Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 11764 del 30/01/2014


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 11764 Anno 2014
Presidente: CARMENINI SECONDO LIBERO
Relatore: PELLEGRINO ANDREA

Data Udienza: 30/01/2014

SENTENZA
Sul ricorso proposto nell’interesse di AHMETOVIC Negib, n. a Bitonto
il 03.11.1975, attualmente detenuto per altra causa, rappresentato
ed assistito dall’avv. Pietro Conte, avverso la sentenza n. 142/2013
della Corte d’Appello di Napoli, settima sezione penale, in data
06.03.2013;
rilevata la regolarità degli avvisi di rito;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
letta la memoria presentata dall’interessato pervenuta in cancelleria
in data 09.01.2014;
udita la relazione svolta dal consigliere dott. Andrea Pellegrino;
viste le conclusioni del Sostituto procuratore generale dott. Paolo
Canevelli che ha chiesto il rigetto del ricorso / sentita la discussione
della difesa avv. Marco Cinquegrana in sostituzione dell’avv. Pietro
Conte che ha concluso perché venisse dichiarata la nullità della
sentenza impugnata.

i

RITENUTO IN FATTO

1. Con la pronuncia impugnata, la Corte d’Appello di Napoli, settima
sezione penale, confermava la sentenza pronunciata in primo grado
dal Tribunale di Napoli in data 24.09.2012 con la quale AHMETOV1C
Negib era stato condannato alla pena di anni quattro di reclusione

ed euro 1.100,00 di multa per il reato di cui agli artt. 110, 648-bis
cod. pen..
2. Avverso la sentenza della Corte d’Appello di Napoli, settima sezione
penale, nell’interesse di AHMETOVIC Negib veniva proposto ricorso
per cassazione per i seguenti motivi:
– inosservanza ed erronea applicazione della legge penale ex art. 606
lett. b) cod. proc. pen. (primo motivo);
– palese illogicità della motivazione (secondo motivo).
Nella trattazione congiunta delle doglianze il ricorrente lamenta come
fosse stata affermata la penale responsabilità dell’imputato avallando
principi giurisprudenziali relativi a fattispecie del tutto diverse e, come
tali, inconferenti. In realtà, si evidenziava come, quella posta in essere
dall’AHMETOVIC Negib, unitamente al coimputato AHMETOVIC Adriano,
giudicato separatamente, fosse finalizzata all’esclusivo
impossessamento di parti dell’autovettura non contrassegnate da alcun
numero seriale di riconoscimento, smontaggio che mai avrebbe potuto,
successivamente, ostacolare l’identificazione della cosa rubata. Tutto il
percorso motivazionale della sentenza impugnata si fondava pertanto
sull’erronea valutazione che la sostituzione di una portiera o di un
pneumatico potesse consentire un’operazione di riciclaggio tale da
ostacolare l’identificazione della loro provenienza delittuosa.

CONSIDERATO IN DIRITTO

3.

Il ricorso è manifestamente infondato e, come tale, va dichiarato
inammissibile.

4.

Prima di passare alla trattazione dei motivi di ricorso proposti, si ritiene
necessario premettere, con riguardo ai limiti del sindacato di
legittimità, delineati dall’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen.,
come vigente a seguito delle modifiche introdotte dalla L. n. 46 del

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2006, che, a parere di questo Collegio, la predetta novella non ha
comportato la possibilità, per il giudice della legittimità, di effettuare
un’indagine sul discorso giustificativo della decisione finalizzata a
sovrapporre una propria valutazione a quella già effettuata dai giudici
di merito, dovendo il giudice della legittimità limitarsi a verificare
l’adeguatezza delle considerazioni di cui il giudice di merito si è avvalso
per sottolineare il suo convincimento. La mancata rispondenza di

queste ultime alle acquisizioni processuali può, soltanto ora, essere
dedotta quale motivo di ricorso qualora comporti il c.d. travisamento
della prova, purché siano indicate in maniera specifica ed inequivoca le
prove che si pretende essere state travisate, nelle forme di volta in
volta adeguate alla natura degli atti in considerazione, in modo da
rendere possibile la loro lettura senza alcuna necessità di ricerca da
parte della Corte, e non ne sia effettuata una monca individuazione od
un esame parcellizzato.
L’illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, poi, deve
risultare di spessore tale da risultare percepibile ictu ocu/i, dovendo il
sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di
macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e
considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non
espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la
decisione adottata, purché siano spiegate in modo logico ed adeguato
le ragioni del convincimento senza vizi giuridici (in tal senso,
conservano validità, e meritano di essere tuttora condivise, Cass., Sez.
un., n. 24 del 24/11/1999-dep. 16/12/1999, Spina, rv. 214794; Id., n.
12 del 31/05/2000-dep. 23/06/2000, Jakani, rv. 216260; Id., n. 47289
del 24/09/2003-dep. 10/12/2003, Petrella, rv. 226074). A tal riguardo,
deve tuttora escludersi sia la possibilità di un’analisi orientata ad
esaminare in modo separato ed atomistico i singoli atti, nonché i motivi
di ricorso su di essi imperniati ed a fornire risposte circoscritte ai
diversi atti ed ai motivi ad essi relativi (Cass., Sez. 6, n. 14624 del
20/03/2006-dep. 27/04/2006, Vecchio, rv. 233621; Cass., Sez. 2, n.
18163 del 22/04/2008-dep. 06/05/2008, Ferdico, rv. 239789), che la
possibilità per il giudice di legittimità di una rilettura degli elementi di
fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di
nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (Cass.,
Sez. 6, n. 27429 del 04/07/2006-dep. 01/08/2006, Lobriglio, rv.

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234559; Id., n. 25255 del 14/02/2012-dep. 26/06/2012, Minervini, rv.
253099).
Il ricorso che, in applicazione della nuova formulazione dell’art. 606,
comma 1, lett. e), cod. proc. pen. intenda far valere il vizio di
«travisamento della prova» (consistente nell’utilizzazione di
un’informazione inesistente o nell’omissione della valutazione di una
prova, accomunate dalla necessità che il dato probatorio, travisato od

omesso, abbia il carattere della decisività nell’ambito dell’apparato
motivazionale sottoposto a critica) deve, inoltre, a pena di
inammissibilità (Cass., Sez. 1, n. 20344 del 18/05/2006-dep.
14/06/2006, Salaj, rv. 234115; Cass., Sez. 6, n. 45036 del
02/12/2010-dep. 22/12/2010, Damiano, rv. 249035):
(a)

identificare specificamente l’atto processuale sul quale fonda la

doglianza;
(b) individuare l’elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto
emerge e che risulta asseritamente incompatibile con la ricostruzione
svolta nella sentenza impugnata;
(c)

dare la prova della verità dell’elemento fattuale o del dato

probatorio

invocato,

nonché

dell’effettiva

esistenza

dell’atto

processuale su cui tale prova si fonda tra i materiali probatori
ritualmente acquisiti nel fascicolo del dibattimento;
(d)

indicare le ragioni per cui l’atto invocato asseritamente inficia e

compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l’intera coerenza
della motivazione, introducendo profili di radicale “incompatibilità”
all’interno dell’impianto argomentativo del provvedimento impugnato.
Il giudice di legittimità ha, ai sensi del novellato art. 606 cod. proc.
pen., il compito di accertare (Cass., Sez. 6, n. 35964 del 28/09/2006dep. 26/10/2006, Foschini ed altro, rv. 234622; Cass., Sez. 3, n.
39729 del 18/06/2009-dep. 12/10/2009, Belluccia ed altro, rv.
244623; Cass., Sez. 5, n. 39048 del 25/09/2007-dep. 23/10/2007,
Casavola ed altri, rv. 238215):
(a)

il contenuto del ricorso (che deve contenere gli elementi sopra

individuati);
(b) la decisività del materiale probatorio richiamato (che deve essere
tale da disarticolare l’intero ragionamento del giudicante o da
determinare almeno una complessiva incongruità della motivazione);
(c) l’esistenza di una radicale incompatibilità con l’iter motivazionale

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seguito dal giudice di merito e non di un semplice contrasto (non
essendo il giudice di legittimità obbligato a prendere visione degli atti
processuali anche se specificamente indicati, ove non risulti detto
requisito);
(d) la sussistenza di una prova omessa o inventata, e del c.d.
«travisamento del fatto», ma solo qualora la difformità della realtà
storica sia evidente, manifesta, apprezzabile

ictu ocu/i ed assuma

anche carattere decisivo in una valutazione globale di tutti gli elementi
probatori esaminati dal giudice di merito (il cui giudizio valutativo non
sindacabile in sede di legittimità se non manifestamente illogico quindi,
anche contraddittorio).
Anche il giudice d’appello non è tenuto a rispondere a tutte le
argomentazioni svolte nell’impugnazione, giacché le stesse possono
essere disattese per implicito o per aver seguito un differente iter
motivazionale o per evidente incompatibilità con la ricostruzione
effettuata (per tutte, Cass., Sez. 6, n. 1307 del 26/09/2002-dep.
14/01/2003, Delvai, rv. 223061).
In presenza di una doppia conforme affermazione di responsabilità, va,
peraltro, ritenuta l’ammissibilità della motivazione della sentenza
d’appello per relationem a quella della decisione impugnata, sempre
che le censure formulate contro la sentenza di primo grado non
contengano elementi ed argomenti diversi da quelli già esaminati e
disattesi, in quanto il giudice di appello, nell’effettuazione del controllo
della fondatezza degli elementi su cui si regge la sentenza impugnata,
non è tenuto a riesaminare questioni sommariamente riferite
dall’appellante nei motivi di gravame, sulle quali si sia soffermato il
primo giudice, con argomentazioni ritenute esatte e prive di vizi logici,
non specificamente e criticamente censurate. In tal caso, infatti, le
motivazioni della sentenza di primo grado e di appello, fondendosi, si
integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico ed inscindibile
al quale occorre in ogni caso fare riferimento per giudicare della
congruità della motivazione, tanto più ove i giudici dell’appello abbiano
esaminato le censure con criteri omogenei a quelli usati dal giudice di
primo grado e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed
ai passaggi logico-giuridici della decisione, sicché le motivazioni delle
sentenze dei due gradi di merito costituiscano una sola entità (Cass.,
Sez. 2, n. 1309 del 22/11/1993-dep. 04/02/1994, Albergamo ed altri,

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rv. 197250; Cass., Sez. 3, n. 13926 del 10/12/2011-dep. 12/04/2012,
Valerio, rv. 252615).
Per quel che concerne il significato da attribuire alla locuzione «oltre
ogni ragionevole dubbio», presente nel testo novellato dell’art. 533
cod. proc. pen. quale parametro cui conformare la valutazione inerente
all’affermazione di responsabilità dell’imputato, è opportuno
evidenziare che, al di là dell’icastica espressione, mutuata dal diritto

anglosassone, ne costituiscono fondamento il principio costituzionale
della presunzione di innocenza e la cultura della prova e della sua
valutazione, di cui è permeato il nostro sistema processuale. Si è, in
proposito, esattamente osservato che detta espressione ha una
funzione meramente descrittiva più che sostanziale, giacché, in
precedenza, il «ragionevole dubbio» sulla colpevolezza dell’imputato ne
comportava pur sempre il proscioglimento a norma dell’art. 530,
comma 2 cod. proc. pen., sicché non si è in presenza di un diverso e
più rigoroso criterio di valutazione della prova rispetto a quello
precedentemente adottato dal codice di rito, ma è stato ribadito il
principio, già in precedenza immanente nel nostro ordinamento
costituzionale ed ordinario (tanto da essere già stata adoperata dalla
giurisprudenza di questa Corte Suprema – per tutte, cfr. Cass., Sez.
un., n. 30328 del 10/07/2002-dep. 11/09/2002, Franzese, rv. 222139
– e solo successivamente recepita nel testo novellato dell’art. 533 cod.
proc. pen.), secondo cui la condanna è possibile soltanto quando vi sia
la certezza processuale assoluta della responsabilità dell’imputato (cfr.
Cass., Sez. 2, n. 19575 del 21/04/2006-dep. 07/06/2006, Serino ed
altro, rv. 233785; Id., n. 16357 del 02/04/2008-dep. 18/04/2008,
Crisiglione, rv. 239795; Id., n. 7035 del 09/11/2012-dep. 13/02/2013,
De Bartolomei ed altro, rv. 254025).
5. Fermo quanto precede, va ulteriormente premesso come lo sviluppo
argomentativo della motivazione della sentenza impugnata, da
integrarsi con quella di primo grado, sia fondato su una coerente
analisi critica degli elementi di prova e sulla loro coordinazione in un
organico quadro interpretativo, alla luce del quale appare dotata di
adeguata plausibilità logica e giuridica l’attribuzione a detti elementi
del requisito della sufficienza, rispetto al tema di indagine concernente
la responsabilità del ricorrente in ordine al delitto contestato. La
motivazione della sentenza impugnata supera il vaglio di legittimità

6

demandato a questa Corte, alla quale non è tuttora consentito di
procedere ad una rinnovata valutazione dei fatti magari finalizzata,
nella prospettiva del ricorrente, ad una ricostruzione dei medesimi in
termini diversi da quelli fatti propri dal giudice del merito. Le censure
proposte sono da considerarsi inammissibili posto che, con le stesse, si
muovono non già precise contestazioni di illogicità argomentativa, ma
solo doglianze di merito, non condividendosi dal ricorrente le

quelle dispiegate nella sentenza impugnata.
6. Costituisce principio ormai consolidato della giurisprudenza di questa
Suprema Corte – correttamente ripreso dai giudici di merito – come
integri l’elemento oggettivo del reato di riciclaggio anche il mero
smontaggio di singoli pezzi, pur privi di codice identificativo, di un bene
mobile registrato, come un’autovettura o un ciclomotore, di
provenienza delittuosa, rientrando tale condotta nella nozione
normativa di operazione adatta ad ostacolare l’identificazione della
provenienza delittuosa del bene (Cass., Sez. 2, n. 12766 del
11/03/2011-dep. 29/0372011, Spagnolo ed altro, rv. 249678).
Al riguardo, va premesso che, con la riforma attuata dalla L. 9 agosto
1993, n. 328, art. 4, il delitto di riciclaggio è a forma libera, grazie alla
previsione di chiusura che, alle condotte di sostituzione o
trasferimento, ha aggiunto qualsiasi altra operazione atta ad ostacolare
l’identificazione della provenienza delittuosa del bene: è pacifico che
possa trattarsi di operazioni anche meramente materiali sui beni
(diversamente, sarebbe bastato ad integrare il delitto il trasferimento
della

res,

già previsto come condotta rilevante nell’originaria

formulazione della norma incriminatrice), purché tali da ostacolare
“l’identificazione della loro provenienza delittuosa”.
Il riferimento alle condotte che ostacolano l’identificazione della
provenienza delittuosa – e, prima ancora, a quelle di trasferimento icasticamente evidenzia che la condotta del soggetto attivo del reato
può incidere tanto sulla mera identità del bene, ovvero sulla sua
“riconoscibilità”, quanto sulla “tracciabilità” del suo percorso. Invero,
per escludere il delitto di riciclaggio non basta che il bene resti
astrattamente tracciabile se poi, proprio in forza di interventi di
manomissione delle sue componenti, se ne altera l’identità in modo da
non renderlo più riconoscibile. E, per converso, un bene può restare

l

i

conclusioni attinte ed anzi proponendosi versioni più persuasive di

fisicamente identico e, ciò nondimeno, di difficile tracciabilità a cagione
di plurimi trasferimenti dopo essere stato sottratto alla sfera di
controllo del suo titolare.
Nel caso dei beni mobili registrati, la tracciabilità è legata alle relative
risultanze documentali e queste ultime all’identità del mezzo che,
contrariamente a quanto ritenuto dall’odierno ricorrente, è data non
soltanto dagli identificativi fisicamente impressi sul bene (come i

numeri di telaio o di motore) o comunque ad esso incorporati (come la
targa), ma anche dal modello e dall’epoca di produzione.
Di conseguenza, per tornare all’autovettura per cui è processo, pur
senza intaccarne numero di telaio o di motore, una volta smontati
taluni pezzi e sostituiti con altri analoghi, ancorché per ipotesi di
modelli differenti (per tipo, epoca e/o casa produttrice), si ottiene il
medesimo risultato, vale a dire la creazione di un bene non più
conforme (e, quindi, di non agevole riconoscibilità) ai numeri
identificativi su di esso rimasti inalterati.
Pertanto, è erronea l’affermazione del ricorrente secondo cui l’aver
smontato soltanto alcune componenti prive di codice identificativo
(sportelli, paraurti, parafanghi, parti del motore) lasciava ancora
riconoscibile il mezzo: in realtà, come questa Suprema Corte ha
sempre insegnato, integra il delitto di riciclaggio il compimento di
operazioni volte non solo ad impedire in modo definitivo, ma anche
soltanto a rendere difficile l’accertamento della provenienza del bene
(cfr. Cass., Sez. 6, n. 16980 del 18/12/2007-dep. 24/04/2008, Papale;
Cass. n. 2818/06; Cass. n. 47088/03; Cass. n. 9026/97) e, alla
stregua di quanto precede, è indubbio che un’autovettura che monti
sportelli, paraurti, parafanghi e parti di motore appartenuti ad altra sia
riconoscibile non più immediatamente, ma solo all’esito di un controllo
più approfondito.
È, dunque, non corretta la supposizione del ricorrente secondo cui il
delitto di riciclaggio non potrebbe prescindere da un’azione incidente
sugli identificativi numerici e/o documentali del bene mobile registrato,
nè questa Suprema Corte ha mai statuito il contrario. Infatti, come si
riconosce in altro precedente della giurisprudenza di legittimità (Cass.,
Sez. 2, n.

15092 del 02/04/2007-dep. 13/04/2007, P.M. in proc.

Morino e altri, rv. 236354), se le operazioni tese ad ostacolare
l’identificazione della provenienza delittuosa possono consistere sia in

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quelle che incidono sulla cosa o ne alterano i dati esteriori, sia in quelle
che lo trasformano o lo modificano parzialmente, allora anche lo
smontaggio di un veicolo in singoli pezzi è riconducibile a tale categoria
di operazioni. Tale operazione è infatti simile a quelle di taglio di pietre
preziose o lo smontaggio e la fusione di gioielli altrimenti riconoscibili,
che all’evidenza integrerebbero il delitto di riciclaggio, ricorrendone gli
altri presupposti richiesti dalla norma incriminatrice, essendo

provenienza delittuosa dei suddetti beni. A tale proposito va ricordato
che questa Corte ha affermato che “la disposizione di cui all’art. 648-

bis cod. pen., pur configurando un reato a forma libera, richiede che le
attività poste in essere sul denaro, bene od utilità di provenienza
delittuosa siano specificamente dirette alla sua trasformazione parziale
o totale, ovvero siano dirette ad ostacolare l’accertamento sull’origine
delittuosa della

res, anche senza incidere direttamente, mediante

alterazione dei dati esteriori, sulla cosa in quanto tale” (Cass., Sez. 2,
n. 47088 del 14/10/2003-dep. 09/12/2003, rv. 227731).
Non è quindi necessario, per integrare il delitto di riciclaggio di un
autoveicolo di provenienza delittuosa, che siano alterati i dati
identificativi dello stesso quali il telaio, il numero di targa o quello del
motore, potendosi ottenere il risultato di occultarne la provenienza
delittuosa anche smontando il veicolo e vendendo o riutilizzando i
singoli pezzi. Smontaggio e riutilizzo integrano infatti proprio
l’elemento specializzante della più grave fattispecie di riciclaggio
(rispetto a quella di ricettazione) consistente, come detto,
nell’ostacolare l’individuazione della provenienza delittuosa dei beni.
7. Alla pronuncia consegue, per il disposto dell’art. 616 cod. proc. pen., la
condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché
al versamento, in favore della Cassa delle ammende, di una somma
che, considerati i profili di colpa emergenti dal ricorso, si determina
equitativamente in euro 1.000,00

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento
delle spese processuali e della somma di euro 1.000,00 alla Cassa delle
ammende.

./1

oggettivamente e soggettivamente finalizzate ad occultare la

Così deliberato in Roma, udienza pubblica del 30.1.2014

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