Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 11994 del 05/12/2016

Penale Sent. Sez. 5 Num. 11994 Anno 2017

Presidente: P.S.

Relatore: A.G.

Data Udienza: 05/12/2016

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

G.H.

avverso la sentenza del 15/12/2015 della CORTE APPELLO di MILANO

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita in PUBBLICA UDIENZA del 05/12/2016, la relazione svolta dal Consigliere

A.G.

Udito il Procuratore Generale in persona del G.C.

che ha concluso per

FATTO E DIRITTO

1. Con la sentenza di cui in epigrafe la corte di appello di Milano

riformava ‘solo

parzialmente,

revocando

l’assegnazione

della

provvisionale disposta in favore delle costituite parti civili, la sentenza

G.H. alla pena ritenuta di giustizia, in relazione ai reati di cui

agli artt. 615 ter, c.p., e 167, 4, 24, d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, a lui

rispettivamente ascritti ai capi A) e B) dell’imputazione, oltre al

risarcimento dei danni derivanti da reato, confermando, nel resto, la

sentenza impugnata.

2.

Avverso la sentenza della corte territoriale, di cui chiede

l’annullamento, ha proposto tempestivo ricorso per cassazione

l’imputato, a mezzo dei suoi difensori di fiducia, avv. Riccardo Olivo e

avv. Raffaele Bergaglio, del Foro di Milano, lamentando: 1) violazione di

legge e vizio di motivazione, in quanto, premesso che il ricorrente è

stato ritenuto responsabile del reato di accesso abusivo al sistema

informatico in uso presso lo studio legale Agnoli e Giuggioli (da ora in

poi indicato anche con l’acronimo “A&G”), dove lo stesso avv. G.H. ha

svolto la sua attività professionale dal settembre 2008 all’aprile 2012, la

corte territoriale ha erroneamente adottato un’interpretazione finalistica

della condotta del ricorrente, che fa discendere la penale responsabilità

per il reato di cui all’art. 615 ter, c.p., dalla natura di alcuni dei files che

l’avv. G.H. ha salvato su dispositivi esterni, prelevandoli dal server

comune, accessibile ad ogni componente dello studio legale, omettendo

la necessaria valutazione sia sull’abusiva introduzione, sia sull’indebita

permanenza nel sistema informatico, quali uniche condotte che, secondo

la giurisprudenza della Suprema Corte, possono avere rilévo penale, a

prescindere dall’obiettivo avuto di mira dall’agente, non avendo la corte

territoriale chiarito, se non attraverso una motivazione apodittica, per

quale ragione l’operazione di copiatura dei files cui il ricorrente aveva

libero accesso debba ritenersi ontologicamente non consentita ed in che

termini tale operazione, come affermato dal giudice di appello, “fosse

con cui il tribunale di Milano, in data 28.4.2014, aveva condannato

incompatibile con i limiti contrattuali che evidenziavano il dissenso tacito

all’accesso ed al mantenimento in tutta l’ampiezza del sistema

informatico dello studio”, posto che l’unico accordo tra lo studio in

questione e l’imputato è rappresentato da una proposta di collaborazione

che non disciplina i limiti alla consultazione dei documenti informatici

ritenuta condotta di permanenza abusiva nel sistema informatico, non

avendo la corte territoriale dimostrato, come avrebbe dovuto, alla luce

dell’interpretazione della giurisprudenza di legittimità, in che modo ed in

quale momento l’imputato, partendo da un accesso al sistema

certamente autorizzato, abbia posto in essere un indebito mantenimento

nel sistema stesso, circostanza di fatto che non può certo desumersi,

come ritiene la corte territoriale, dal contenuto delle consulenze

tecniche, che dimostrano solo l’effettiva apertura e salvataggio dei file,

ma non l’indimostrata abusività della permanenza del professionista nel

sistema informatico dello studio; 3) vizio di motivazione con riferimento

al percorso informatico seguito dal ricorrente, che non può integrare il

reato di cui all’art. 615 ter, c.p., essendosi limitato l’imputato ad aprire o

prelevare file, inserendosi nel sistema informatico dello studio AG,

direttamente dal desktop della propria postazione di lavoro, sistema al

quale, dunque, aveva libero accesso, nella sua qualità di collaboratore

dell’associazione professionale in questione; 4) violazione di legge e

vizio di motivazione con riferimento al reato di cui all’art. 167, d.lgs. n.

196 del 2003, posto che il trattamento dei dati addebitato al GrigfAli

(avente ad oggetto solo i files “Contatti AG” e “Archivio in corso”), è

avvenuto per fini esclusivamente personali e non diffusivi, ragione per la

quale, ai sensi dell’art. 5 del medesimo testo normativo, non trattandosi,

alla luce della previsione normativa che definisce le relative nozioni, di

cui all’art. 4, lettere I) ed m), del d.lgs. n. 196 del 2003, di dati destinati

ad una comunicazione sistematica o alla diffusione, nel caso in esame

non è applicabile li cd. Codice della privacy, non potendosi ritenere

certamente escluso il fine personale del trattamento dei dati dalla

circostanza che esso sia connesso alla sfera lavorativa o professionale

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dell’associazione professionale; 2) vizio di motivazione in ordine alla

dell’autore, senza tacere che i due files in questione, a differenza di

quanto affermato dalla corte, non sono stati reperiti sulla chiavetta

dell’avv. R.R.; 5) violazione di legge e vizio di motivazione, con

riferimento alla ritenuta violazione della regola prevista dall’art. 23,

d.lgs. n. 196 del 2003, integrativo del precetto penale di cui al citato art.

informatica di titolarità dello studio legale contenente i nomi di tutti i

clienti, e dall’archivio dello studio) non possono considerarsi dati

sensibili, trattandosi, da un lato, di dati appartenenti ad una persona

giuridica, che, ai sensi dell’art. 4, co. 1, lett. b), d.lgs n. 196 del 2003,

non costituiscono dati personali; dall’altro, di dati appartenenti ad uno

studio legale associato, la cui attività costituisce adempimento di un

accordo, ai sensi dell’art. 24, lett. c), d.lgs n. 196 del 2003, del quale

ciascun membro è inevitabilmente parte; né va taciuto che se la

condotta illecita sarebbe consistita anche nel consentire di risalire

all’identificazione dei soci titolari Agnoli e Giuggioli attraverso il

trattamento del file “contatti A&G”, i dati personali degli avvocati Agnoli

e Giuggioli, sono conoscibili da chiunque, in quanto facilmente reperibili

on line, per cui, ai sensi dell’art. 24, lett. c), d.lgs. n. 196 del 2003, non

è richiesto alcun consenso per il loro trattamento; 6) violazione di legge

e vizio di motivazione, con riferimento all’individuazione del dolo

specifico richiesto dalla norma penale in esame (finalità di profitto per sé

o per altri), in quanto la corte territoriale, partendo da un evidente

errore di diritto nel considerare dati personali gli atti contenuti nel file

“archivio in corso” (pareri legali, atti di citazione, comparse di risposta,

lettere, contratti), laddove possono ritenersi tali solo una piccola parte di

tali atti, consistente nell’indicazione del nome e del cognome degli avv.

Agnoli o Giuggioli, non ha indicato quale fine di lucro avesse di mira

l’imputato nel trattare tali dati personali, senza tacere che l’utilizzazione

del nome e del cognome degli avvocati Agnoli o Giuggioli da parte del

G.H. nella sua futura attività professionale, avrebbe costituito

piuttosto un ostacolo per il ricorrente, il quale avrebbe potuto soltanto

avvantaggiarsi professionalmente dell’utilizzo di determinati schemi di

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167, in quanto i dati di cui si discute (costituiti da una rubrica

atti forensi, non costituenti dati personali, ma non certo delle generalità

dei titolari dello studio; 7) vizio di motivazione, in quanto la corte

territoriale ha omesso di considerare che, nel momento della

commissione dei fatti, il G.H. lavorava ancora presso lo studio “A&G”,

senza che gli fosse stato espressamente o tacitamente negato l’accesso

come si evince dalla circostanza che solo i documenti fiscali relativi alla

fatturazione erano contenuti in file non a tutti accessibili, sintomo

evidente della volontà dei titolari di limitarne l’accesso e, al contrario, di

consentire l’accesso agli altri file da parte di ogni membro dello studio;

8) violazione di legge, in quanto, la condanna per il più grave delitto di

cui all’art. 615 ter, c.p., avrebbe dovuto condurre, in virtù della clausola

di salvaguardia contenuta nell’incipit della formulazione normativa

dell’art. 167, d. Igs. n. 196 del 2003 (“Salvo che il fatto costituisca più

grave reato”), a ritenere assorbita tale fattispecie di reato in quella

codicistica, posto che il bene della riservatezza costituisce oggetto della

protezione giuridica accordata da entrambe le menzionate disposizioni

normative.

2.1. In data 29.11.2016 è stata depositata memoria a firma dell’avv.

Massimo Dinoia, del Foro di Milano, difensore di fiducia delle costituite

parti civili, con cui si sviluppano molteplici argomenti a sostegno della

richiesta di rigetto del ricorso dell’imputato.

3. Il ricorso va rigettato per le seguenti ragioni.

4. Con riferimento alle doglianze sintetizzate nelle pagine precedenti, ai

punti n. 1), n. 2), n. 3), e n. 7), occorre rilevare che la decisione della

corte territoriale, costituente con quella del giudice di primo grado un

prodotto unico, avendo entrambi i giudici di merito utilizzato criteri

omogenei e seguito un apparato logico argomentativo uniforme (cfr.

Cass., sez. III, 1.2.2002, n. 10163, rv. 221116), deve ritenersi

assolutamente conforme ai principi da tempo affermati dalla

giurisprudenza di legittimità in sede di interpretazione del disposto

dell’art. 615 ter, c.p., sui quali appare opportuno soffermarsi

brevemente.

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al sistema informatico e, quindi, il trattamento dei dati in esso contenuti,

Come chiarito da un consolidato orientamento, che ormai può definirsi in

termini di “diritto vivente”, integra la fattispecie criminosa di accesso

abusivo ad un sistema informatico o telematico protetto, prevista

dall’art. 615 ter c.p., la condotta di accesso o di mantenimento nel

sistema posta in essere da soggetto che, pure essendo abilitato, violi le

dal titolare del sistema per delimitarne oggettivamente l’accesso, ovvero

ponga in essere operazioni di natura antologicamente diversa da quelle

per le quali l’accesso è consentito. Non hanno rilievo, invece, per la

configurazione del resto, gli scopi e le finalità che soggettivamente

hanno motivato l’ingresso al sistema (cfr. Cass., sez. un., 27/10/2011,

n. 4694; Cass., sez. V, 26/06/2015, n. 44403, rv. 266088; Cass., sez.

V, 15/01/2015, n. 15950; Cass., sez. V, 20/06/2014, n. 44390, rv.

260763; Cass., sez. V, 30/09/2014, n. 47105).

Pertanto, come affermato in alcuni condivisibili arresti della Suprema

Corte, ai fini della configurabilità del delitto di cui si discute, nel caso di

soggetto dotato delle credenziali per accedere ad una banca dati

riservata, è necessario accertare se la condotta di copiatura/duplicazione

dei files addebitata all’imputato rientri o meno nel perimetro dei suoi

poteri, in relazione alle funzioni svolte all’interno della struttura cui fa

capo il sistema informatico, vale a dire se la copia e la duplicazione

esulino o meno dalle competenze dell’operatore, ponendosi in contrasto

con le prescrizioni relative all’accesso e al trattenimento nel sistema

informatico, contenute in disposizioni organizzative impartite dal titolare

dello stesso (cfr. Cassazione penale, sez. V, 31/10/2014, n. 10083;

Cass., sez. V, 31/10/2014, n. 10083, rv. 263454).

Nella ricostruzione della fattispecie sottoposta al suo esame, dunque, il

giudice di merito deve porsi nella prospettiva indicata, al fine di

verificare se l’introduzione o il mantenimento nel sistema informatico,

anche da parte di chi aveva titolo per accedervi, sia avvenuto in

contrasto o meno con la volontà del titolare del sistema stesso, che può

manifestarsi, sia in forma esplicita, che tacita (cfr. Cass., sez. V.

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condizioni ed i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite

7.11.2000, n. 12732, rv. 217743; Cass., sez. V, 10.12.2009, n. 2987,

rv. 245842).

Orbene non è revocabile in dubbio che tale sia stata la prospettiva in cui

si sono collocati i giudici di merito nel valutare il caso in esame.

Essi, infatti, hanno ritenuto integrato il delitto di cui all’art. 615 ter, c.p.,

files copiati, come

sostenuto dal ricorrente, ma alla luce di un approfondito ragionamento,

derivante da una visione complessiva ed unitaria delle risultanze

processuali, incentrato su alcuni elementi di fatto (che, peraltro, non

hanno formato oggetto di specifica contestazione da parte

dell’imputato), costituiti: 1) dalla particolare qualifica di semplice

collaboratore dello studio rivestita dal G.H., incaricato solo di gestire il

pacchetto di clienti tedeschi dello studio Giuggioli, mansione che ne

aveva motivato l’assunzione, con conseguente destinazione al cd.

“German Desk”; 2) dalla notevolissima mole di files copiati e trasferiti

su altri supporti magnetici (ben 33.312), che avevano ad oggetto

contatti, rapporti ed atti estranei alla “competenza per materia” affidata

all’imputato; 3) dalla particolare tecnica di copiatura, realizzata

attraverso un sofisticato sistema “a matrioska”, in modo che i files

copiati venissero occultati attraverso una serie di sottocartelle, che

rimandavano ad una sottocartella del “German Desk”, proprio per

nasconderne la provenienza.

Il percorso argomentativo seguito dalla corte territoriale non può,

dunque, definirsi né illogico, né fondato su di un’erronea interpretazione

dell’art. 615 ter.

Il giudice di appello, infatti, collocandosi nel solco interpretativo fatto

proprio dalla giurisprudenza di legittimità, ha evidenziato, con

motivazione lineare ed intrinsecamente coerente, come il G.H. abbia

posto in essere una duplice attività (l’accesso e la successiva

permanenza, finalizzata alla copiatura dei numerosissimi

files

in

precedenza menzionati, nell’intero archivio del sistema informatico dello

studio Giuggioli), da un lato, ontologicamente incompatibile con le sue

(circoscritte) mansioni di semplice collaboratore e non di

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partner

non esclusivamente sulla base della natura dei

dell’associazione professionale; dall’altro, in violazione di un dissenso

tacito dei titolari dello studio legale, implicito nel consentire all’imputato

l’accesso al

server solo per consultare e copiare files

attinenti al “German

Desk”, come si evince, non solo dalla sua posizione professionale

all’interno dello studio, ma anche dalla circostanza, evidenziata con

cominciarono a sospettare del G.H., i titolari dello studio “gli hanno

immediatamente vietato l’accesso al server, consentendogli di acquisire i

documenti inerenti al German Desk solo per il tramite delle segretarie”

A fronte di una motivazione conforme ai criteri fissati dall’art. 192,

c.p.p., che impone una valutazione unitaria e non atomistica della prova,

principio cardine del processo penale (cfr. Cass., sez. VI, 28.9.1992, n.

10642, rv. 192157), le doglianze difensive sul punto (peraltro di natura

prevalentemente fattuale), non colgono nel segno, anche perché fondate

su di una rappresentazione parcellizzata e parziale delle risultanze

processuali, che evita il raffronto con il complessivo quadro istruttorio

(cfr. Cass., sez. VI, 8.11.2012, n. 45249, rv. 254274).

4.1. Del pari infondate appaiono le ulteriori censure difensive, articolate

nei motivi sinteticamente esposti nelle pagine precedenti sub n. 4); n.

5); n. 6) e n. 8), a partire dalla pretesa del ricorrente di sottrarre la

condotta del G.H. alla sfera di applicazione del Codice in materia di

protezione dei dati personali (d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196) ed, in

particolare, dell’art. 167, co. 1, di tale testo normativo, in base al quale

“salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, al fine di trarne

per sé o per altri profitto o di recare ad altri un danno, procede al

trattamento di dati personali in violazione di quanto disposto dagli

articoli 18, 19, 23, 123, 126 e 130, ovvero in applicazione dell’articolo

129, è punito, se dal fatto deriva nocumento, con la reclusione da sei a

diciotto mesi o, se il fatto consiste nella comunicazione o diffusione, con

la reclusione da sei a ventiquattro mesi”

Preliminarmente va rilevato che non vi è contestazione, né nel

qualificare la condotta del G.H. come “trattamento” di dati, alla luce

della previsione dell’art. 4, co. 1, lett. a), d.lgs. n. 196 del 2003,

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logico argomentare dalla corte territoriale, che, non appena

secondo cui deve intendersi tale “qualunque operazione o complesso di

operazioni, effettuati anche senza l’ausilio di strumenti elettronici,

concernenti la raccolta, la registrazione, l’organizzazione, la

conservazione, la consultazione, l’elaborazione, la modificazione, la

selezione, l’estrazione, il raffronto, l’utilizzo, l’interconnessione, il blocco,

anche se non registrati in una banca di dati”; né, tantomeno, in ordine

alla consistenza dei dati, contenuti nei documenti informatici copiati, il

cui illecito trattamento è stato addebitato al ricorrente, contenenti

l’elencazione dei clienti dello studio “A&G” con i relativi indirizzi, numeri

telefonici e fascicoli.

Tanto premesso, non può condividersi la tesi difensiva che fa leva sulla

previsione di cui all’art. 5, co. 3, d.lgs. n. 196 del 2003 (secondo cui “il

trattamento di dati personali effettuato da persone fisiche per fini

esclusivamente personali è soggetto all’applicazione del presente codice

solo se i dati sono destinati ad una comunicazione sistematica o alla

diffusione”), per escludere rilevanza penale alla condotta del G.H., sul

presupposto che tale trattamento sia avvenuto a fini esclusivamente

personali e non diffusivi.

Ciò in quanto, ad avviso del Collegio, i dati oggetto del trattamento di

cui si discute erano destinati a fini comunicativi o diffusivi, alla luce delle

nozioni di “comunicazione” e di “diffusione”, fornite, rispettivamente,

dall’art. 4, co. 1, lett. I) ed m), d.lgs., n. 196 del 2003, norma che

attribuisce, con effetto vincolante per l’interprete, il significato dei

termini tecnici, che integrano il precetto penale.

Sulla base di tale previsione deve, dunque, intendersi per

“comunicazione, il dare conoscenza dei dati personali a uno o più

soggetti determinati diversi dall’interessato, dal rappresentante del

titolare nel territorio dello Stato, dal responsabile e dagli incaricati, in

qualunque forma, anche mediante la loro messa a disposizione o

consultazione; per “diffusione, il dare conoscenza dei dati personali a

soggetti indeterminati, in qualunque forma, anche mediante la loro

messa a disposizione o consultazione”.

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la comunicazione, la diffusione, la cancellazione e la distruzione di dati,

Se ciò è vero, come è vero, non appare revocabile in dubbio che i dati di

cui si discute abbiano formato oggetto (quanto meno) di destinazione ad

una “comunicazione sistematica”, vale a dire di una delle due forme di

destinazione (alternativamente previste), al cui verificarsi il menzionato

art. 5, co. 3, d.lgs. n. 196 del 2003, condiziona l’applicabilità delle

disposizioni contenute nel Codice in materia di protezione dei dati

personali (cfr. Cass., sez. III, 16/05/2013, n. 29071, rv. 256673).

La locuzione “sistematica”, infatti, fa riferimento ad una comunicazione

non occasionale che è destinata a creare un sistema di dati dal quale

attingere organicamente e con una tendenziale continuità, come

avvenuto in questo caso in cui i dati in questione sono stati rinvenuti dal

perito d’ufficio sul personal computer dell’avv. R.R., soggetto terzo

rispetto all’imputato (sul punto la contestazione del ricorrente appare

generica e fattuale) e suo collaboratore nella nuova attività professionale

intrapresa autonomamente dall’avv. G.H. dopo avere lasciato lo studio

Giuggioli, nonché sui dispositivi informatici (pendrive e hard disk) del

nuovo studio “G.H. e Partners”, dove lavorava, per l’appunto, il

R.R., che, come evidenziato dalla corte territoriale, “erano accessibili

a tutti i professionisti che ivi lavoravano” (p. 19 e 15 sentenza di

appello).

Risulta, pertanto, compiutamente dimostrata la destinazione dei dati,

anche mediante messa a disposizione dei dati stessi, ad una conoscenza,

da parte di uno o più soggetti determinati, che potevano averne

contezza, mediante consultazione, resa possibile attraverso l’accesso

dell’avvocato R.R. al proprio personal computer ovvero dello stesso

avvocato R.R. e degli altri professionisti coinvolti nel nuovo studio

fondato dall’avv. G.H. (non a caso, recante, nella sua sigla, uno

specifico riferimento ad una pluralità di collaboratori: i partners) ai

dispositivi informatici ivi esistenti.

L’accertata destinazione dei dati ad una comunicazione sistematica

(sufficiente, si badi bene, per rendere la disciplina del Codice applicabile

al trattamento di dati personali effettuato da persone fisiche per fini

esclusivamente personali, non richiedendosi l’effettiva conoscenza dei

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t

dati stessi) rende, pertanto, priva di ogni rilevanza la questione posta

dalla difesa sulla destinazione a scopi esclusivamente personali del

trattamento di dati effettuato per finalità professionali.

Ed invero, ove anche si ritenesse destinato a scopi esclusivamente

personali il trattamento di dati connesso allo svolgimento di una

dell’avverbio “esclusivamente” nel testo dell’art. 5, co. 3, d.lgs. n. 196

del 2003, sembra impedire in radice che il trattamento di dati connessi

all’esercizio di una professione possa essere inteso come circoscritto alla

sola sfera personale dei soggetti interessati), le modalità con cui il

suddetto trattamento è stato realizzato nel caso in esame,

caratterizzate, come si è detto, dalla destinazione alla comunicazione

sistematica dei dati stessi, rende, comunque, penalmente rilevante la

condotta dell’imputato, ai sensi dell’art. 23, co. 1, d.lgs. n. 196 del

2003, non consentendo l’operatività della clausola di salvezza desumibile

a contrario dal disposto del citato art. 5, co. 3, d.lgs. n. 196 del 2003.

4.2. Con riferimento alla natura dei dati trattati, deve ribadirsi la

correttezza della qualificazione operata già nell’imputazione, condivisa

dai giudici di merito, in termini di “dati personali”, che, alla luce di

quanto statuito dall’art. 23, co. 1, d.lgs. n. 196 del 2003, possono

formare oggetto di trattamento, “solo con il consenso espresso

dell’interessato”, la cui mancanza determina l’applicazione della norma

penale prevista dal citato art. 167, co. 1, d.lgs. n. 196 del 2003.

Anche in questo caso la relativa nozione è reperibile nell’art. 4, co. 1,

lett. b), d.lgs. n. 196 del 2003, secondo cui deve intendersi per “dato

personale” (nozione diversa, giova ricordare, da quelle di “dati

identificativi”; “dati sensibili” e “dati giudiziari”, del pari contenute nel

medesimo art. 4), “qualunque informazione relativa a persona fisica

identificata o identificabile, anche indirettamente, mediante riferimento

a qualsiasi altra informazione, ivi compreso un numero di identificazione

personale”.

Appare, pertanto, evidente, che i dati oggetto del trattamento,

rappresentati dall’elenco dei clienti dello studio “A&G”, con i relativi

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professione liberale, come quella dell’avvocato (anche se l’uso

indirizzi e numeri telefonici, e dai documenti allegati alle pratiche che li

riguardavano (pacificamente costituiti, tra l’altro, come rilevato dallo

stesso ricorrente, da pareri legali, atti di citazione, comparse di risposta,

lettere e contratti), rientrano nella nozione normativamente fissata di

“dato personale”, contenendo una pluralità di informazioni relative a

dai clienti dello studio Giuggioli.

AI riguardo va, inoltre, osservato che la maggior parte dei dati di cui si

discute appartengono non allo studio “A&G”, ma ai singoli soggetti che si

sono affidati allo studio in questione per la tutela dei propri interessi e

che non hanno prestato alcun consenso esplicito al trattamento dei dati

effettuato dal G.H., così come del resto, nessun consenso, che, come

si è visto, deve essere espresso per rendere legittimo il trattamento di

dati personali da parte di privati, risulta essere stato prestato al riguardo

dai titolari dello studio “A&G”, ove si volesse comunque aderire alla tesi

(invero insostenibile), che si tratta di dati appartenenti al suddetto

studio.

Né i dati di cui si discute possono considerarsi dati di cui è possibile

effettuare il trattamento senza consenso, ai sensi dell’art. 24, lett. b),

d.lgs. n. 196 del 2003, dati, cioè, il cui trattamento è necessario per

eseguire obblighi derivanti da un contratto del quale è parte l’interessato

o per adempiere, prima della conclusione del contratto, a specifiche

richieste dell’interessato, posto che il G.H. non era certo parte,

nemmeno in senso lato, dei singoli contratti di prestazione d’opera

intercorsi tra i clienti non riconducibili al “German Desk” e lo studio

“A&G”, né era coinvolto nelle attività volte alla conclusione dei suddetti

contratti.

Del pari i dati di cui si discute non possono essere considerati

provenienti da pubblici registri, elenchi, atti o documenti conoscibili da

chiunque (circostanza che, ove dimostrata, escluderebbe, ai sensi

dell’art. 24, lett. c, d.lgs. n. 196 del 2003, la configurabilità del reato:

cfr. Cass., sez. III, 17/11/2004, n. 5728), posto che, quanto meno le

pratiche legali oggetto del trattamento e la documentazione ad esse

persone fisiche identificate o identificabili, rappresentate, innanzitutto,

allegata, testimoniano l’esistenza di un rapporto professionale tra i

clienti e lo studio Giuggioli, sicuramente non destinato, sia nella sua

esistenza che nel suo svolgersi attraverso il compimento di specifici atti

(lettere; schemi di contratti; atti giudiziari), ad essere conoscibile da

chiunque (termine con cui, in tutta evidenza, si allude ad una platea

di fuori del rapporto di prestazione d’opera instaurato.

E ciò a prescindere dalla circostanza evidenziata nella memoria della

parte civile che nei documenti di cui si discute vi fossero anche i numeri

delle utenze cellulari personali dei soci dello studio Giuggioli, il cui

trattamento, senza consenso, secondo l’orientamento prevalente nella

giurisprudenza di legittimità, integra il reato ex art. 167, co. 1, d.lgs. n.

196 del 2003 (cfr. Cass., sez. III, 17/02/2011, n. 21839; Cass., sez. III,

23/10/2008, n. 46203, rv. 241787), a meno che non si dimostri (ma

tale onere non è stato specificamente assolto dal ricorrente) che tali

numeri fossero, come si è detto, facilmente conoscibili da chiunque.

Una volta risolta nel senso ora indicato la questione della qualificazione

dei dati oggetto di trattamento, perde ogni rilievo la censura difensiva

riguardante il dolo specifico, costruita intorno all’assunto erroneo

secondo cui possono considerarsi dati personali solo quelli contenenti

l’indicazione del nome e del cognome degli avvocati Agnoli e Giuggioli.

Si tratta di una questione, anche nella prospettiva fatta propria dal

Collegio, manifestamente infondata.

Ed invero, posto che, come affermato da un condivisibile arresto della

Suprema Corte, ai fini del delitto di trattamento illecito di dati personali,

di cui all’art. 167 comma 2 d.Ig. n. 196 del 2003, il nocumento (su cui,

nel caso in esame, il ricorrente non svolge nessuna censura, a fronte di

una articolata e condivisibile motivazione sul punto da parte dei giudici

di merito: cfr. p. 25 della sentenza di primo grado) può sussistere anche

quando dal trattamento di dati sensibili derivino, per la persona offesa,

effetti pregiudizievoli sotto il profilo morale, il profitto, quale oggetto del

dolo specifico richiesto dalla norma incriminatrice, può concretarsi in

qualsiasi soddisfazione o godimento che l’agente sì ripromette di ritrarre,

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potenzialmente illimitata e non preventivamente definibile di utenti), al

anche non immediatamente dalla propria azione (cfr. Cass., sez. V,

07/03/2013, n. 28280).

Ne consegue che correttamente i giudici di merito hanno ravvisato il

profitto oggetto del dolo specifico, desumibile dalla condotta del reo,

nella circostanza che “i dati in questione” (vale a dire quelli,

evidentemente destinati al riutilizzo nella successiva attività

professionale” dell’imputato, “come comprovato dall’effettivo

rinvenimento degli stessi su supporti ritrovati nel nuovo studio del

G.H.” (cfr. p. 24 della sentenza di primo grado; p. 20 della sentenza

di appello).

Può, in conclusione affermarsi, la fondatezza dell’assunto accusatorio nei

termini fatti propri dai giudici di merito, dovendosi ribadire il principio

secondo cui l’assoggettamento alla norma in tema di divieto di diffusione

di dati personali riguarda tutti indistintamente i soggetti entrati in

possesso di dati, i quali saranno tenuti a rispettare sacralmente la

privacy di altri soggetti con i primi entrati in contatto, al fine di

assicurare un corretto trattamento di quei dati senza arbitrii o pericolose

intrusioni (cfr. Cass. sez. III, 17/02/2011, n. 21839).

4.3. Manifestamente infondato, appare, infine l’ultimo motivo di ricorso

mancando in radice i presupposti dell’invocato assorbimento.

Tra le fattispecie in esame, infatti, non sussiste alcun rapporto di

specialità che si presenti riconducibile alla nozione accolta nell’art. 15,

c.p., in quanto – a parte ogni considerazione sulla identità o meno dei

beni giuridici da esse tutelati e – in un reato la condotta presa in

considerazione dalla legge è quella di accesso e mantenimento abusivi in

un sistema informatico, mentre nell’altro la condotta incriminata è quella

del trattamento senza consenso dei dati personali, sicché si riscontra in

ciascuna delle due ipotesi criminose una diversità di condotte finalistiche

ed una diversità di attività materiali che non lascia sussistere tra esse

quella relazione di omogeneità che le rende riconducibili “ad ununn” nella

figura del reato speciale ex art. 15, c.p. (cfr., in tema di assorbimento,

Cass., sez. IL 7.3.1997, n. 2709, rv. 207315).

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numerosissimi, riferibili ai clienti dello studio Giuggioli) “erano

Inconferente, dunque, appare l’invocata applicazione della clausola di

salvezza con cui si apre il testo dell’art. 167, co. 1, d.lgs. n. 196 del

2003, posto che le due fattispecie di reato di cui si discute non hanno ad

oggetto il medesimo fatto.

5. Sulla base delle svolte considerazioni il ricorso di cui in premessa va,

c.p.p., al pagamento delle spese del procedimento, nonché alla rifusione,

in favore delle parti civili costituite delle spese del presente giudizio di

legittimità, che si fissano in complessivi euro 5000,00, oltre accessori

come per legge.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese

processuali e alla rifusione delle spese di parte civile, liquidate in

complessivi euro 5000,00, oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma il 5.12.2016

dunque, rigettato, con condanna del ricorrente, ai sensi dell’art. 616,

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