Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 11807 del 13/02/2014


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 11807 Anno 2014
Presidente: FERRUA GIULIANA
Relatore: PISTORELLI LUCA

SENTENZA

sul ricorso proposto dal difensore di:
Donato Giuseppe, nato a Caraffa di Catanzaro, 1’8/5/1944;

avverso la sentenza del 13/6/2012 della Corte d’appello di Milano;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. Luca Pistorelli;
udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. Enrico
Delehaye, che ha concluso per l’annullamento con rinvio del provvedimento impugnato
limitatamente al trattamento sanzionatorio.
RITENUTO IN FATTO
1.Con sentenza del 13 giugno 2012 la Corte d’appello di Milano confermava la
condanna di Donato Giuseppe per il reato di tentata violenza privata, mentre in parziale
riforma della pronunzia di primo grado lo proscioglieva dalle due imputazioni di lesioni

Data Udienza: 13/02/2014

per le quali pure era stato condannato per essersi i reati estinti uno per remissione
della querela e l’altro per l’intervenuta prescrizione. La Corte distrettuale provvedeva
altresì a revocare le statuizioni civili della sentenza appellata in seguito alla revoca della
costituzione di parte civile.
2. Avverso la sentenza ricorre l’imputato a mezzo del proprio difensore deducendo la
violazione degli artt. 597 commi 1, 3 e 4 c.p.p. e rilevando come, nel rideterminare la
pena per il residuo reato per cui vi è stata conferma della condanna pronunziata in

elevata di quella fissata dal giudice di prime cure, nonostante l’appello fosse stato
proposto esclusivamente dall’imputato.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.11 ricorso è infondato.
1.1 Non è in dubbio che, come ricordato nel ricorso, nel giudizio di appello, il divieto di
reformatio in peius della sentenza impugnata dall’imputato non riguardi solo l’entità
complessiva della pena, ma tutti gli elementi autonomi che concorrono alla sua
determinazione (Sez. Un., n. 40910 del 27 settembre 2005, William Morales, Rv.
232066). Ed in tal senso è consolidato insegnamento di questa Corte quello per cui,
qualora il giudice d’appello accolga il gravame o comunque prosciolga l’imputato in
relazione a reati concorrenti, deve necessariamente ridurre non solo la pena
complessivamente inflitta, ma anche tutti gli elementi che rilevano nel calcolo di essa
(Sez. 4, n. 41585 del 4 novembre 2010, Pizzi, Rv. 248549, pronunziata in relazione a
fattispecie nella quale il giudice d’appello, assolto l’imputato dal reato più grave tra più
reati in continuazione, aveva erroneamente determinato la pena-base per la nuova
violazione più grave in misura identica a quella individuata dal primo giudice per un
reato di maggiore gravità, pur avendo ridotto la pena complessivamente inflitta).
1.2 Più in generale va evidenziato che il giudice d’appello non è vincolato nella
determinazione della pena per il reato residuo, meno grave, alla quantità di pena già
individuata quale aumento ex art. 81 cpv. c.p. nella sentenza impugnata. Non di meno
egli, in forza del menzionato divieto di reformatio in peius, non può irrogare una pena
che, per specie e quantità, costituisca un aggravamento di quella individuata nel
giudizio precedente quale base per il computo degli aumenti a titolo di continuazione
(cfr., con riguardo alla analoga ipotesi di rideterminazione della pena nel giudizio di
rinvio, Sez. 6, n. 4162/13 del 7 novembre 2012, Ancona e altri, Rv. 254263).

2. Alla luce dei ricordati principi, nel caso di specie i giudici d’appello non avrebbero
dunque potuto stabilire quale base di calcolo per la determinazione del trattamento
sanzionatorio riservato al residuo reato ex artt. 56 e 610 c.p. una pena superiore a

primo grado, la Corte distrettuale avrebbe assunto a base di calcolo una pena base più

quella di otto mesi computata dal Tribunale quale pena base per il reato di lesioni
ritenuto più grave nel giudizio di primo grado.
2.1 Contrariamente a quanto sostenuto con il ricorso, deve osservarsi però che la Corte
distrettuale non ha superato il suddetto limite, atteso che la “nuova” pena base per il
reato di tentata violenza privata è stata determinata in mesi sei di reclusione e dunque
in misura inferiore a quella adottata in precedenza.
2.2 E’ sì vero che nella sentenza si menziona una “pena base” di un anno, ma solo

fattispecie tentata contestata ricorrendo al metodo c.d. “bifasico” anziché a quello
sintetico (sull’equivalenza dei due metodi v. da ult. Sez. 5, n. 39475 del 19 giugno
2013, Brescia e altri, Rv. 256711). Ma ciò non toglie che, costituendo il delitto tentato e
quello consumato figure autonome di reato (ex multis Sez. 2, n. 24643 del 21 marzo
2012, Errini, Rv. 252832), autonome sono anche le pene edittali previste per il primo,
ancorchè le stesse vengano normativamente determinate come frazioni di quelle
stabilite per il secondo. Dunque, come detto, la effettiva pena base – sulla quale è stata
poi effettuata la diminuzione per le concesse attenuanti generiche – fissata in sentenza
deve ritenersi quella di sei mesi e non quella di un anno indicata dal ricorrente. Pena,
che come già detto, risulta inferiore a quella individuata dal giudice di prime cure, con
la conseguenza che non sussiste la lamentata violazione del divieto di reformatio in
peius.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 13/2/2014

perché nel caso di specie i giudici d’appello hanno preferito individuare la pena per la

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