Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 12021 del 06/02/2014


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Penale Sent. Sez. 6 Num. 12021 Anno 2014
Presidente: DE ROBERTO GIOVANNI
Relatore: DE ROBERTO GIOVANNI

SENTENZA
sul ricorso proposto dal Procuratore Generale presso la Corte di
Appello di Firenze,
avverso la sentenza pronunciata il 30 gennaio 2013 dal Giudice
della udienza preliminare del Tribunale di Livorno nei confronti
di Giorgio Kutufà e Alberto Bartalucci.
Visti gli atti, la sentenza denunciata ed il ricorso.
Udita nell’ udienza in camera di consiglio la relazione fatta dal
Presidente de Roberto.
Udite le conclusioni del Pubblico ministero, nella persona del
Sostituto Procuratore Generale, dott. Eugenio Selvaggi, che ha
concluso per il rigetto del ricorso.
Uditi i difensori degli imputati, avvocati Roberto Uccelli, per
Kutufà e Marco Tgeiirgper Bartg,lucci.

Osserva

1. Giorgio Kutufà, Presidente della Provincia di Livorno e Alberto
Bartalucci, dirigente della ragioneria generale della stessa

Data Udienza: 06/02/2014

2
Provincia, venivano rinviati a giudizio per rispondere del reato
di cui all’ art. 361 c.p. perché, essendo a conoscenza in ragione
del loro ufficio e nell’ esercizio delle loro funzioni di pubblici
ufficiali, del fatto che l’ assessore Rocco Garufo, avendo, per
ragioni del suo ufficio la disponibilità di una chiavetta dati
PMCIA ONDA PC CARD N50, con IMEI relativa alla scheda TIM con

reato, un traffico di collegamenti abnorme del costo di 50 mila
euro (interamente posto a carico della Provincia) per ragioni
esclusivamente o prevalentemente estranee al servizio,
concordavano di omettere di darne doverosa comunicazione all’
autorità giudiziaria, limitandosi a convocare il Garufo e a
richiedere semplicemente il rimborso del costo delle connessioni
effettuate; omissione che reiteravano anche successivamente,
quando il Garufo interrompeva deliberatamente il pagamento delle
rate in favore dell’ ente, avendo versato complessivamente circa
5.100 euro a fronte di un totale di circa 50 mila, limitandosi a
quel punto ad effettuare la denuncia alla Corte di Conti.
La posizione del Garufo era stata separata avendo costui
chiesto il giudizio abbreviato all’ esito del quale veniva assolto
dal delitto di peculato perché il fatto non sussiste.
Con sentenza 30 gennaio 2013 il Giudice della udienza
preliminare del Tribunale di Livorno dichiarava non doversi
procedere nei confronti di entrambi gli imputati dal delitto di
cui all’ art. 361 c.p. perché il fatto non sussiste.
Riferiva il Giudice per le indagini preliminari che, a sèguito
delle indagini espletate, era risultato un’ esorbitante anomalia
circa il traffico sul computer assegnato al Garufo, (che, peraltro
il 12 settembre 2008, ne aveva denunciato il furto), e che gli
attuali imputati gli avevano imposto il pagamento delle somme
dovute.
Successivamente, a seguito di consulenza tecnica della difesa,
era risultato un utilizzo della chiavetta per connessione internet
del tutto compatibile con l’ attività istituzionale per durata,

utenza 335/1779003, aveva generato, con condotta costituente

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entità di

traffico e tipologia di connessione. La perizia

informatica

– disposta nel corso dell’ udienza preliminare –

aveva, in

proposito, confermato integralmente l’ esito della

consulenza

di parte; in effetti, il costo derivante dalla

connessione

era la conseguenza della tariffa convenzionalmente,

quanto inopintamente, stipulata, vale a dire la tariffa MAXI TIM

Scendendo alla valutazione della condotta addebitata al Kutufà
ed al Bartalucci, il Giudice dell’ udienza preliminare osserva
come non fosse ipotizzabile qualsivoglia fattispecie di reato al
momento in cui gli imputati vennero a conoscenza del fatto.
Quando, poi, il Garufo cessò i versamenti, gli imputati si
limitarono a fare rapporto alla Corte dei Conti. Il giudice per le
indagini preliminari conclude che i soggetti ora imputati avevano
disposto immediatamente accertamenti interni e la nomina di una
commissione per l’ analisi della documentazione al fine di
chiarire la vicenda. Una procedura che si era rivelata necessaria
e decisiva tanto che al termine del procedimento penale il Garufo
era stato prosciolto perché il fatto non sussiste.
2. Ricorre per cassazione il Procuratore Generale presso la Corte
di appello di Firenze, deducendo difetto di motivazione ed erronea
applicazione dell’ art. 361 c.p.
Si contesta, più in particolare, che il pubblico ufficiale che
abbia ricevuto una notizia di reato a causa e nell’ esercizio
delle sue funzioni, possa valutare l’ effettiva sussistenza
giuridica del reato, restandogli esclusivamente la verifica della
probabilità della sussistenza del reato stesso; soltanto all’
autorità giudiziaria compete, infatti, l’ accertamento della
notitia criminis.

Nel caso di specie, in effetti, gli imputati,

appresa l’ enormità della spesa, avendo certamente apprezzato la
probabilità dell’ esistenza del reato, quanto meno, sotto il
profilo del peculato d’ uso, erano tenuti ad informare del fatto
l’ autorità giudiziaria. Il successivo proscioglimento del Garufo
perché il fatto non sussiste sarebbe del tutto irrilevante, non
prevedendo l’

art. 361 c.p.,
,

come causa di punibilità, l’

al

DATA PROFESSIONAL.

4
intervenuta assoluzione dal reato di cui è stata omessa la
denuncia.
3. In prossimità dell’ odierna udienza in camera di consiglio i
difensori hanno depositato memoria con la quale contestano le
argomentazioni del Pubblico ministero ricorrente insistendo, più
in particolare, sulle circostanze che era subito stata disposta
un’ inchiesta interna, che era stata successivamente trasmessa un’

perché il fatto non sussiste dal reato presupposto,

con

conseguente inipotizzabilità di quello addebitato agli imputati;
riferivano, poi, che costoro non vennero mai a conoscenza di un
fatto costituente reato (nessuno aveva addebitato al Garufo di
avere utilizzato l’ utenza per scopi personali). Si trattava
soltanto di un “dato grezzo” che doveva essere raffinato.
Il ricorso è infondato.
4. Occorre premettere che la fattispecie di reato contestata agli
imputati va interpretata in consonanza con il disposto dell’ art.
331, comma 1, c.p.p. (un precetto collocato nel titolo II del
libro V, intitolato, appunto, “Notizia di reato”) a norma del
quale “i pubblici ufficiali e gli incaricati di un pubblico
servizio che nell’ esercizio o a causa delle loro funzioni o del
loro servizio, hanno notizia di un reato perseguibile di ufficio,
devono farne denuncia per iscritto, anche se non sia individuata
la persona alla quale il reato è attribuito”; la norma in parola è
collocata immediatamente dopo quella regolatrice del regime dell’
acquisizione delle notizie di reato.
Ciò non sta a significare che l’ art. 361 c.p. costituisca una
norma in bianco. Il suo contenuto precettivo appare, infatti – pur
nell’

ampiezza delle soggettività destinatarie del dovere la cui

omissione è penalmente rilevante,

oltre che per la “selezione

oggettiva” delle fattispecie, ricavabile dalla necessità che del
reato si abbia notizia in relazione alla funzione o al servizio autosufficiente in quanto la detta norma punisce proprio la
condotta del pubblico ufficiale il quale omette o ritarda di
denunciare all’ Autorità giudiziaria o ad altra Autorità un reato

informativa alla Corte di Conti, che il Garufo era stato assolto

5
di cui ha avuto notizia a causa o nell’ esercizio delle sue
funzioni. E’ certo però che la nozione di notizia di reato oggetto
della previsione di cui all’ art. 331, comma 1, c.p.p. coincide
con “il reato di cui” (il pubblico ufficiale o l’ incaricato di un
pubblico servizio) “ha avuto notizia nell’ esercizio o a causa
delle sue funzioni”.
Il che consente altresì di trascurare – perché del tutto al di

diversa progressione procedimentale vigente all’ epoca in cui è
sorta la norma di diritto sostanziale non certamente condizionata
dallo spostamento in avanti, nel sistema del codice del 1989, del
momento di esercizio dell’ azione penale. Pure se occorre
rammentare che la

notitia,

quale elemento cognitivo, non

costituisce un fatto processuale perché essa si forma al di fuori
del procedimento, costituendo anche la condizione perché proprio
la sequenza procedimentale possa venire in essere; il che si
verifica proprio al momento in cui la notizia di reato viene
iscritta nel registro previsto dall’ art. 335 c.p.p.
La necessaria procedimentalizzazione della

notitia criminis,

rilevabile dagli effetti che ad essa conseguono (basti pensare al
dovere di iscrizione dal cui esercizio decorrono i termini per il
compimento delle indagini preliminari) impone, dunque, di
ravvisare in tale nozione la presenza di dati univoci (di
precisione e di attendibilità), non molto distanti dalla nozione
di “probabilità”, indicata – per l’ insorgere del dovere
penalmente sanzionato – proprio nel ricorso del Procuratore
Generale.
5. Posta tale premessa, occorre verificare se al momento della
conoscenza del fatto o al momento in cui gli imputati informarono
delle irregolarità riscontrate si era in presenza di una notizia
di reato a carico del Garufo che venne deliberatamente nascosta
all’ autorità giudiziaria o ad altra autorità che a questa abbia
obbligo di riferire. Il che potrebbe comunque escludere
nonostante qualche scelta interpretativa che parrebbe di segno
contrario; v., ad esempio, Sez.

72

VI, 11 ottobre 1995, Gastaldi

fuori della problematica riguardante l’ art. 361 c.p.p. – la

6
proprio verificando le esigenze teleologiche alla base del
precetto la cui violazione è addebitata agli imputati, la stessa
perseguibilità del secondo momento ritenuto penalmente rilevante
alla stregua dell’ imputazione; un momento, peraltro, neppure
preso in considerazione nel ricorso del Procuratore Generale.
La sentenza impugnata richiama un “quadro di incertezza e di

commissione di un reato da parte del Garufo” che non avrebbe reso
doverosa l’ immediata denuncia all’ autorità giudiziaria; non
senza evocare i disposti necessari accertamenti interni, la nomina
di una commissione per l’ analisi della documentazione e la
definitiva chiarificazione della vicenda.
Nella sostanza, quindi, al di là del lessico talora non
rigorosamente utilizzato dal giudice

a

quo –

ad esempio, la

dicotomia “certezza-incertezza” (su cui pare insistere il ricorso)
appartiene più precisamente quanto meno alla fase processuale,
rilevando nel momento procedimentale la sola ipotetica (ma
concreta) configurazione di un fatto costituente reato – la
situazione che si presentava di fronte agli attuali imputati, non
poteva definirsi una vera e propria

notitia criminis

ma

esclusivamente la rappresentazione di un fatto (le descritte
anomalie derivanti dall’ uso del computer) che nella sua stessa
obiettività era insufficiente a delineare una fattispecie di
reato, variegate profilandosi le ragioni dell’ esorbitante entità
degli accessi e delle relative conseguenze patrimoniali. In più,
l’ attività spiegata per accertare le rilevate anomalie era
presumibilmente funzionale – come pare desumersi, valicando la
sommarietà argomentativa ed una certa cripticità che talora
designano la sentenza impugnata – non soltanto a fugare ogni
sospetto circa la criminosità dell’ utilizzatore del computer ma
anche alla “formazione” eventuale di una notitia criminis (un tema
assolutamente non esplorato dalla giurisprudenza ma che riveste un
sicuro valore designante nell’ interpretazione teleologicamente
orientata dell’ art. 361 c.p.). Del resto la quasi unanime
dottrina (in fondo proprio per le ragioni sopra rammentate), pur
i

verosimile dubbio da parte della Dirigenza circa la sussistenza e

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(ovviamente) non richiedendo la certezza in ordine all’ esistenza
del reato oggetto della notizia, presuppone che questo si presenti
nelle sue linee essenziali, in base ad elementi affidabili; è
sufficiente, in altri termini, che il fatto abbia la parvenza
della verità; senza per nulla escludere che, soprattutto, nell’
area di soggetti estranei a quelli tenuti ad acquisire la notizia

di più puntuali approfondimenti che consentano al titolare dell’
azione penale di dare inizio al procedimento attraverso l’
iscrizione. Ciò anche considerando che se la denuncia è funzionale
all’ inizio delle indagini da parte del pubblico ministero (l’
effettivo destinatario della

notitia)

essa deve tendere al buon

esito di tali indagini, con la necessità, insita in quella che si
è già definita “selezione oggettiva”, di colmare quelle lacune che
impediscono qualificare il fatto conosciuto come vera e propria
notizia di reato.
6. Per i soggetti che non rivestano la qualità di ufficiali o
agenti di polizia giudiziaria non può attribuirsi alcun potere di
indagine in presenza della notitia, a meno che questa non consista
nel semplice sospetto, legittimante – come è avvenuto nel caso di
specie – un’ indagine interna da cui ricavare eventualmente la
notitia criminis.

Vero è che la notizia di reato, benché non definita dalla
legge, rappresenta, secondo la

communis opinio,

un’ informazione

che sia in grado di richiamare la commissione di un reato, un
fatto cioè, corrispondente ad una fattispecie incriminatrice;
resta, dunque, sempre da verificare perché sorga l’ obbligo di
denuncia, non soltanto la corrispondenza ma anche il grado di
corrispondenza ricavabile dal fatto così come si presenta al
soggetto tenuto al dovere di informazione.
Né potrebbe correttamente sostenersi che una simile valutazione
esula dai compiti del destinatario dell’ obbligo di informazione
perché presupposto del concretizzarsi di tale obbligo è proprio l’
esistenza di una notizia di reato, secondo lo stesso canone che

di reato, questa possa formarsi progressivamente proprio in forza

8
informa i doveri gravanti sull’ autorità giudiziaria allorché l’
informazione pervenga direttamente ad essa.
Da ciò discende che, pur non occorrendo perché l’ obbligo
insorga per i soggetti indicati nell’ art. 331, comma 1, c.p.p.,
la certezza o anche il solo dubbio sull’ esistenza di un reato, è
necessario che sia profilabile una fattispecie obiettivamente

complementare (antigiuridicità, dolo) ad una ipotesi
riconoscibile come fattispecie di reato.
In termini normativi la distinzione tra sospetto e indizio di
reato (il secondo soltanto riconducibile alla nozione di notizia
di reato) emerge con chiarezza dal raffronto tra l’ art. 116 e l’
art. 220 delle norme di attuazione: il primo richiama il “sospetto
di reato” a proposito dell’ accertamento della morte ai fini dell’
eventuale autopsia (ma v. anche, quale deroga al principio per cui
il mero sospetto non fa sorgere il dovere di denuncia, l’ art. 9,
comma 3, del d.P.R. 10 settembre 1990, n. 285, a norma del quale
“Quando si abbia il sospetto che la morte sia dovuta a reato, il
medico settore deve sospendere le operazioni e dare immediata
comunicazione ali’ autorità giudiziaria”); il secondo, impone
nell’ ipotesi in cui nel corso di attività ispettive e di
vigilanza emergano “indizi di reato” il dovere di assicurare le
fonti di prova e raccogliere quant’ altro per l’ applicazione
della legge penale osservando le disposizioni del codice di rito,
dando per presupposta l’ esistenza di una notizia di reato. Il
che, del reato appare conforme considerando che solo l’
informazione che si sostanzi in una notizia di reato in grado di
essere iscritta nel registro di cui all’ art. 335 deve essere
trasmessa ali’ autorità giudiziaria – alla giurisprudenza di
questa Corte, costante nel ritenere che la presenza di meri e
generici sospetti non è sufficiente per disporre l’ iscrizione nel
registro degli indagati (v., da ultimo, Sez. I, 22 maggio 2013,
Longo).
7.

Interpretando i dati normativi or ora rammentati, pare

evidente che la verifica circa il presupposto del dovere di

/2AY(-

riconducibile – pur in assenza di ogni giudizio di valore

9
denuncia richiede – come è stato rilevato in dottrina – l’
apprensione di un elemento concreto costituente il momento più
significativo di una norma incriminatrice. Spingere più avanti un
simile argomento è reso possibile soltanto considerando la
situazione di fatto quale si presenta di fronte al destinatario
dell’ obbligo

(recte,

del dovere). Ed a tale riguardo non può

ruolo esponenziale che assumono i momenti di ciascuna fattispecie
al fine di determinare il dato significante, il frammento di
corrispondenza, individuabile sia nell’ elemento oggettivo sia
nell’ elemento soggettivo. Pure considerando che nei reati ad
evento naturalistico – come sarebbe quello nella specie non
denunciato (ma solo ipotizzato alla stregua della imputazione) – è
il momento oggettivo ad assumere valenza dirimente.
Non può negarsi, dunque, al soggetto destinatario del dovere di
denuncia, l’ altrettanto significativo dovere di verifica per
sondarne la sua capacità penalmente significativa, pure
disponendo accertamenti di ordinamento particolare destinati ad
eliminare ogni sospetto sull’ esistenza di un reato, ma anche per
progredire dalla mera informazione di un fatto non significante ad
una verifica che, se positiva, si sostanzierà nell’ emergere di
una notizia di reato la cui mancata denuncia integrerà il delitto
di cui all’ art. 361 c.p.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Così deciso,i1 6 febbraio 2014

prescindersi dalle diverse tipologie di reato e dallo specifico

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