Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 11973 del 21/02/2014


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 11973 Anno 2014
Presidente: FIALE ALDO
Relatore: RAMACCI LUCA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
BENEDINI ANTONIETTA N. IL 27/05/1964
avverso la sentenza n. 16618/2009 TRIBUNALE di ROMA, del
18/01/2010
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 21/02/2014 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. LUCA RAMACCI
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott.
che ha concluso per t

Udito, per la parte civile, l’Avv
Udit i difensor Avv.

Data Udienza: 21/02/2014

RITENUTO IN FATTO

1. Il Tribunale di Roma, con sentenza del 18.1.2010 ha condannato
Antonietta BEDINI alla pena dell’ammenda, riconoscendola responsabile delle
contravvenzioni di cui agli artt. 24, 77 lett. a), 52, 77 lett. c) d.P.R. 164/56, 55 e
89, lett. a) così riqualificata, in quest’ultimo caso, l’originaria imputazione (fatti

Avverso tale pronuncia la predetta ha proposto appello tramite il proprio
difensore di fiducia, impugnazione convertita in ricorso per cassazione in quanto
rivolta verso sentenza inappellabile.

2. Con un primo motivo deduce la mancanza di prova in ordine alla sua
responsabilità, rilevando che la sua qualificazione quale datore di lavoro sarebbe
stata accertata dal Tribunale sulla base di una dichiarazione testimoniale, senza
ulteriori verifiche.
Con un secondo motivo lamenta la mancata applicazione dell’istituto della
continuazione, ritenendone sussistenti tutti i requisiti.
Con un terzo motivo censura il mancato riconoscimento delle attenuanti
generiche.
Con un quarto motivo deduce, infine, l’eccessività della pena.
Insiste, pertanto, per l’accoglimento dell’impugnazione.

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. Il ricorso è inammissibile.
Occorre preliminarmente osservare che l’atto di impugnazione risulta
presentato e sottoscritto dall’Avv. Gianluca LATINI, il quale non risulta iscritto
nell’albo speciale della Corte di Cassazione.
Come è noto, alla regola secondo cui il ricorso per cassazione è
inammissibile qualora i motivi siano sottoscritti da avvocato non iscritto nello
speciale albo dei professionisti abilitati al patrocinio dinanzi alle giurisdizioni
superiori non è prevista alcuna deroga, neppure nel caso di appello convertito in
ricorso, poiché altrimenti verrebbero elusi, in favore di chi abbia erroneamente

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accertati in Roma il 2.5.2006).

qualificato il ricorso, obblighi sanzionati per chi abbia proposto l’esatto mezzo di
impugnazione (Sez. V n. 23697, 29 maggio 2003; Sez. III n. 2233, 10 ottobre
1998 ed altre prec. conf.).
Nel caso di specie, tuttavia, l’appello reca in calce l’atto di nomina del
suddetto avvocato sottoscritto personalmente dall’imputata, cosicché, sulla base
di quanto già affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte proprio in relazione ad
una fattispecie relativa ad atto di impugnazione impropriamente definito appello,
perché proposto contro un provvedimento inappellabile, qualificato come ricorso

dall’imputata in quanto l’atto di nomina in esso contenuto ha un implicito ma
evidente valore di condivisione della dichiarazione e dei motivi di ricorso, che
quindi devono giuridicamente ritenersi fatti propri dall’imputata, la quale se ne
assume la paternità (v. SS.UU. n. 47803, 23 dicembre 2008. Conf. Sez. III n.
28961, 18 luglio 2012).
Deve però ricordarsi anche che l’istituto della conversione della
impugnazione previsto dall’art.568, comma 5, cod. proc. pen., ispirato al principio
di conservazione degli atti, determina unicamente l’automatico trasferimento del
procedimento dinanzi al giudice competente in ordine alla impugnazione secondo
le norme processuali e non comporta una deroga alle regole proprie del giudizio
di impugnazione correttamente qualificato. Pertanto, l’atto convertito deve avere
i requisiti di sostanza e forma stabiliti ai fini della impugnazione che avrebbe
dovuto essere proposta (Sez. I n. 2846, 9 luglio 1999. V. anche ex pl. Sez. III n.
26905, 16 giugno 2004; Sez. IV n. 5291, 10 febbraio 2004).
Da ciò consegue che non possono prendersi in considerazione, in questa
sede di legittimità, le questioni concernenti la ricostruzione dei fatti prospettata
nell’atto di impugnazione, né può procedersi ad una loro diversa lettura o
all’autonoma scelta di nuovi e diversi criteri di valutazione.
Ciò posto, deve rilevarsi la manifesta infondatezza dei motivi prospettati.

4. In particolare, per ciò che concerne il primo motivo, deve rilevarsi che la
sussistenza dei fatti descritti nell’imputazione non è oggetto di specifica
contestazione, avendo la ricorrente dedotto esclusivamente la mancanza di
elementi di responsabilità a suo carico in ragione dell’assenza di specifici
accertamenti sulla sua posizione di datore di lavoro.
Risulta tuttavia dalla sentenza impugnata che, all’atto della verifica
ispettiva, venne esibita dal direttore tecnico la documentazione relativa alla
società «Regola d’Arte s.r.I.» della quale l’imputata risultava essere la legale
rappresentante e che la stessa, dopo che venne constata l’eliminazione delle
irregolarità precedentemente contestate, fu ammessa la pagamento

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per cassazione, l’impugnazione può ritenersi presentata personalmente

dell’oblazione e poi denunciata non avendo provveduto al versamento delle
somme dovute.
Aggiunge correttamente il giudice del merito che la qualifica di datore di
lavoro dell’imputata discende dalla carica di legale rappresentante della società,
specificando che l’effettivo esercizio delle funzioni connesse alla qualifica era
stata confermata dall’escussione di una teste effettuata, su richiesta della difesa,
ai sensi dell’art. 507 cod. proc. pen.
Si tratta, ad avviso del Collegio, di valutazioni del tutto pertinenti e

strutturale, restano sottratte ad ogni censura di legittimità.

5. Parimenti manifestamente infondato risulta il secondo motivo di ricorso.
Va rammentato, a tale proposito, come si sia avuto già modo di affermare
che la continuazione può essere ravvisata tra contravvenzioni soltanto se
l’elemento soggettivo ad esse comune sia il dolo e non la colpa, atteso che la
richiesta unicità del disegno criminoso è di natura intellettiva e consiste nella
ideazione contemporanea di più azioni antigiuridiche programmate nelle loro
linee essenziali. (così Sez. III n. 10235, 5 marzo 2013. Conf. Sez. IV n. 1285, 19
gennaio 2005; Sez. III n. 2702, 1 marzo 1991).
Inoltre, si è pure affermato che, ai fini del riconoscimento della
continuazione, è onere dell’imputato dimostrare, nel giudizio di cognizione,
l’allegazione degli specifici elementi dai quali è desumibile l’unicità del disegno
criminoso (Sez. VI n. 43441, 7 dicembre 2010; Sez. V n. 18586, 22 aprile 2004;
Sez. Il n. 40342, 23 ottobre 2003; Sez. I n. 5518, 30 gennaio 1995; Sez. I n.
10077, 3 ottobre 1995; Sez. I n. 4437, 21 novembre 1994; Sez. I n. 1315, 14
aprile 1994).
Nella fattispecie tale prova non risulta essere stata fornita, né la ricorrente
ha indicato in base a quali elementi il giudice di prime cure avrebbe dovuto
riconoscere la continuazione, essendosi limitata ad affermare, del tutto
apoditticamente e senza alcun riferimento concreto, che i reati sarebbero stati
commessi

«…con un unico piano deliberato fin dall’inizio nelle sue linee

essenziali per realizzare un unico fine».

6. Anche l’infondatezza del terzo motivo di ricorso risulta evidente.
Va rilevato, in primo luogo, come dalle conclusioni della difesa riportate in
sentenza non risulti che il riconoscimento delle attenuanti generiche sia stato
richiesto, avendo il difensore formulato richiesta di assoluzione e, in subordine, di
irrogazione del minimo della pena con concessione dei benefici di legge.
In ogni caso, va rilevato che questa Corte ha già avuto modo di osservare

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giuridicamente corrette le quali, in quanto assistite da coerenza logica e tenuta

come la motivazione sul diniego delle attenuanti generiche possa ritenersi
implicita nella valutazione di congruità dei criteri di quantificazione della pena
utilizzati dal giudice del merito e ciò in ragione del fatto che la concessione di
dette attenuanti «risponde a una facoltà discrezionale, il cui esercizio, positivo o
negativo che sia, deve essere motivato nei soli limiti atti a far emergere in
misura sufficiente il pensiero dello stesso giudice circa l’adeguamento della pena
concreta alla gravità effettiva del reato ed alla personalità del reo»

(Sez. VI

n.41365, 23 novembre 2010; Sez. I n. 46954, 2 dicembre 2004).

i criteri direttivi di cui all’art. 133 cod. pen., indicando di ritenere equa la pena poi
effettivamente irrogata, né risulta che egli abbia omesso di considerare positivi
elementi di giudizio che consentissero l’applicazione delle suddette attenuanti il
cui riconoscimento, peraltro, non costituisce un diritto conseguente alla
mancanza di elementi negativi connotanti la personalità del reo.

7. Analogo discorso deve essere effettuato con riferimento al quarto motivo
di ricorso.
Il giudice, nel quantificare la pena, opera una valutazione complessiva sulla
base dei criteri direttivi fissati dall’articolo 133 cod. pen.
La determinazione della misura della pena tra il minimo e il massimo edittale
rientra nell’ampio potere discrezionale attribuito al giudice di merito, che risulta
legittimamente esercitato anche attraverso la globale considerazione degli
elementi indicati nella richiamata disposizione (Sez. IV n.41702, 26 ottobre
2004).
Quanto alla motivazione, si è osservato che una specifica e dettagliata
giustificazione sulla quantità della pena irrogata, specie in relazione alle
diminuzioni o aumenti per circostanze, è necessaria soltanto nel caso in cui essa
sia di gran lunga superiore alla misura media di quella edittale, ritenendosi negli
altri casi’ adeguato il riferimento all’impiego dei criteri di cui all’articolo 133 cod.
pen. mediante espressioni del tipo: “pena congrua”, “pena equa” o “congruo
aumento”, come pure il richiamo alla gravità del reato o alla capacità a
delinquere (Sez. Il n. 36245, 18 settembre 2009).
Dunque, in considerazione di quanto già in precedenza osservato, anche
sotto tale profilo la sentenza impugnata risulta immune da censure.

8. Il ricorso, conseguentemente, deve essere dichiarato inammissibile e alla
declaratoria di inammissibilità – non potendosi escludere che essa sia ascrivibile
a colpa della ricorrente (Corte Cost. 7-13 giugno 2000, n. 186) – consegue l’onere
delle spese del procedimento, nonché quello del versamento, in favore della

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Nella fattispecie, il giudice del merito ha richiamato, nel quantificare la pena,

Cassa delle ammende, della somma, equitativamente fissata, di euro 1.000,00.
L’inammissibilità del ricorso per cassazione per manifesta infondatezza dei
motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e,
pertanto, preclude la possibilità di dichiarare le cause di non punibilità di cui
all’art. 129 cod. proc. pen., ivi compresa la prescrizione intervenuta nelle more

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle
spese del procedimento e della somma di euro 1.000,00 in favore della Cassa
delle ammende.
Così deciso in data 21.2.2014

del procedimento di legittimità (cfr., da ultimo, Sez. Il n.28848, 8 luglio 2013).

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