Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 11860 del 23/01/2014


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 11860 Anno 2014
Presidente: FIALE ALDO
Relatore: GENTILI ANDREA

SENTENZA
sul ricorso proposto da:

DIAW Mamadou, nata a Dakar (Senegal) il 30 dicembre 1973;

avverso la sentenza n. 265 emessa dalla Corte di appello di Torino in data 9 luglio
2013;

letti gli atti di causa, la sentenza impugnata e il ricorso introduttivo;

sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. Andrea GENTILI;

sentito il PM, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. Vito D’AMBROSIO
il quale ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.

1

Data Udienza: 23/01/2014

a

RITENUTO IN FATTO
La Corte di appello di Torino, in riforma della sentenza emessa all’esito di
giudizio abbreviato dal Gip del Tribunale di Torino in data 11 gennaio 2013 e con la
quale – dichiarata la penale responsabilità di Diaw Mamadou per il reati, a lui
contestati in continuazione fra loro, di detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti
– lo aveva condannato, riconosciute in suo favore sia la circostanza attenuante di
cui al comma 5 dell’art. 73 del dPR n. 309 del 1990 che le circostanze attenuanti

reclusione e euro 5.000,00 di multa, riduceva la pena ad anni 1 e mesi 4 di
reclusione ed euro 3000,00 di multa, in considerazione della estrema modestia dei
fatti ascritti al prevenuto, desumibile dal dato ponderale della sostanza
stupefacente detenuta e dal minimo lucro derivante dalla unica cessione accertata.
Insorgeva avverso detta sentenza il condannato osservando che la motivazione
della decisione era contraddittoria e manifestamente illogica in quanto tenuto conto
della riconosciuta scarsa caratura criminale della condotta a lui ascritta, la Corte
territoriale avrebbe potuto determinare la pena base in termini più prossimi al
minimo edittale, applicare le riconosciute attenuanti generiche nella loro massima
estensione e, viceversa, contenere in misura minore di quanto in concreto
avvenuto, l’aumento di pena ai sensi dell’art. 81 cpv cod. pen.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è fondato e lo stesso deve, pertanto essere accolto nei limiti della
considerazioni che seguono.
Deve, preliminarmente osservarsi che, successivamente alla intervenuta
condanna in grado di appello a carico del Diaw – cui, giova immediatamente
ricordare, è stata espressamente riconosciuta, sia in sede di sentenza di primo
grado che in sede di gravame, la ascrivibilità della condotta alla ipotesi
delittuosa, allora, attenuata prevista dall’art. 73, comma 5, del dPR n. 309 del
1990, per i fatti di lieve entità – la predetta disposizione è stata profondamente
incisa per effetto della entrata in vigore del decreto legge 23 dicembre 2013,
che, all’art. 2, ne ha espressamente previsto una nuova formulazione.
La norma in questione, infatti, ad oggi, così recita: “5. Salvo che il fatto
costituisca più grave reato, chiunque commette uno dei fatti previsti dal presente
articolo che, per i mezzi, la modalità o le circostanze dell’azione ovvero per la
qualità e quantità delle sostanze, è di lieve entità, è punito con le pene della
reclusione da uno a cinque anni e della multa da euro 3.000 a euro 26.000.”
E’ evidente che – pur rimanendo per ora in disparte il quesito in ordine alla
natura della previsione innovativa, cioè se, come parrebbe opinione preferibile in
base ad una serie di indici sia sistematici che letterali, essa sia introduttiva di
una nuova, autonoma, ipotesi di reato ovvero se essa, non diversamente da
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generiche ex art. 62-bis cod. pen., alla pena di anni uno, mesi nove e giorni 10 di

quanto previsto dal cessato testo normativo, semplicemente introduca, non
diversamente da quanto ritenuto in base al testo previgente del ricordato comma
5 dell’art. 73 del dPR n. 309 del 1990, una circostanza attenuante ad effetto
speciale laddove il fatto, già costituente reato, sia considerato “di lieve entità” attraverso la novella è stata sensibilmente modificata la forcella esistente fra il
minimo ed il massimo della pena edittale detentiva astrattamente irrogabili;
questa, infatti, rispetto alla precedente previsione “da uno a sei anni” di

cinque anni” di reclusione.
Considerato, altresì, che la nuova versione della disposizione, prevedendo un
pena massima inferiore al passato, è certamente più favorevole al reo, non v’è
dubbio che, ai sensi dell’art. 2, comma quarto, cod. pen., sia questa a dover
essere applicata al caso di specie.
Tale premessa era doverosa, posto che l’attuale ricorrente incentra
esclusivamente le sue doglianze in ordine alla contraddittorietà e manifesta
illogicità della motivazione della sentenza impugnata in punto di quantificazione
della sanzione.
Al riguardo ritiene questa Corte che il ricorso sia fondato.
In tema di determinazione della pena la giurisprudenza di questa Corte ha
avuto modo, più volte, di chiarire che “il giudice del merito, con la enunciazione,
anche sintetica, della eseguita valutazione di uno (o più) dei criteri indicati
nell’art. 133 cod. pen., assolve adeguatamente all’obbligo della motivazione: tale
valutazione, infatti, rientra nella sua discrezionalità e non postula una analitica
esposizione dei criteri adottati per addivenirvi in concreto” (Corte di cassazione,
Sezione II penale, 26 marzo 2008, n. 12749), precisando, altresì, che “nel caso
in cui venga irrogata una pena prossima al minimo edittale, l’obbligo di
motivazione del giudice si attenua, di talché è sufficiente il richiamo al criterio di
adeguatezza della pena, nel quale sono impliciti gli elementi di cui all’art. 133
cod. pen.” ( Corte di cassazione, Sezione II penale, 8 luglio 2013, n. 28852).
Questo principio è stato, d’altro canto, precisato anche nel suo reciproco,
osservandosi che “quanto più il giudice intenda discostarsi dal minimo edittale,
tanto più ha il dovere di dare ragione del corretto esercizio del proprio potere
discrezionale, indicando specificamente, fra i criteri oggettivi e soggettivi
enunciati dall’art. 133 cod. pen., quelli ritenuti rilevanti ai fini di tale giudizio”
(Corte di cassazione, Sezione I penale, 4 giugno 2013 n. 24213).
Tanto considerato in linea generale, rileva il Collegio che, invero, il giudice
della sentenza impugnata, pur avendo riconosciuto che la sanzione irrogata dal
giudice di prime cure fosse “inadeguata per eccesso” rispetto alla “estrema
modestia” dei fatti ascritti, nel procedere alla nuova determinazione della pena
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reclusione, è stato portato, in diminuzione, alla attuale oscillazione “da uno a

non solo, senza alcuna giustificazione, ha preso le mosse da una pena base
detentiva sensibilmente superiore al minimo edittale (due anni di reclusione
laddove il minimo è uno) e, peraltro, ad oggi prossima alla media fra la pena
minima e quella massima, ma, sempre senza fornire di ciò alcuna motivazione,
nell’applicare la attenuazione di pena ai sensi dell’art. 62-bis cod. pen., pur
potendo abbattere la pena sino ad un terzo, la ha ridotta solamente per un
ottavo della pena base, riduzione, peraltro, di fatto elisa per effetto dell’aumento

precedente attenuazione.
Ad avviso di questa Corte, pertanto, la discrezionalità di cui egli gode, come
sopra evidenziato, nella determinazione della irroganda pena, è stata esercitata
dal Giudice d’appello in termini sia di contraddittorietà, posto che a fronte della
dichiarata “estrema modestia” del fatto di reato soggetto al giudizio, egli ha
attestato la risposta sanzionatoria in termini non di contenutezza della pena ma
in termini di sostanziale medietà di essa, sia in maniera immotivata, essendosi
egli, pur distaccandosi non marginalmente dai confini edittali, limitato ad
esplicitare esclusivamente sotto il profilo aritmetico il calcolo della pena, senza
affatto indicare, sulla base dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen., le ragioni per
la individuazione della pena base e per la scelta di applicare la diminuzione ex
art. 62 bis cod. pen. non nella sua piena potenzialità ma in misura ridotta.
Tanto più tali vizi appaiono ora rilevanti ove si consideri che, per effetto del
ricordato sopravvenuto intervento legislativo, il complessivo trattamento
sanzionatorio concernente il reato contestato al ricorrente risulta essere stato
mitigato.
La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata, limitatamente alla
determinazione della pena, con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di
Torino, che provvederà alla sua nuova determinazione, in applicazione di quanto
sopra esposto.
PQM

Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla determinazione della pena e
rinvia sul punto ad altra sezione della Corte di appello di Torino.
Così deciso in Roma, il 23 gennaio 2014
Il Consigliere estensore

Il Presidente

di pena applicato ai sensi dell’art. 81, cpv, cod pen. in misura pari alla

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