della Suprema Corte richiamata dal Tribunale risulta che non vi è alcuna
preclusione legata allo stato del procedimento, per cui il divieto del ne bis in idem può trovare
applicazione anche nella fase delle indagini preliminari.
La condotta delittuosa ascritta in relazione al reato associativo presenta la perfetta identità
del fatto rispetto all’ordinanza emessa in precedenza, in data 27.3.2013, dallo stesso GIP del
Tribunale di Roma.
Con il secondo motivo denunciano la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della
motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza del reato associativo. Il Tribunale ha omesso
di motivare in ordine agli elementi costitutivi del reato associativo ed alla partecipazione dei
ricorrenti, nonostante le specifiche deduzioni difensive in proposito.
Ugualmente carente è la motivazione in ordine alla sussistenza delle esigenze cautelari ed alla
adeguatezza della misura applicata.
3. Ricorre per cassazione anche l’avv.Francesco Lojacono, nell’interesse di Gallace Bruno,
denunciando la violazione dell’art.649 c.p.p. in relazione all’art.74 DPR 309/90 e la mancanza,
contraddittorietà e/o manifesta illogicità della motivazione.
Non ricorre la ritenuta violazione dell’onere di allegazione, avendo lo stesso Tribunale dato
atto della presenza del decreto di fermo, cui ha fatto seguito l’ordinanza di custodia cautelare.
Peraltro il medesimo Tribunale, per dimostrare la persistente operatività dell’associazione,
richiama il precedente provvedimento restrittivo del 27.3.2013; lo stesso GIP poi, a pag.28
dell’ordinanza, riconosce l’identità del fatto contestato al ricorrente nei due provvedimenti. E
tale identità emerge con chiarezza dalla semplice lettura dell’imputazione, per cui doveva
trovare applicazione, prima ancora dell’art.297 co.3 c.p.p. (che riguarda la connessione
qualificata tra i fatti oggetto di contestazione) il principio del ne bis in idem.
Erroneamente poi il Tribunale, interpretando malamente la giurisprudenza di legittimità, ha
ritenuto non applicabile tale principio nella fase delle indagini preliminari.
Denuncia, inoltre, la violazione dell’art.273 co.2 c.p.p., con riferimento all’art.129 co.1 c.p.p.
ed il difetto di motivazione sul punto, non avendo il Tribunale tenuto conto del divieto di
iniziare l’azione penale per lo stesso fatto e nei confronti dello stesso soggetto, e quindi della
mancanza della condizione di procedibilità.

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RITENUTO IN FATTO

Denuncia, infine, la violazione dell’art.74 DPR 309/90 ed il difetto assoluto o carenza di
motivazione sul punto, non avendo il Tribunale tenuto conto dei rilievi contenuti nella memoria
difensiva in ordine alla insussistenza degli elementi costitutivi del reato associativo e del ruolo
del fornitore-associato attribuito al ricorrente.

CONSIDERATO IN DIRITTO

2. Per quanto riguarda l’eccezione di “ne bis in idem”, va ricordato che, a norma dell’art.649
c.p.p., l’imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili
non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto, neppure se
questo viene diversamente considerato per il titolo, per il grado o per le circostanze, salvo
quanto disposto dagli artt.69 comma 2 e 345″.
Come ha evidenziato anche il Tribunale, si è andato, però, affermando nella giurisprudenza di
questa Corte un orientamento, secondo cui il principio del “ne bis in idem” assume portata
generale nel vigente diritto processuale.
Secondo le Sezioni Unite di questa Corte, non può essere promossa l’azione penale per un
fatto e contro una persona per i quali già sia pendente (anche se in fase o grado diversi) nella
stessa sede giudiziaria e su iniziativa del medesimo ufficio del P.M., di talchè nel procedimento
eventualmente duplicato dev’essere disposta l’archiviazione oppure, se l’azione sia stata
esercitata, deve essere rilevata con sentenza la relativa causa di improcedibilità. La non
procedibilità consegue alla preclusione determinata dalla consumazione del potere già
esercitato dal P.M., ma riguarda solo le situazioni di litispendenza relative a procedimenti
pendenti avanti a giudici egualmente competenti e non produttive di una stasi del rapporto
processuale, come tali non regolate dalle disposizioni sui conflitti positivi di competenza, che
restano invece applicabili alle ipotesi di duplicazione del processo innanzi a giudici di diverse
sedi giudiziarie, uno dei quali è incompetente. (cfr. Cass. Sez. un. n.34655 del 28.6.2005).
Anche la giurisprudenza successiva ha ribadito che “In caso di contestuale pendenza presso lo
stesso ufficio (o presso uffici diversi della stessa sede giudiziaria) di più procedimenti penali
per uno stesso fatto e nei confronti della stessa persona, una volta esercitata l’azione penale
nell’ambito di uno di tali procedimenti, deve considerarsi indebita la reiterazione dell’esercizio
del potere di promuovere l’azione, assumendo in assenza di un’espressa disposizione
normativa, diretto rilievo il principio di “consumazione” del potere medesimo, correlato a quello
di “preclusione” del quale costituisce espressione il divieto di ” ne bis in idem” dopo la
formazione del giudicato; ne consegue che nell’ambito del secondo procedimento, va chiesta e
disposta l’archiviazione (ovvero, nel caso in cui l’azione penale sia stata già esercitata, ne va
dichiarata l’improcedibilità con sentenza” (Cass.pen.sez. 4, n. 25640 del 21.5.2008; conf.
Cass. Sez. 1 n.17789 del 10.4.2008).
Con specifico riferimento alla custodia cautelare, si è ritenuto pertanto che non è consentito, in
pendenza di un procedimento già definito in primo grado e pendente in appello, iniziare per lo
stesso fatto e nei confronti della stessa persona un nuovo procedimento, nel cui ambito venga
adottato un nuovo provvedimento cautelare personale (cfr. Cass.pen. sez. 6, n.1892 del
18.11.2004).
Come emerge chiaramente dagli arresti sopra richiamarti, pur riconoscendosi al principio del
“ne bis in idem” una portata generale, trovando esso espressione nelle norme sui conflitti di
competenza (artt.28 e ss. c.p.p.), nel divieto di un secondo giudizio (art.649 c.p.), nella
disciplina dell’ipotesi di una pluralità di sentenze per il medesimo fatto (art.669 c.p.p.), si
richiede comunque che l’azione penale sia stata già esercitata per lo stesso fatto e che quindi il
P.M. abbia già consumato il suo potere in proposito (con conseguente applicazione del
principio di “preclusione”).
2.1. Correttamente, pertanto, il Tribunale ha ritenuto che il caso di specie fosse piuttosto
disciplinato dall’art.297 co.3 c.p.p. che non riguarda solo la connessione qualificata tra i fatti
oggetto delle due contestazione (cfr. ricorso Gallace), ma anche lo “stesso fatto (“Se nei

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1. I ricorsi sono infondati e vanno, pertanto, rigettati.
Ad evitare inutili ripetizioni essi, essendo fondati in gran parte su motivi comuni, vanno trattati
congiuntamente.

3. In ordine agli altri motivi, va premesso, per quanto riguarda i limiti di sindacabilità in questa
sede dei provvedimenti “de libertate”, che, secondo giurisprudenza consolidata, la Corte di
Cassazione non ha alcun potere di revisione degli elementi materiali e fattuali delle vicende
indagate, ivi compreso lo spessore degli indizi, nè di rivalutazione delle condizioni soggettive
dell’indagato in relazione alle esigenze cautelari ed alla adeguatezza delle misure, trattandosi
di apprezzamenti di merito rientranti nel compito esclusivo del giudice che ha applicato la
misura e del tribunale del riesame. Il controllo di legittimità è quindi circoscritto all’esame del
contenuto dell’atto impugnato per verificare, da un lato, le ragioni giuridiche che lo hanno
determinato e, dall’altro, l’assenza di illogicità evidenti, ossia la congruità delle argomentazioni
rispetto al fine giustificativo del provvedimento (Cass.sez.6 n.2146 del 25.5.1995).
L’insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza ex art.273 c.p.p. e delle esigenze cautelari di cui
all’art.274 stesso codice è, quindi, rilevabile in cassazione soltanto se si traduce nella
violazione di specifiche norme di legge od in mancanza o manifesta illogicità della motivazione.
Il controllo di legittimità, in particolare, non riguarda né la ricostruzione dei fatti, né
l’apprezzamento del giudice di merito circa l’attendibilità delle fonti e la rilevanza e
concludenza dei dati probatori, per cui non sono consentite le censure, che pur investendo
formalmente la motivazione, si risolvono nella prospettazione di una diversa valutazione di
circostanze esaminate dal giudice di merito (cfr.ex multis Cass.sez.1 n.1769 del 23.3.1995).
Sicchè, ove venga denunciato il vizio di motivazione in ordine alla consistenza dei gravi indizi
di colpevolezza, è demandato al giudice di merito “la valutazione del peso probatorio” degli
stessi, mentre alla Corte di cassazione spetta solo il compito” …di verificare…, se il giudice di
merito abbia dato adeguatamente conto delle ragioni che l’hanno indotto ad affermare la
gravità del quadro indiziario a carico dell’indagato, controllando la congruenza della
motivazione riguardante la valutazione degli elementi indizianti rispetto ai canoni della logica
ed ai principi di diritto che governano l’apprezzamento delle risultanze probatorie” (Cass.sez.4
n.22500 del 3.5.2007).
3.1. Tanto premesso, il Tribunale ha ampiamente e correttamente motivato in ordine alla
gravità del quadro indiziario con riferimento all’esistenza del sodalizio criminoso ed al ruolo
ricoperto dai ricorrenti.
Ha esaminato in proposito il contenuto non equivoco delle intercettazioni telefoniche ed
ambientali, da cui si evinceva l’esistenza di una struttura di uomini e mezzi, con divisione di
compiti, capace di approvvigionarsi di rilevanti quantitativi di sostanze stupefacenti, per poi
smerciarli, con ampia disponibilità di mezzi e risorse (denaro, armi, luoghi di custodia).
Anche il ruolo di organizzatori e la posizione di preminenza degli indagati risulta
adeguatamente argomentata (pag. 6 e ss.).
Per quanto riguarda più specificamente il Gallace, il Tribunale ha evidenziato che egli non si
limitava a a rifornire i Romagnoli della sostanza stupefacente, che arrivava direttamente dalla

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confronti di un imputato sono emesse più ordinanze che dispongono la medesima misura per
uno stesso fatto…”).
Ha rilevato, però, in proposito il Riesame che tale profilo esulava dall’oggetto del procedimento
e che, comunque, la retrodatazione era allo stato “priva di conseguenze concrete”.
A parte il fatto che, a ben vedere, come risulta dal provvedimento impugnato (pag.5) e dallo
stesso ricorso Gallace, la contestazione del reato associativo non è “cronologicamente”
coincidente.
E, secondo la giurisprudenza di questa Corte “ai fini della retrodatazione dei termini di
decorrenza della custodia cautelare ai sensi dell’art.297, comma terzo, c.p.p., il presupposto
dell’anteriorità dei fatti oggetto della seconda ordinanza coercitiva, rispetto all’emissione della
prima, non ricorre allorchè il provvedimento successivo riguardi un reato di associazione e la
condotta di partecipazione alla stessa si sia protratta dopo l’emissione della prima ordinanza”
(Cfr. Cass.pen. sez. 6 n.31441 del 24.4.2012; conf. Cass. Sez. 1 n.20882 del 21.4.2010).
Infatti, nell’ipotesi di reati permanenti, per i quali l’incolpazione sia sta formulata con
cosiddetta “contestazione chiusa”, ossia con indicazione della data iniziale e finale della
condotta addebitata, costituisce fatto nuovo e diverso il protrarsi della condotta al di là della
pronuncia della sentenza di non luogo a procedere, sicchè può essere legittimamente disposta,
per tale fatto, l’applicazione di una misura cautelare senza che sia intervenuta la revoca della
pronuncia di proscioglimento (Cass.pen. sez. 6 n.45889 del 4.11.2011).

P. Q. M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Dispone inoltre che copia del presente provvedimento sia trasmessa al Direttore dell’istituto
penitenziario competente perché provveda a quanto stabilito dall’art.94 comma 1 bis norme di
attuazione c.p.p.
Così deciso in Roma il 22.11.2013

Calabria (pag.7), ma governava il sodalizio impartendo ordini a puscher e pretendendo la
regolarità dei pagamenti (pag.8 e ss.).
I ricorrenti, nel contestare l’esistenza dell’associazione ed il ruolo ricoperto all’interno della
stessa richiedono, sostanzialmente, una rivalutazione, non consentita in questa sede, degli
elementi indiziari.
Anche in ordine alle esigenze cautelari ed all’adeguatezza della misura di massimo rigore il
Tribunale ha correttamente argomentato.
Ha evidenziato, infatti, che il pericolo di recidivanza da parte di soggetti (Gallace Bruno e
Romagnoli Umberto), già gravati di precedenti specifici, era di tale intensità da non
consentire misure alternative a quella di massimo rigore. Peraltro, anche per soggetti
incensurati, come il Romagnoli Tiziano, soltanto la misura della detenzione in carcere era
idonea a scongiurare gli accertati rapporti familiari e personali su cui si fondava il contesto
organizzativo del sodalizio (pag.10,11).

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