Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 12180 del 07/06/2013


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 12180 Anno 2014
Presidente: ZECCA GAETANINO
Relatore: MICHELI PAOLO

SENTENZA

sul ricorso proposto nell’interesse di
De Gennaro Antonio, nato a Taranto il 10/09/1961

avverso la sentenza emessa il 12/03/2012 dalla Corte di appello di Milano

visti gli atti, la sentenza impugnata e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Dott. Paolo Micheli;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott.
Oscar Cedrangolo, che ha concluso chiedendo dichiararsi l’inammissibilità del
ricorso;
udito per le parti civili Fontana Angelica, Karagerorgevic De Jugoslavie Serge e
Regolo Luciano l’Avv. Daria Pesce, che ha

concluso chiedendo dichiararsi

l’inammissibilità del ricorso dell’imputato;
udito per le parti civili Rotondo Sergio, Ferrè Giusi, Gallo Antonio e Lo Vetro
Gianluca l’Avv. Valentina Ramella, che ha
l’inammissibilità del ricorso dell’imputato;

concluso chiedendo dichiararsi

Data Udienza: 07/06/2013

udito per il ricorrente l’Avv. Daniele Coliva, che ha concluso chiedendo
l’accoglimento del ricorso, e l’annullamento della sentenza impugnata; in
subordine dichiararsi la prescrizione dei reati contestati

RITENUTO IN FATTO

Il difensore di Antonio De Gennaro ricorre avverso la pronuncia della Corte di

emessa il 22/02/2010 dal Tribunale della stessa città nei confronti dello stesso
De Gennaro: il prevenuto era stato condannato in primo grado per più fatti di
diffamazione, in ipotesi commessi mediante la pubblicazione di articoli ritenuti
offensivi della reputazione di più soggetti (tra cui giornalisti ed avvocati),
pubblicazione avvenuta su vari siti web; all’esito del giudizio di appello, la Corte
territoriale confermava la declaratoria di penale responsabilità dell’imputato,
prendendo però atto della sopravvenuta prescrizione quanto ad alcuni degli
addebiti, con conseguente sentenza di non doversi procedere nei limiti anzidetti
e rideterminazione del trattamento sanzionatorio (la pena veniva ridotta ad anni
1 di reclusione).
Con l’odierno ricorso si lamenta:
violazione di legge processuale, quanto alla ritenuta inapplicabilità alla
fattispecie concreta dell’istituto di cui all’art. 266-bis cod. proc. pen.
Secondo il ricorrente, la procedura utilizzata dalla polizia giudiziaria per
accertare chi operasse accessi sui vari siti di interesse, idonei a
modificarne il contenuto e dunque non di semplice consultazione, avrebbe
dovuto intendersi una vera e propria intercettazione di flussi di
comunicazioni, non limitandosi alla presa d’atto del numero di quegli
accessi od all’eventuale localizzazione (sulla rete intemet) di chi ne fosse
autore, ma estendendosi alla verifica qualitativa della comunicazione
telematica. Osserva la difesa, in particolare, che «apprendere che un
determinato utente non solo si è collegato ad un determinato sito, ma
anche quali pagine abbia visitato, quanto vi si sia soffermato, se abbia
scaricato o trasferito dei dati, comporta la captazione dell’oggetto della
comunicazione, non la mera esistenza della comunicazione stessa»,
dovendosi così distinguere – anche in punto di disciplina delle modalità
formali di acquisizione –

le comunicazioni informatiche da quelle

telefoniche: infatti, mentre la documentazione di un traffico telefonico
mediante tabulati consente di verificare esclusivamente il dato del
contatto, «le informazioni fornite dal log riguardano non solo il contatto,

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appello di Milano del 12/03/2012, recante la parziale riforma della sentenza

ma anche il contenuto della comunicazione tra i due sistemi informatici e,
pertanto, anche il contenuto della interazione tra l’utente – persona fisica
e il server».
Sarebbe stato dunque necessario, per l’acquisizione dei dati in
argomento, un provvedimento motivato del G.i.p., a nulla rilevando la
presa d’atto che nella fattispecie concreta quell’ufficio venne in effetti
investito da una richiesta del P.M. ma denegò la propria competenza a
provvedere in merito

quanto alla ritenuta riconducibilità all’imputato della redazione e
pubblicazione degli articoli indicati in rubrica
Secondo il ricorrente, con riguardo alle emergenze istruttorie acquisite nel
corso del dibattimento di primo grado in ordine agli accessi sul sito
www.svanityfair.com , la Corte territoriale avrebbe travisato i risultati della
deposizione del teste Schiannini, il quale si limitò a rappresentare che
dalla porta 2083 (utilizzata più volte, secondo l’ipotesi accusatoria,
mediante un IP riconducibile all’imputato) era consentito solo accedere ad
una schermata successiva, denominata “C Panel”, ma per apportare dati
modificativi del contenuto del sito occorreva distinguere fra l’inserimento
di fotografie (già a quel punto possibile) e di testi (che invece richiedeva
l’accesso alla pagina “admin.php”. In proposito, non risultavano tracce di
collegamenti di sorta fra l’IP attribuito al De Gennaro e la pagina da
ultimo indicata
violazione di legge processuale e contraddittorietà della motivazione in
ordine agli accertamenti compiuti sui reperti informatici acquisiti
La difesa rappresenta che il P.M., dopo aver inviato alle parti interessate
avviso di accertamenti tecnici non ripetibili ex art. 360 del codice di rito, e
ricevuta contezza di una riserva di incidente probatorio nell’interesse del
De Gennaro, allora indagato, aveva comunque dato corso ad una
consulenza tecnica ai sensi dell’art. 359 cod. proc. pen., svolta peraltro su
una copia dei dischi degli apparati in sequestro (con la conseguente
ragionevolezza dell’ipotesi che quanto esaminato dai consulenti del P.M.
presentasse divergenze rispetto all’oggetto del successivo accertamento
peritale, anche in ragione della inidoneità degli ambienti in cui gli apparati
erano stati custoditi – per temperatura, umidità e presenza di campi
magnetici – a garantirne lo stato di conservazione).
Inoltre, i reperti in questione risultavano essere già stati manomessi in
precedenza, per un esame preliminare da parte della polizia giudiziaria

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– mancanza e contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata,

inosservanza di legge sostanziale e processuale, nonché carenza e
contraddittorietà della motivazione, quanto al ritenuto carattere
diffamatorio degli articoli oggetto di contestazione ed alla parimenti
ritenuta tempestività delle relative querele
Il ricorrente, premessa la contestazione di quanto affermato in sentenza,
secondo cui il De Gennaro non avrebbe mai messo in discussione
l’esistenza ed il contenuto di taluni degli articoli in ipotesi diffamatori, e
ribadito che la consumazione dei presunti reati dovrebbe collocarsi alle

singole persone offese ne erano venute a conoscenza), ripropone
partitamente le doglianze espresse nei motivi di appello su ciascuna delle
condotte, deducendo che la Corte territoriale non avrebbe in alcun modo
analizzato dette doglianze, limitandosi ad affermazioni apodittiche.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso deve qualificarsi inammissibile.
E’ infatti di palese evidenza che i motivi su cui il ricorso è fondato appaiono
riprodurre le stesse ragioni di doglianza già discusse e ritenute infondate dal
giudice del gravame: detti motivi debbono perciò considerarsi non specifici, in
quanto il difetto di specificità – rilevante ai sensi dell’art. 581, lett. c), cod. proc.
pen. – va apprezzato non solo in termini di indeterminatezza, ma anche «per la
mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e
quelle poste a fondamento dell’impugnazione, dal momento che quest’ultima non
può ignorare le esplicitazioni del giudice censurato, senza cadere nel vizio di
aspecificità che conduce, a norma dell’art. 591, comma 1, lett. c), cod. proc.
pen., all’inammissibilità dell’impugnazione» (Cass., Sez. II, n. 29108 del
15/07/2011, Cannavacciuolo).
1.1 Nel caso di specie, peraltro, non si è dinanzi soltanto ad un ricorso per
cassazione che non tiene conto di quanto i giudici di secondo grado avevano
inteso evidenziare: si deve piuttosto prendere atto che il ricorrente torna a
ribadire tout court tesi già disattese dal Tribunale, e che aveva altrettanto
acriticamente iterato nei motivi di appello, senza peritarsi di analizzare gli
argomenti spiegati (peraltro, assai diffusamente) dal giudice di prime cure. E’
infatti emblematico registrare che la Corte territoriale, a proposito del tema della
assimilabilità alle intercettazioni delle attività di indagine volte a localizzare nella
rete intemet le caselle di posta elettronica utilizzate dal De Gennaro, segnala che
il relativo motivo di appello risultava «inammissibile per carenza di specificità, in

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date di pubblicazione dei diversi articoli (piuttosto che in quelle in cui le

quanto ripropositivo di argomenti già esaminati e correttamente risotti dal
Tribunale», e che l’appellante sembrava «ignorare i passaggi essenziali della
motivazione, ed in particolare la considerazione che le intercettazioni regolate
dagli artt. 266 e 266-bis cod. proc. pen. attengono ad attività di ascolto (o
lettura) e registrazione di comunicazioni tra due o più persone, diversa
dall’attività di indagine volta a controllare a distanza, con modalità
tecnologicamente caratterizzata, non il flusso di comunicazioni che un soggetto
invia o riceve, ma la sua presenza in un dato luogo o momento, l’itinerario

A fronte di tali osservazioni, il ricorrente si limita a dedurre che la sentenza
impugnata non avrebbe «colto nel segno l’esatto tenore del motivo di gravame,
con il quale l’imputato ha contestato le conclusioni raggiunte dal Tribunale», per
poi ripetere testualmente il contenuto dei motivi di appello. Ripetizione
interrotta solo da un passaggio in cui il difensore del De Gennaro rappresenta di
non avere ignorato le indicazioni del Tribunale, contrariamente a quanto rilevato
dalla Corte territoriale, mentre sarebbe stata quest’ultima a travisare il dato
fattuale, «ricostruendo in termini di mero tracciamento dell’attività informatica
quella che in realtà era ed è l’intercettazione del flusso di comunicazioni previsto
dall’art. 266-bis cod. proc. pen.»: il che equivale appunto a ribadire la propria
tesi, tanto più che da quel momento in poi riprende il copia ed incolla dei motivi
di appello, salvo un inciso con il quale si sostiene che «il ragionamento della
Corte di appello è totalmente estraneo alla fattispecie tecnica sottostante».
In definitiva, non si chiarisce perché i giudici di secondo grado non
avrebbero compreso il senso delle censure dell’appellante, né dove possano
radicarsi i travisamenti in fatto loro addebitati.
Del resto, il ricorrente non si fa neppure carico di contestare l’assunto della
Corte milanese – in vero, ineccepibile – secondo cui, anche ai sensi delle
indicazioni offerte dal giudice delle leggi con la sentenza n. 320 del 2009, la
nozione di intercettazione (ai fini dell’applicabilità dei ricordati artt. 266 e
seguenti del codice di rito) attiene soltanto alla «apprensione occulta, in tempo
reale, di una comunicazione da parte di soggetti estranei alla stessa». A
riguardo, anche la giurisprudenza di legittimità risulta costantemente orientata
nel senso di ritenere che «le intercettazioni regolate dagli artt. 266 e ss. cod.
proc. pen. consistono nella captazione occulta e contestuale di una
comunicazione o conversazione tra due o più soggetti che agiscano con
l’intenzione di escludere altri e con modalità oggettivamente idonee allo scopo,
attuata da soggetto estraneo alla stessa mediante strumenti tecnici di percezione
tali da vanificare le cautele ordinariamente poste a protezione del suo carattere
riservato» (Cass., Sez. VI, n. 12189 del 09/02/2005, Rosi, Rv 231049).

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seguito, gli incontri avuti, ecc.».

Né si vede come possa intendersi intercettazione di un flusso di
comunicazioni, come vorrebbe la difesa, l’attività che si assume concretamente
realizzata dagli investigatori nel caso in esame, consistita nella verifica (non in
tempo reale) degli identificativi IP di coloro che avevano avuto accesso ai siti di
interesse come meri fruitori, ovvero come soggetti che provvedevano ad
aggiornarne il contenuto, e nell’invio di una comunicazione

via e-mail

rispondendo alla quale il De Gennaro rivelò di utilizzare un apparato
contraddistinto da un IP che lo indicava quale gestore dei siti in parola.

motivo di ricorso, a sua volta riproduttivo (anche nell’esatto contenuto testuale,
e addirittura nelle parti in grassetto) del contenuto dei motivi di appello avverso
la sentenza di primo grado. Non a caso, analogamente a quanto già rilevato in
precedenza, la Corte milanese reputa «altrettanto inammissibile, per difetto di
correlazione critica con la sentenza, oltre che infondato […], il secondo motivo di
appello, con il quale si contesta non il fatto che il De Gennaro fosse l’autore degli
articoli diffamatori […], ma che fosse l’amministratore dei siti ove gli stessi
venivano pubblicati, sulla base di una lettura del tutto opinabile, o meglio
destituita di fondamento, della deposizione del teste Schiannini circa la
funzionalità della porta 2083 e senza tenere in alcun conto le ragioni per le quali
il Tribunale è pervenuto alle sue conclusioni».
Al di là di una ribadita prospettazione di profili in fatto orientati ad una
ricostruzione alternativa del merito della vicenda, deve poi rilevarsi che il
ricorrente non accompagna alla riproduzione acritica delle doglianze un ragionato
esame della principale obiezione logica mossa dalla Corte territoriale alla
ricostruzione difensiva: vale a dire la circostanza che, ai fini della prova della
qualità di gestore da riconoscere al De Gennaro quanto ai siti su cui apparivano
gli articoli lesivi dell’altrui reputazione, in un

file del computer sequestrato

all’imputato risultavano conservate le relative password di amministrazione. Del
tutto inconsistente, in vero, appare il rilievo che non sarebbe stato dimostrato
che quelle fossero davvero le parole di accesso ai siti de quibus, non bastando
conservare delle chiavi con un cartellino che le indicano come relative ad una
certa abitazione, senza poi provare se ne aprano davvero la porta: da un lato
(oltre a non esservi spiegazione del perché, per usare l’immagine di cui
all’esempio del ricorrente, si dovrebbero tenere delle chiavi con un cartellino
sbagliato) l’accertamento sulle password in questione deriva da una consulenza
tecnica, dall’altro si tratta di un argomento squisitamente in fatto, estraneo ai
limiti del giudizio di legittimità.
1.3 Ancora più vistosa la genericità del motivo di ricorso afferente le possibili
manipolazioni dei reperti esaminati: si tratta di una ipotesi oggetto di mera

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1.2 Identiche considerazioni possono valere anche a proposito del secondo

allegazione, senza alcun riferimento concreto, come già rilevato dalla Corte di
appello che imputava alla difesa sia di non avere considerato le attestazioni del
perito – nominato in contraddittorio – sulla adozione di accorgimenti tecnici del
tutto idonei a scongiurare alterazioni di sorta, sia di esporre una censura di taglio
«generico e meramente assertivo, nonché privo di concludenza, in quanto non
solo non indica quali manipolazioni siano intervenute, ma neppure quale sia stata
l’incidenza di tali manipolazioni sul quadro probatorio».
Assumere che il dato informatico costituisca un “reperto volatile”, e che un

periti determini ipso facto una alterazione, risulta del tutto arbitrario: se è vero,
come osserva il ricorrente, che «non spetta […] alla difesa dimostrare dove,
quando e come sia avvenuta la presunta alterazione», occorre tuttavia che di
quest’ultima si indichi una possibilità concreta, e non già un’aleatoria eventualità.
1.4 Con riguardo all’ultimo motivo di ricorso, il difensore del De Gennaro
torna parimenti a ribadire gli stessi argomenti già esposti dinanzi ai giudici di
merito per contestare la valenza diffamatoria delle espressioni utilizzate nei
singoli articoli di cui le varie parti civili avevano avuto a dolersi: emblematico è
rilevare che, nella sistematica riproduzione letterale delle ragioni di gravame
avverso la sentenza di primo grado, vi risultano ancora sollecitazioni indirizzate
alla Corte di appello (v. l’analisi della presunta diffamazione in danno di Roberto
Alessi, che si apre con le parole «in primo luogo valuterà la Corte di appello la
tempestività della querela»). Laddove non ci si trovi dinanzi a mere ripetizioni
acritiche delle medesime doglianze, è peraltro di immediata evidenza la
manifesta infondatezza delle tesi difensive.
Infatti, il ricorrente segnala l’erroneità dell’assunto della Corte territoriale
secondo cui non vi sarebbe mai stata contestazione dell’esistenza e del
contenuto degli articoli diffamatori, ma lo fa osservando di avere comunque
negato la paternità degli scritti in questione (il che è ben altro problema, rispetto
alla presa d’atto di quale ne fosse la portata offensiva), quindi rilevando che dalla
mancata contestazione di un’accusa non può discendere la conclusione che
questa sia fondata: ciò è senz’altro vero, ma nella fattispecie soccorre l’analisi in
fatto – sia ad opera del Tribunale che dei giudici di secondo grado – delle
singole espressioni offensive della reputazione di coloro che venivano descritti
nel corpo degli articoli. A riguardo, a fronte di una capillare valutazione dei vari
epiteti ivi rinvenibili (da “marchetta” a “penna sporca”, da “compagno di
merende” a “evasore fiscale”, da “ex nobile squattrinato implicato in una retata”
ad azzeccagarbugli”), come pure della descrizione di vicende personali che vi era
offerta (crisi familiari, relazioni omosessuali, ecc.), la difesa replica reiterando
parola per parola censure già considerate irrilevanti.

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esame compiuto dalla polizia giudiziaria prima dell’intervento di consulenti e

Quanto al problema della tempestività delle querele, va in effetti ricordato
che, dopo la sentenza di legittimità richiamata nella motivazione della pronuncia
della Corte di appello, secondo cui il momento consumativo del delitto di
diffamazione realizzato mediante immissione di frasi o immagini nella rete
intemet coincide con l’attivazione del collegamento, questa stessa Sezione ha
avuto modo di ribadire il medesimo principio, precisando però che «l’interessato,
normalmente, ha notizia della immissione in intemet del messaggio offensivo o
accedendo direttamente “in rete” o mediante altri soggetti che, in tal modo, ne

immissione in rete e cognizione del diffamato, almeno una prossimità temporale
di essi, sempre che l’interessato non dia dimostrazione del contrario» (Cass.,
Sez. V, n. 23624 del 27/04/2012, Ayroldi, Rv 252964).
A ben guardare, tuttavia, la difesa dell’imputato contesta la tempestività
delle querele (ancora una volta, ripetendo nel ricorso il contenuto dei motivi di
appello) solo con riguardo alle posizioni delle persone offese Roberto Alessi e
Giusi Ferrè: già in base alla motivazione della sentenza del Tribunale, peraltro, si
rileva che il primo aveva dichiarato di essere venuto a conoscenza degli articoli
in questione tra la fine del 2002 e il marzo del 2003, quando gli erano stati
segnalati da alcuni collaboratori, mentre la seconda aveva parimenti indicato in
alcuni amici la fonte delle informazioni avute sugli articoli che l’avevano
riguardata, in concomitanza con l’assegnazione di un premio giornalistico. Né
l’uno né l’altra risultano essere stati in qualche modo smentiti circa l’epoca in cui
ebbero rispettivamente contezza dei fatti in ordine ai quali intesero sporgere
querela.

2. Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., segue la condanna del De Gennaro
al pagamento delle spese del procedimento, nonché – ravvisandosi profili di
colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, in quanto riconducibile
alla volontà del ricorrente (v. Corte Cost., sent. n. 186 del 13/06/2000) – al
versamento in favore della Cassa delle Ammende della somma di € 1.000,00,
così equitativamente stabilita in ragione dei motivi dedotti.
Non si pongono questioni di necessaria verifica dell’eventuale sopravvenuta
prescrizione di altri addebiti, rispetto a quelli per cui la stessa risulta essere stata
già dichiarata dalla Corte territoriale, atteso che detta causa estintiva sarebbe
comunque venuta a maturare in data successiva alla pronuncia di secondo
grado; per consolidata giurisprudenza di questa Corte, un ricorso per cassazione
inammissibile, per manifesta infondatezza dei motivi o per altra ragione, «non
consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto,
la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art.

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siano venuti a conoscenza. Ne deriva se non la assoluta contestualità tra

129 cod. proc. pen.» (Cass., Sez. U, n. 32 del 22/11/2000, De Luca, Rv 217266,
relativa appunto ad una fattispecie in cui la prescrizione del reato era maturata
successivamente alla sentenza impugnata con il ricorso; v. anche, negli stessi
termini, Cass., Sez. IV, n. 18641 del 20/01/2004, Tricomi).
Il De Gennaro deve infine essere condannato alla rifusione delle spese
sostenute nel presente giudizio di legittimità dalle parti civili che hanno
rassegnato conclusioni, che il collegio ritiene equo liquidare nelle misure
rispettivamente indicate in dispositivo, tenendo conto dell’impegno professionale

P. Q. M.

Dichiara inammissibile il ricorso, e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di C 1.000,00 in favore della Cassa delle
Ammende, nonché alla rifusione delle spese sostenute per questo giudizio di
Cassazione dalle parti civili:
Rotondo Sergio, che liquida in C 1.800,00;
Ferrè Giusi, Gallo Antonio e Lo Vetro Gianluca, che liquida
complessivamente in C 2.300,00;
Fontana Angelica, Karageorgevic De Jugoslavie Serge e Regolo Luciano ,
che liquida complessivamente in C 2.300,00,
tutti oltre accessori come per legge.

Così deciso il 07/06/2013.

richiesto ai difensori e del numero delle parti assistite.

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